Ritrovare l'Italia
vuole essere, per dirlo con le
parole della società editrice, “Il Mulino” di Bologna, “una
collana di itinerari d'autore tra storia e cultura”. Tra gli ultimi
titoli c'è un Andare per la Sicilia dei Greci,
affidato ad un antropologo dai molti interessi, Franco La Cecla, che
ha prodotto ricerche assai apprezzate sull'architettura (più
precisamente “contro l'architettura”), su Illich,
sull'alimentazione. Il libro sulla Sicilia dei Greci, resoconto di un
viaggio e di una sistematica ricognizione, è davvero da leggere e
aiuta a guardare con occhi nuovi anche chi a torto pensava che da
certi luoghi avesse tratto tutte le possibili rivelazioni ed
emozioni. Posto qui uno stralcio dalle pagine dedicate a Gela.
(S.L.L.)
Gela, Mura di Timoleonte |
Eschilo, figlio di
Euforione, copre questo
Sepolcro. E morto a
Gela feconda di messi.
Il suo strenuo
coraggio possono dichiarare il bosco
Di Maratona e il Medo
chiomato che ne fece esperienza.
(Epitaffio sul sepolcro
di Eschilo, 456 a.C.)
Quando ieri sono arrivato
a Gela mi ha accolto la luce abbacinante del sole di maggio e ho
ritrovato le dune che non mi avevano mai abbandonato da Kamarina.
Dune, dune aggressive e una costa a trabocchetto che in antichità
pullulava di pozze mefitiche, paludi - e i Greci ne bonificarono
parecchie - e grandi spiagge esauste, che appena spira il vento si
mangiano i villini dei locali, ne grattano le persiane, ne sberciano
i muri, ne inghiottono le fondamenta. Una terra di bradisismi che
sono il timore costante del direttore del museo di Kamarina che si
vede sottrarre dal mare pezzi della città antica.
Gela è allucinante, una
Detroit mediterranea in cui l'unica colonna rimasta dell'acropoli
della città greca ha come sfondo le ciminiere della raffineria. Una
città mostro tutta deformata da orribili palazzine, da immense
cisterne ed enormi bombole di gas che si appoggiano alle dune. La
bruttezza è talmente estrema da diventare archeologia di se stessa,
un brutalismo ingenuo di illusioni di progresso industriale e di
abusivismo edilizio. Il museo che è prospiciente al sito di capo
Molino a Vento è un'orrida architettura anni Sessanta, un bunker che
vorrebbe imitare il tufo dei templi.
Faccio il biglietto e mi
lancio direttamente sull'acropoli, vedo studenti appoggiati ai resti
di abitazioni greche. Mi fermo e chiedo loro che mi spieghino il
posto. Ma sono studenti, mi dicono, dell'Accademia di Belle Arti. Mi
sposto più su, sul sentiero che porta verso l'unica colonna del
tempio di Atena - le altre e tutta la zona vennero saccheggiate da
Federico II come se fossero una comune cava di pietra (impressionante
pensare che tutto fosse ancora in piedi nel 1200, al-Idrisi, lo
scrittore arabo che lavorava al servizio del re normanno, parla di
una selva di colonne che si attestano accanto al corso del fiume
Gela). Più in là tre individui parlano accoratamente di politica
tra le zolle e i resti. Chiedo loro se per caso parlano della
politica di Gelone e Terone, se trattano delle lotte tra Gela e
Siracusa e Cartagine. No, parlano di politica locale. Ma prendono con
divertimento il mio scherzo. E scopro che sono qui perché si è
aperta in una struttura sull'acropoli una mostra di foto e pitture.
Mi raccontano però di una nave greca smontata che si trova a
Caltanissetta e che dovrebbe tornare qui, di un mosaico appena
rinvenuto in città in casa di un privato. Ecco, la grecità che si
infila nella vita quotidiana e diventa gossip. Però chiamano uno
bravo che può farmi da guida.
Così conosco Giuseppe,
un giovane archeologo di Gela, appassionatissimo, con cui cominciamo
un duetto che durerà tutta la giornata. Vedo nelle sue parole che i
Greci possono essere vivi non solo per me. Mi racconta per prima cosa
di Timoleonte, di come quest'uomo giunto da Corinto avesse riscattato
buona parte della Sicilia in mano ai tiranni liberandola in più dai
cartaginesi. Una lunga vita di battaglie vinte e la capacità di
ridare alla Sicilia greca il senso di un'unità. Gela, che era stata
distrutta dai Cartaginesi nel 405 a.C, venne ricostruita da
Timoleonte. Fa bene pensare che ci sia stata una Gela diversa da
quella presente, importantissima, fondata nel 668 a.C. su una collina
parallela al mare, alla foce del fiume Gelas, una delle maggiori
colonie doriche di Sicilia. Tucidide dice che erano coloni da Rodi e
da Creta. Il luogo fu scelto per la coltivazione del frumento e
l'allevamento dei cavalli. Già pochi decenni dopo le popolazioni
autoctone interne di Butera e Monte Bubbonia erano grecizzate. E fu
Gela a fondare nel 582 Akragas. Il tempio dedicato ad Atena sorgeva
sull'acropoli ed era ornato da magnifiche terrecotte policrome in cui
i Gelesi (anzi i Geloi, come dicono gli studiosi dell'antichità
classica) eccellevano; al museo se ne ammirano alcune. Ebbe una
sequela di ambiziosi tiranni. Ippocrate, uno di questi, si inimicò
le popolazioni vicine e provocò l'unica rivolta di grandi
proporzioni degli autoctoni guidati da Ducezio. Alla morte di
Ippocrate gli successe Gelone, discendente dei fondatori e della
famiglia dei Deinomedi che finiranno per imporsi a quasi tutta
l'isola. Gelone si imparenta con Terone, tiranno di Akragas, e si
impossessa di Siracusa. Insomma l'influenza di Gela è talmente ampia
che diventa uno dei centri propulsori della cultura greca in Sicilia.
Eschilo vi scrive una parte della trilogia dell'Orato, anche se
inutili fino a oggi sono state le ricerche per capire dove si
situasse il teatro.
Dopo alterne vicende e
dispute tra città greche di Sicilia e dopo l'intervento distruttivo
dei Cartaginesi, Timoleonte appare come una nuova figura di fondatore
con idee nuove in campo urbanistico e con una visione di
pacificazione e alleanza tra le colonie greche. Per questo Giuseppe
La Spina, il giovane archeologo, mi porta anzitutto a capo Soprano a
vedere il magnifico bastione che Timoleonte aveva eretto a difesa
della città da qualche anno tirato fuori da una duna di 60 metri di
altezza. È uno spettacolo imponente, il basamento in pietra calcarea
e il resto in mattoni crudi che si sono conservati perché protetti
dagli strati di sabbia. Le mura correvano tutt'intorno alla città
per 12 chilometri e si ergono ancora per un'altezza di sei metri e
uno spessore di tre. Il tratto che visitiamo - un'opera muraria che
corre per 400 metri - è stato scoperto per caso nel 1948 da un
contadino che era convinto di aver trovato i resti del teatro di
Eschilo. Parliamo della casualità con cui buona parte dei
ritrovamenti archeologici importanti sono avvenuti. Sono sempre
contadini o pastori o non professionisti a trovare le cose, raramente
gli archeologi.
Torniamo al museo, che è
una miniera di oggetti rari. Intanto un'enorme collezione di vasi e
di anfore istoriate nello stile attico sia di provenienza dalla
madrepatria sia di fattura locale.
[...]
Mi rendo conto per la
prima volta di qualcosa che poi ritroverò in altri musei siciliani.
Quello che vedo è la punta di un iceberg che mostra una parte di un
immenso patrimonio, vasi, statue, ex voto, ceramiche e terrecotte,
monete e argenti, are votive e teste di satiri e gorgoni che
chiudevano i canali pluviali dei tetti dei templi. Il tutto
accompagnato certo da spiegazioni, didascalie, bigliettini e chiuso
in teche illuminate in maniera un po' incerta. C'è nell'insieme
l'impressione di una fretta che non fa in tempo a rendere conto
dell'enorme patrimonio e che forse non se ne rende conto. Di fronte
ad alcuni vasi, come quello che ritrae Enea con Anchise sulle spalle,
mi vengono le lacrime agli occhi. Fortuna che posso ancora vederli,
penso, ma quanta distrazione apparente, quanta incapacità di
racconto! Questi manufatti sono tra i più eccellenti della storia
dell'umanità e sono trattati qui come parafernalia di una
quotidianità a cui si è troppo abituati. Viene fuori un'Italietta
anni Cinquanta che era già stufa di essere identificata con un
passato classico e fremeva per la modernità delle 600 Fiat.
Eppure si continua per
fortuna a scavare e scoprire. [...]
Nessun commento:
Posta un commento