Parte prima
1.
Nonostante il
dentifricio, il filo, il colluttorio e l’aerosol, si sentiva la
bocca impastata.
Aprì la finestra e si
guardò intorno, operazione insolita per lui, che aborriva non solo i
paesaggi naturali, ma anche quelli che davano l’impressione di
esserlo. I boschi, i laghetti, i fiumiciattoli, i cespugli
verdeggianti, i colori cangianti secondo l’ora e la stagione
potevano fare la gioia dei bimbi, dei cineasti e dei tedeschi, non
certo la sua. Lui sapeva, anche per averlo inteso ad un convegno,
quanto quel naturale fosse finto e come nell’intera Etruria non vi
fosse un palmo di terreno intatto dall’intervento umano. In ogni
caso tutto era meglio di quel sito silente: il traffico urbano ed i
monumentali cavalcavia alle uscite dell’autostrada, le ciminiere
fumanti, gli odori dei coloranti, dei collanti e dei solventi nei
capannoni e perfino la polvere dei cantieri edili. La cultura
industrialista, che taluno gli rimproverava e sulla quale talora per
vezzo faceva autocritica, era in realtà il suo orgoglio.
Abitava lì per l’occhio
del mondo, che obbligava chiunque fosse arrivato a ruoli dirigenti ad
alloggiarsi in codeste masserie riattate, dove tutto doveva apparire
nativo e perfino le grandi potenti automobili dovevano occultarsi tra
le pietre anticate. Per fortuna ci restava pochissimo. Ma l’essere
ora forzato a lasciare quel luogo, trasferito d’ufficio, gli dava
noia. Non temeva futuri improbabili attacchi di mortale nostalgia,
non era nato a Cuneo lui, lo pungeva piuttosto la coazione.
Si abbigliò da
cerimonia, un completo blu elettrico, una camicia rosa a righe
sottili, una cravatta a stelle e mucche volanti, pacchiana. Se
n’accorgeva perfino lui, che non aveva certo gusti raffinati; ma un
po’ di pacchiano non guasta mai (così s’era detto al momento
dell’acquisto).
2.
In macchina accese la
Marlboro con qualche difficoltà, adoperando il cilindro
incandescente del cruscotto. Forse proprio in quelle sigarette si
celava un nodo irrisolto, chissà il segreto della sua vita.
Da ragazzo aveva fumato
Nazionali semplici, un po’ per necessità economiche un po’ per
scelta di classe, dopo aver scartato le dure, irritanti Alfa o Sax.
Poi, in seguito ad una bronchitella, trascinato dalla corrente, era
approdato alle MS, le long size italiane dell’uomo medio, né
economiche né care, né aromatiche né puzzolenti, con il filtro,
onde difendere i polmoni da catrame e nicotina. Aveva patito la
mancanza di contatti diretti col trinciato, ma col tempo si era
assuefatto.
Il passaggio alle
Marlboro era stato invece graduale, quasi inconsapevole. Gli è che,
quando rimaneva senza tabacco, in tanti alla Camera del Lavoro
offrivano le americane e, se era lui a dover provvedere agli altri,
li vedeva storcere il muso o addirittura rifiutare. Non si trattava
soltanto di quelli del pubblico impiego o di stagionati burocrati,
ché anzi questi ultimi, irrimediabilmente vetero, spesso ammorbavano
l’aria con le loro Super senza, e, se ce n’era qualcuno malato
d'esterofilia, si procacciava chissà dove le Gauloises o le Gitanes
delle miniere. A fumare ed offrire Muratti, Camel e soprattutto
Marlboro, era proprio l’avanguardia operaia, i qualificati, gli
specializzati, i delegati con distacco pieno o parziale, i quali, con
quelle sigarette e la grossa agenda sotto il braccio, attutivano il
sentimento d'inferiorità nei confronti di capi e dirigenti.
Doveva essere accaduto
per caso: ora tarda, tabaccaio chiuso, baretto sprovvisto. Aveva
comprato le Marlboro per ripiego, una volta, due, poi non le aveva
lasciate più. Ma anche nel caso ci deve essere l’impronta dei
tempi. Se fosse l’effetto di Repubblica, che induceva comportamenti
moderni e globalisti, o se già fosse in auge l’edonismo
reaganiano, non avrebbe saputo dirlo, le cose erano andate avanti
tutte insieme; ma, come che sia, il bianco e il rosso di quel
pacchetto erano ormai parte della sua identità e si confondevano con
i colori della squadra del cuore, che egli aveva cominciato a seguire
con assiduità ben prima che la passione per il pallone contagiasse
l’intera dirigenza politica e sindacale della sinistra. Di più:
quei colori e quel marchio campeggiavano in ogni Gran Premio e lui
non si accontentava d’esserne spettatore televisivo. Era andato a
Monza quasi tutti gli anni, ad Imola un paio di volte, a Montecarlo
quando vinse Patrese, ed era stato addirittura testimone,
all’Hungaroring di Budapest, della prima corsa di Formula Uno
svoltasi “di là”.
Non tutto però quadrava.
Diversi rappresentanti dell’aristocrazia operaia avevano mutato
status: qualcuno nuotava nel management, altri s’erano messi
in proprio, trasformati in imprenditori di successo. Di uno
segnatamente aveva citato il caso, emblematico, quando l’avevano
costretto a presentare il libro apocalittico della Rossanda. Stanco
di lavorare sotto padrone, costui aveva impiantato un’azienda di
software, i cui prodotti vendeva nell’universo mondo con un valore
aggiunto altissimo. Applicava principi di flessibilità ultramoderni:
non aveva quasi dipendenti fissi e quelli che lavoravano per lui,
tutti giovani, svolgevano collaborazioni libero-professionali su
progetti definiti e in tempi delimitati. Erano straordinariamente
felici d’essere precari, perché creativi e ben pagati. Gliele
aveva cantate a quella stronza.
Eppure già da qualche
anno quell’antico compagno, ex delegato molto classista ed ora
esempio d’avanzata imprenditorialità, aveva spezzato le catene del
vizio e così molti altri che avevano conseguito una qualche
promozione sociale, ed anche in America oramai fumavano soltanto i
negri e le puttane, e in Italia la Marlboro era diventata la
sigaretta dei marocchini e degli albanesi. Lui intanto faceva ancora
il sindacalista e ne consumava a stecche. Era rimasto in mezzo al
guado.
3.
Il telefonino lo
attaccava solo in automobile. Non amava dare spettacolo.
Lì, in macchina, per sei
mesi buoni aveva ricevuto il buongiorno, rituale tra le nove e le
nove e trenta, prima di arrivare in sede. Convenevoli e tenerezze, ma
più che altro le inesauribili querimonie di lei: “Non ne posso
più, bisogna trovare una soluzione... Quello che mi dà più
fastidio è che non capisce un cazzo. Sono due mesi che non gliela
do, con le scuse più assurde. Si lamenta, ma non capisce... Non lo
sopporto, non lo sopporto, quella faccia di merda, sempre le stesse
frasi.… Stamattina rogava che la camicia azzurra non era stirata.
L’ho mandato a fare in culo. Sai che m’ha detto? Indovina! Che
questo lavoro mi mette in agitazione, che è meglio se torno in
fabbrica. Lo stronzo. Ci andasse lui in fabbrica!”.
Oliviero raccomandava
pazienza e prudenza, la calmava, non con le parole dolci che non gli
uscivano buone di bocca, quanto con la rievocazione delle scopate
meglio riuscite tra le più recenti. Ne lodava il culo, n'esaltava le
prestazioni linguistiche, insisteva sulla propria voglia di toccarla,
di baciarla, di prenderla, le rammentava i tre giorni e le tre notti
che presto avrebbero passato insieme al congresso di Brescia o al
seminario d’Ariccia. E lei si rabboniva, si convinceva di
esercitare un potere.
Il sibilo odioso della
suoneria lo sorprese in questi pensieri e per una frazione di secondo
s’illuse.
Ma no, non poteva essere.
E, in effetti, non era.
“Oh - gli dissero
quando rispose - devi venire nel cantiere di Morini, alle Porcarecce.
E’ morto un operaio, caduto dall’impalcatura”.
“E io che ci vengo a
fare?”.
“Ci sono le
televisioni. E’ arrivato il presidente della Confedilizia. Devi
venire”.
Guardò l’orologio:
“Arrivo”.
4.
Alle dieci, al cantiere,
c’era un sacco di gente: i rappresentanti sindacali, i segretari di
categoria, una decina di compagni della vittima. La famiglia era
stata avvertita con ritardo e la moglie non era arrivata. In un canto
Morini si intratteneva con il presidente regionale della
Confedilizia, dall’altro lato armeggiavano quelli della RAI e di
due emittenti locali. Il cadavere era ancora lì, per terra, coperto
da un telo bianco. Il sostituto procuratore, scortato dalla
giudiziaria, dettava appunti ad un cancelliere e, non molto discosto,
un ispettore del lavoro prendeva note.
Ancora due settimane
prima, in un’occasione del genere, l’avrebbero menato via alla
chetichella senza tante storie, ma quell’incidente era il quarto
mortale accaduto nella provincia nel giro di un mese e le vittime del
più tragico erano state addirittura tre, insieme sotto una gru, e
ancora non si capiva come. Adesso si precipitavano in tanti: a
momenti sarebbero sfilati il sindaco, il presidente della provincia,
l’assessore regionale all’industria e gli attivisti di
Rifondazione, tutti a recitare la commedia del lutto, alcuni a
lamentare le carenze degli altrui controlli, altri quelle dei propri
organici, altri ancora a protestare vibratamente. Lui, Oliviero,
aveva studi da perito industriale, ma si ricordò delle pillole di
filosofia che gli avevano ammannito nei gruppetti. Chi l’aveva
detto che ad un certo punto la quantità si trasforma in qualità?
Engels? Lenin? Non importava, ma così era. Quell’evento, doloroso
quanto si vuole, in altri tempi sarebbe stato banale, ma ora, per
l’effetto cumulativo, diventava maledettamente importante.
I cronisti cercavano
commenti e il magistrato si era negato. Per evitare perdite di tempo
si rinunciò all’intervista e gli operatori si acconciarono a
riprendere, senza esclusive, una dichiarazione del presidente dei
costruttori ed una sua, da segretario regionale della Cgil.
L’imprenditore aveva
una faccia da iettatore, o da vampiro, le guance scavate, la fronte
bassa, un colorito olivastro, un pizzetto grigio come il vestito, gli
occhi torvi infossati. “L’industria edilizia - disse - è la
prima a chiedere controlli efficaci contro il lavoro nero e
interventi per limitare i rischi. Il lodo che abbiamo firmato
all’assessorato regionale con il sindacato dimostra che vogliamo
dare una collaborazione piena. Bisogna però evitare la
criminalizzazione delle imprese. Io sono il primo a partecipare al
lutto delle famiglie e non intendo intervenire sulle inchieste in
corso, ma neanche il rispetto più rigoroso delle norme di sicurezza
può impedire che qualche incidente accada. Esiste l’errore umano.
E anche la fatalità”.
Pronunciata da un figuro
di quella fatta, la dichiarazione sortiva l’effetto di un’oscura
minaccia.
Oliviero si sentiva a
disagio, soprattutto per il vestito da festa che indossava.
Nell’attesa si impolverò una manica e disordinò i capelli, ma
l’allegra cravatta era sempre lì, in bella vista. “Il sindacato
- chiarì - non fa speculazioni, ma ormai è una vera e propria
strage. Alle istituzioni, in particolare alla Regione, che ha preso
impegni scritti e firmati, dico che è ora di passare ai fatti. Agli
imprenditori ricordo che non ci sono soltanto norme di sicurezza da
rispettare, ma c’è anche una questione di subappalti, di turni, di
straordinari, di ritmi massacranti, di sfruttamento”.
Erano arrivati i corvi di
Rifondazione, perciò aveva pensato bene di coprirsi a sinistra, con
quella parola arcaica. Ora poteva andarsene.
Salì sull’automobile
proprio nel momento in cui lì accanto stava parcheggiando
l’assessore regionale, l’amico nemico. Accennò un saluto, da un
cenno ricambiato.
5.
Alle undici, puntuale,
era nello stabilimento dell’antica industria. Né assemblea né
trattativa, si inaugurava il museo storico, l’occasione per la
quale s’era agghindato.
Gli svizzeri avevano
fatto le cose in grande: avevano adibito a contenitore un capannone
di quattrocento metri quadrati diviso in tre saloni, con impianti
d'aerazione e condizionamento della temperatura, con un’illuminazione
efficiente ed efficace. In mente Oliviero si canticchiò: “La
Svizzera... la Svizzera... la Svizzera ... ”. Godeva di un modesto
privilegio: con il direttore, il consigliere d’amministrazione
arrivato fresco da Losanna, i presidenti della regione e della
provincia, il prefetto, il magnifico rettore, il sindaco, il
provveditore agli studi, il presidente degli industriali, un
senatore, tre deputati, i suoi omologhi di Cisl e Uil e
l’onnipresente assessore regionale, faceva corona al curatore, un
prestigioso accademico che si profondeva in spiegazioni.
A distanza di un paio di
metri seguivano una cinquantina d'individui, più uomini che donne,
in parte personaggi d’autorità, ma anche gli immancabili
presenzialisti, quelli che, non si sa bene a che titolo, riescono a
partecipare a tutte le cerimonie ufficiali.
Dalle pareti della sala
d’ingresso penzolavano pannelli fotografici: le immagini degli
stabilimenti e dei dirigenti succedutisi nel tempo, accompagnate
dall’indicazione di date e dati significativi. Al centro era
istallato una sorta di presepio: copie miniaturizzate e funzionanti
di macchinari, obsoleti o modernissimi, costosi congegni dimensionati
sul mondo di Barbie, prototipi di una Lilliput tecnologica,
trituratori, polverizzatori, mescolatori, imbottigliatori,
inscatolatori, protetti da teche di lindo infrangibile plexiglas.
Nella seconda sala i
cartelloni riproducevano i manifesti che avevano fatto la gloria del
marchio, corredati da didascalie che storicamente interpretavano
tanto l’evoluzione del prodotto e dei gusti del pubblico quanto il
modificarsi, anche nel segno grafico, della comunicazione
commerciale. In mezzo un’ampia bacheca esibiva gli albi, le
figurine, le raccolte dei punti, i cataloghi dei regali e i
regolamenti dei concorsi a premi.
Il terzo ambiente era
multimediale e un visore diffondeva il promo: in soli dodici minuti
s'illustravano scopo e senso del museo, alternando alle immagini
degli oggetti in mostra spezzoni filmici d’epoca, adeguatamente
commentati. Un altro apparecchio, all’angolo opposto, proponeva
un’antologia della pubblicità televisiva, dagli interminabili
caroselli delle origini agli odierni spot di tre secondi, pressoché
subliminali. Nel terzo angolo c’era la zona audio: adoperando un
selezionatore ed una cuffia era possibile ascoltare frammenti
registrati delle trasmissioni Eiar e Rai sponsorizzate dall’azienda
dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, ripuliti e restaurati a
dovere, senza gracchiate e distorsioni.
Da ultimo, vanto
ineguagliabile, fu presentata l’area informatica. Lì, dialogando
con l’attrezzo, si potevano reperire e stampare a colori notizie a
iosa, grafici, foto, e c’era l’opportunità di copiarsi
direttamente in cassette Vhs alcune parti non protette delle quattro
ore abbondanti di video immagazzinate, utilizzando una tessera a
pagamento scalare. Ma gratuità o facilitazioni erano previste per le
scuole e l’università o anche per singoli studenti e studiosi,
purché garantiti dall’istituzione.
I discorsi furono tanti
e, ringraziando Iddio, brevi, perché ad ognuno la stimolante visita
aveva stimolato l’appetito. Tutti ad osannare la multinazionale per
l’importante realizzazione, con il sindaco che salutava l’efficace
integrazione tra storia dell’industria e storia della città, con
il rettore che additava nel museo “un modello esemplare di
collaborazione tra impresa e istituzioni della ricerca scientifica”,
con il provveditore che prometteva di mandarci a turno tutte le
scolaresche della provincia, d'ogni ordine e grado. Chiamato a
prendere la parola per la triplice, in omaggio alla più ampia
rappresentatività della sua organizzazione, Oliviero si comportò da
birichino.
“Mi dispiace - disse -
io canterò fuori del coro. Non discuto l’impegno, anche economico,
profuso dall’azienda e la qualità scientifica della realizzazione,
ma era il minimo che una grande impresa potesse fare come
risarcimento per la nostra città. Tutti sanno che, dopo una vertenza
assai dura, abbiamo firmato un contratto integrativo soddisfacente
sia per la società sia per i lavoratori; ma le critiche che abbiamo
fatto allo spostamento fuori regione dei centri decisionali rimangono
tutte. Dirò di più. Nel museo non manca qualche accenno al ruolo
esercitato dalle maestranze per la crescita dell’azienda e il
successo dei prodotti. Forse è poco, tuttavia il riferimento è
presente. Non c’è però traccia della lotta del sindacato, non
solo per migliorare le condizioni salariali e normative, ma anche per
dare un contributo allo sviluppo dell’impresa, spesso intralciato
da dirigenze retrive. Io mi auguro che questo vuoto sia colmato e che
si possa integrare il museo con uno spazio dedicato alla classe
operaia e alle sue storiche battaglie. Posso assicurare fin d’ora
la più ampia disponibilità collaborativa delle organizzazioni dei
lavoratori”.
Era la seconda volta,
nello stesso giorno, che si sorprendeva ad esprimere pericolose
posizioni di sinistra, la terza avrebbe cantato il gallo. A cose
fatte, se ne sentiva disturbato. “Faccio paura a me stesso” -
doveva essere la battuta di un film.
Il pasto inaugurale,
servito in piedi, era striminzito e le libagioni limitate. Se qualche
invitato avesse abbondato, gli ultimi della fila sarebbero rimasti a
stecchetto. Da aperitivo e da accompagno per il salato - tartine con
salmone affumicato, gnocchetti al pesto (prodotto dall’azienda),
brioche con frittatine agli asparagi di bosco - fungeva un Montecarlo
bianco, fresco e liscio. Per dessert si servì una discreta crostata
industriale, di quelle a scadenza ravvicinata da conservare in frigo,
e si stappò una Malvasia dolce spumante. Tutto qui. A richiesta si
poteva ottenere un caffè, ma senza grappa. La classe dirigente non
può permettersi pranzi robusti e meno che mai superalcolici, pena
l’inefficienza pomeridiana.
Oliviero si prese i
complimenti di un paio di campanilisti, massoni: quantunque non
nutrissero simpatia veruna per la classe operaia, erano contenti che
ne avesse detto quattro agli svizzeri. Lo consolò anche il sorriso
complice di una signora elegante, moglie di un generale; ma nessuna
delle personalità con cui scambiò qualche chiacchiera osò fare
commenti sul suo intervento e i colleghi di sindacato accuratamente
lo evitarono.
Notò che a fumare dopo
il caffè erano solo in otto su un’ottantina di persone, e più
della metà donne.
6.
Davanti alla sede arrivò
all’incirca alle tre del pomeriggio, l’orario d’apertura. Sede
nuova e bella in un palazzo al centro di una recente lottizzazione
d'edilizia residenziale, negozi ed uffici. Uno scatolone bianco, di
quelli che facevano incazzare i professori di scuola e le donne in
menopausa, senza fronzoli ambientalisti e citazioni postmoderniste,
bello.
La Cgil ne aveva
acquistato un intero piano, il sesto, quando l’edificio era ancora
in costruzione, al prezzo stracciato d'ottocento milioni,
un’operazione politica condotta con sapienza e agilità mentale.
Era accaduto dopo il
referendum, perso, sulle quote sindacali trattenute per legge dal
datore di lavoro, una delle più stupide pannellate della storia. Gli
effetti pratici, come già si sapeva prima del voto, erano nulli: la
trattenuta sulla busta paga invece che per legge si sarebbe
effettuata per contratto. Restava la sconfitta politica; ma Oliviero,
nella sua regione, l’aveva trasformata in vittoria.
Per dimostrare al popolo
e al viandante l’integra solidità del sindacato, aveva resuscitato
metodi d’altri tempi, lanciando una sottoscrizione regionale tra le
categorie e le strutture territoriali e denunciando il gravissimo
attacco padronale. Anche in quell’occasione si era lasciato andare
ad un linguaggio desueto: “…l’offensiva contro le
organizzazioni sindacali e contro i diritti di tutti i lavoratori…
vogliono far tornare indietro l’intera società …”. Si era
sbracciato a gridare il suo allarme in centinaia d’assemblee, aveva
perso la voce, ma solo così si galvanizza il movimento.
Aveva commissionato ad un
pittore informale il manifesto ed il logo della sottoscrizione e,
stranamente, erano venuti bene. Aveva pertanto fatto stampare, in
pile immani, coloratissimi quadernetti da cento di madri e figlie,
provando, senza successo, a denominarle ticket, termine tanto
mondialista quanto impopolare, ma gli operai che versavano il
contributo le chiamavano bollette.
A chiunque gli attivisti
avevano chiesto un obolo, anche modesto. I più fantasiosi dei
funzionari avevano organizzato tombole, pesche, briscole e riffe, i
più moderni cene di solidarietà. Era stata una prova di forza ed
anche un’opera di bene, igienica e salutista. Alle pensionate e ai
pensionati, che costituivano la categoria di gran lunga più forte,
s’era data l’opportunità d’impegnare proficuamente le
giornate, di sfuggire alla noia che uccide e di obliare una grama
vita di rinunce, senza per questo essere costretti a seguire gli
stupidi corsi d'ikebana nelle Università della Terza Età. Grazie a
questa brillante campagna, nel giro di tre mesi Oliviero aveva potuto
celebrare un duplice trionfo, prima quando s’era presentato su
tutte le televisioni locali ad annunciare che, grazie alla
mobilitazione dei lavoratori, l’obiettivo era stato raggiunto e
poi, in pompa magna, quando aveva festeggiato con le autorità e i
capi romani l’apertura della nuova sede. Avevano dovuto inchinarsi
tutti, anche quelli della segreteria nazionale, per lo più
schizzinosi rispetto ai sistemi dei primordi e timorosi dei flop.
In realtà, essendo il
sindacato un nido di vipere, neppure in quell’occasione avevano
cessato di malignare. Qualcuno aveva insinuato che i conti della
sottoscrizione erano gonfiati, e che non era difficile riempire di
offerte fasulle i blocchetti, e che il prezzo effettivamente pagato
doveva essere comunque assai più basso di quello dichiarato e
contabilizzato.
In effetti Oliviero era
stato primattore di un altro memorabile scontro che aveva salvato il
costruttore del palazzo da una crisi esiziale. Questi aveva impegnato
notevoli risorse finanziarie, umane e tecnologiche per l’impianto
di una centrale elettrica, dopo aver vinto un grosso appalto, ma poi
erano arrivati gli scassacazzi dell’ambientalismo ed era cominciato
un lungo tira e molla politico e giudiziario, con i cantieri che
chiudevano, riaprivano, richiudevano e ririaprivano. L’Enel aveva
concluso che era meglio non farne nulla.
Era stato merito della
Cgil, seguita senza molta convinzione dalle altre organizzazioni,
l’aver sbloccato con la lotta ogni resistenza, salvando così non
solo le imprese appaltatrici, ma anche il lavoro di centinaia di
operai. Tra il sindacato ed il costruttore non c’era dunque stato
alcun oscuro baratto, semmai un’oggettiva convergenza di interessi,
alla luce del sole. Ma tanto era bastato a quei luridi per fare
congetture, illazioni ed allusioni e uno aveva usato perfino la
parola oscena e scurrile: tangenti.
Tangenti, tangenti… si
fa presto a dir tangenti. Se anche ci fosse stato uno sconto
sull’acquisto della sede, si sarebbe trattato d’altro, non di
tangenti. Al sindacato si era persa perfino la cognizione della
parola, ma loro, i padroni, sapevano ancora che cosa vuol dire
gratitudine.
7.
Non bussò - deteneva le
chiavi - ma al baracchino che ospitava portineria e centralino,
cimelio della vecchia sede, era già attiva la figlia del capitano,
la siciliana dagli occhi profondi, più neri dei neri capelli.
A trentasette anni,
singola impunita, passava per una gran mangiatrice di cazzi ed era
per Oliviero l’unico vuoto di una ricca collezione. Escludendo le
racchie e le sposatissime, c’era sempre riuscito con tutte quelle
che passavano dal sindacato: tettone dei lanifici, gemebonde
intellettuali del sindacato scuola o telefoniste adolescenziali. Era
stata dapprima la conferma del suo fascino, dappoi del suo potere.
Inoltre doveva possedere qualche arma ch’egli stesso sconosceva,
giacché anche le più riottose la davano senza tante cerimonie a
lui, tracagnotto, mentre l’amico suo, col fisico da sportivo e gli
occhi azzurri, aveva dovuto rimetterlo nel fodero parecchie volte.
Forse, nelle loro confidenze, le donne si passavano voce che scopava
benissimo. Con la figlia del capitano non ci aveva neppure provato.
Oliviero era di sinistra e, in quanto tale, privo di pregiudizi, ma
un siciliano è pur sempre un siciliano e non gliela si può fare
sotto il naso.
Era ridanciana di primo
pomeriggio la mora. Chissà a chi l’aveva succhiato.
“Ciao, segretario!”.
Che fa, sfotte?
8.
C’era anche il padre in
sede, il capitano per l’appunto, titolo che tutti gli tributavano e
lui non disdegnava. Era arrivato men che ventenne durante la guerra,
nello sbandamento dell’esercito, ma il grado vero doveva essere
stato di caporale, al massimo di sergente. Vantava anche una milizia
partigiana, pagava la tessera dell’Anpi e al corteo del 25 aprile
marciava in prima fila, ma di documentato c’era solo una presenza,
peraltro breve, tra i fuggiaschi della montagna. A detta di un altro
superstite, eroico ma pettegolo, era sparito dopo le prime
scaramucce, nascosto nel letto di una vedova ingorda, una culona di
fattoria.
A liberazione avvenuta,
era venuto ad abitare in città, operaio della famosa industria.
S’era sposato tardi, con una compagna di lavoro, indigena, ma
quell’unica figlia che n’era nata aveva sin da piccina occhi sì
penetranti, labbra sì carnose, capelli sì neri, che ognuno la
diceva “siciliana”, del tutto ignorando la componente genetica
autoctona.
Sindacalizzato prudente
negli anni duri, il capitano aveva dato il meglio di sé come
sindacalista. Se l’era conquistata sul campo, la fiducia dei
lavoratori, ancor prima dell’autunno caldo, col fare la voce grossa
nelle riunioni, con l’organizzare blocchi e picchetti, con il
redarguire i timidi e strapazzare i crumiri; era diventato un vero
dirigente grazie ad un cocktail perfetto di qualità tra cui faceva
spicco un’atavica, meridionale furbizia. Carriera rapida, ma del
tutto regolare: delegato, distaccato, segretario comprensoriale di
categoria, segretario regionale degli alimentaristi. Era sempre
riuscito a scansare gli incarichi confederali che fanno perdere il
legame con la base.
Oliviero gli doveva il
suo ingresso in Cgil. Feroce contro gli estremismi, il capitano era
anche il più impegnato a recuperare i ragazzi traviati, specie se
svegli. Li adocchiava nei cortei, attaccava bottone nelle pause, e
quelli, calamitati dalla fama di resistente e dal fascino
dell’operaio di fabbrica, sedotti dallo scilinguagnolo, dalla
gestualità, dalla prossemica, così inusuali tra la gente del luogo,
erano tentati dalle vaghe promesse che s'incuneavano nelle crepe
della loro malferma ideologia: “Il sindacato ha bisogno di forze
giovani ... nel sindacato c’è spazio per tutti”. Farsi
sindacalisti non era lo stesso che fare la rivoluzione, ma sempre
meglio che faticare. Talora c’era bisogno curarli, come si fa con
le pere butirre raccolte acerbe dal ramo e distese a maturare nel
fieno o nell’erica, ma non con Oliviero ed il suo amico. Figli di
contadini, erano astuti come gatti, avevano capito tutto e subito. A
tre giorni dal colloquio s’erano già impiantati alla Camera del
Lavoro.
Il suo capolavoro il
capitano lo realizzò nel ‘90, alle soglie della quiescenza,
trattando e firmando da segretario categoriale l’integrativo
d’azienda. Per la prima volta, dopo un decennio di prepensionamenti
e di spostamenti del lavoro fuori della fabbrica, si apriva la
possibilità di nuove assunzioni. Ai dipendenti in regola con il
minimo pensionabile si offriva l’opportunità, andandosene, di
lasciare in eredità il posto ai figli, attraverso un marchingegno
che scavalcava le regole, a quel tempo ancora rigide, del
collocamento. Le confederazioni avevano fatto ottimamente la loro
parte: avevano protestato contro i diritti conculcati dei tanti
giovani disoccupati che non avevano genitori in azienda, ma avevano
lasciato correre.
Dopo questa vittoria,
sintesi di combattività, realismo e clientelismo, il capitano si
sarebbe potuto concedere una vecchiaia tranquilla, a grattarsi,
compilare i cruciverba, annaffiare l’orto, imbeccare i canarini.
Invece dopo sette anni stazionava ancora lì; s’era fatto eleggere
nella segreteria dei pensionati, ma era una copertura, in realtà
passava la giornata a rompere le palle. Oliviero sospettava che
stesse in sede anche per controllare la figlia, ma soprattutto si
sentiva oppresso dai buoni consigli che dispensava.
Anche adesso ci provava.
Gli si piazzò davanti e gli chiese: “Devi dirmi qualcosa?”.
“Io? Niente!” - fece
Oliviero.
“Io sì. Stai attento!”
Oliviero lo guardò fisso
e lo liquidò con una formula: “Mezza parola e basta…”.
Doveva essere un motto
paramafioso ed era stato proprio il capitano a farglielo conoscere
come segno di un’intesa totale e tempestiva. Ma in verità lui
degli ammiccamenti, delle ellissi, delle reticenze del capitano il
più delle volte non capiva un cazzo e l’espressione che aveva
usato era solo un contentino. I vecchi pretenderebbero da chi li
ascolta che si comprenda il loro ragionare tortuoso e inconcludente,
ma per fortuna sono facili da imbrogliare. Non c’è bisogno di
capirli davvero, basta far finta, basta mezza parola.
9.
Alle 15 e 10, al suo
numero diretto, il capocordata gli comunicò: “La situazione
precipita. Ci sono un paio d'arrabbiate pronte a montare uno
scandalo, a creare rogne anche al segretario generale, se insiste a
difenderti. Devi dimetterti senza condizioni. Accamperai motivi
personali.”.
Reagì: “Insomma, per
salvarvi il culo, mi lasciate nella merda”.
“Che parole grosse!
Intanto avrai ancora due mesi di stipendio, poi prenderai il Tfr.
Quando le acque si saranno placate ti troveremo una sistemazione, nel
pubblico o nel privato. Guadagnerai più di adesso senza doverti
trasferire a Roma o a Napoli”.
“Avete messo su
un’agenzia per il lavoro?”.
“Non eri tu a sostenere
che un sindacato moderno dovrebbe gestire direttamente il
collocamento? Con te lo faremo”.
Lo prendeva per i
fondelli, l’intellettuale di merda.
“E se non mi
dimettessi?”.
“C’è lì Enrico che
informerà tutti del procedimento disciplinare e proporrà la tua
sospensione da ogni incarico. Non ti conviene”.
“Vaffanculo” sbottò
Oliviero e abbassò la cornetta.
10.
Telefonò a Carlo,
l’assessore: “Devi convincere i tuoi a dimettersi insieme con me.
Deve dimettersi tutta la segreteria, diranno di voler favorire un
ricambio nel gruppo dirigente. Non chiedo altro. Mi basta salvare la
faccia”.
“Hai sentito
Guglielmo?”.
“Mi ha chiamato lui per
darmi la bella notizia da Roma”.
“Non so come aiutarti.
Con Luisa ho rotto, al sindacato non ho più rapporti. E poi chi di
spada ferisce...”.
Questa volta Oliviero
sentiva di meritarselo. Pertanto salutò educatamente, quasi
cordialmente.
La durezza della politica
aveva distrutto un’amicizia adolescenziale, di quelle che in teoria
dovrebbero essere le più tenaci. I mozziconi fumati in coppia, le
mezze birre dalla zozzona, le scazzottate coi fascisti, gli scioperi
a gatto selvaggio, le occupazioni ormai non contavano più nulla. E
neppure la notte passata insieme in camera di sicurezza, ai tempi del
processo Calabresi.
Erano usciti, con la
cinquecento di una ragazza di buona famiglia, a fare scritte, tante e
grandissime, piazzate nei luoghi strategici, municipio, tribunale,
stazione, poste. “La strage è di stato”, “Se Calabresi è
innocente Tamara è vergine”, “Calabresi assassino”, in nero;
oppure “compagno Pinelli, ti vendicheremo” in rosso. S’erano
divertiti ad inventare: “Calabresi fascista, o ti butti dalla
finestra o ti faremo la festa”. Una stronzata, a giudicarla dopo
più di vent’anni, ma allora sembrava una trovata spiritosa: da qui
la decisione di farla sotto il naso degli sbirri, sui muri del loro
palazzo.
La R di “finestra”
sbavava ancora vernice vermiglia sul marmo della questura all’arrivo
dei caramba che li acchiapparono, due della bassa Italia,
particolarmente felici per averli sorpresi lì, a far fessi quelli
della squadra politica e l’intera Ps.
Carlo e Oliviero avevano
storie parallele: insieme nel Comitato Disoccupati alla Camera del
Lavoro, tutti e due segretari regionali di categoria, tutti e due
nella segreteria confederale, una coppia affiatata, complice e
complementare. Erano nella cordata di Guglielmo, l’intellettuale
borghese di buone letture, specializzato nel decorare di lustrini
teorici e dialettici ogni svolta tattica, ogni contratto al ribasso,
ogni troiata opportunistica, sempre in linea con la linea vincente,
costantemente interpretata da sinistra, ed era toccato a lui, da
segretario regionale uscente, promosso o rimosso a Roma, di dire
l’ultima sulla successione. Aveva scelto Carlo, il bello: il
sindacalista del futuro non può avere la pancetta.
Oliviero se l’era
attaccata al dito e aveva iniziato contro il suo amico una guerra
senza quartiere; s’era alleato con chiunque, con quelli di Essere
Sindacato, con gli ex socialisti, con i nani e coi banditi pur di
fargliela pagare, aveva fatto linguimbocca coi cislini, incoraggiato
il dissenso metalmeccanico e ancora di peggio. Quando Carlo volle
mettere in segreteria Luisa, la sua nuova ambiziosa compagna,
Oliviero raccolse firme su un documento, due pagine tirate via. Si
lamentavano i ritardi nella costruzione del nuovo sindacato dei
diritti, si denunciava il rischio che si incrinasse il rapporto con i
lavoratori nei punti strategici dell’economia regionale e nelle
aree di crisi. Erano rimasticature e ruminamenti di altri documenti,
interventi e relazioni, ma il succo era veleno. Quasi alla fine si
leggeva: “Non giovano al sindacato, nella selezione dei gruppi
dirigenti regionali, scelte che obbediscono a logiche personali e
private piuttosto che ad un’attenta valutazione della capacità,
della competenza e dell’impegno”. Dei centotredici membri del
direttivo regionale lo avevano firmato in più di cinquanta e
l’impuntatura di Carlo avrebbe forse determinato una guerra lunga e
sanguinosa. Per fortuna al partito qualcuno aveva ancora saggezza:
Carlo si sarebbe candidato alla Regione, assessore in pectore, e
Oliviero lo avrebbe sostituito al sindacato. Avrebbe però dovuto
tenersi la serpe in segreteria, Luisa, la donna dello scandalo.
11.
Alle quattro chiamò un
interno: “Sarete contenti adesso”.
“Di che?” - rispose
la donna.
“Mi cacciano”.
“Io sarei stata
contenta se non fosse accaduto nulla di quello che è successo” -
fece Luisa con spocchia.
Di nuovo Oliviero abbassò
brusco e rabbioso la cornetta.
12.
Aveva convocato i più
fidi membri della segreteria, Ireneo, Isidoro, Filippo e Giampiero.
Pretendeva che almeno loro si dimettessero insieme a lui. Consentiva
solo Ireneo, ma forse era un trucco, poneva la condizione che tutti
lo seguissero.
Oliviero alzò la voce:
“Se nel sindacato contate qualcosa, lo dovete esclusivamente a me.
Quest’atto di solidarietà non vi costa niente, ma, se me lo
rifiutate, parlerò io”.
Giampiero non gridava, ma
la voce era ferma: “Non ti serve minacciare. Ci hai sempre
autorizzato e coperto. Noi siamo con te, come sempre, ma non puoi
obbligarci ad aprire una crisi nel sindacato per un tuo problema
personale”.
“Dovrei essere il primo
io, in tutta Italia, a pagare per una questione di fica?!”.
Filippo, il più
intellettuale del gruppo, provò a consolarlo con la prospettiva
storica: “Siamo entrati nelle Seconda Repubblica ed è arrivato il
modello americano. Hai visto le rogne di Clinton?”.
Oliviero si spazientì:
“Si scopa in Comune, in Regione, in Provincia, a Montecitorio, a
Palazzo Chigi, alla Cisl, alla Uil, al Cna, Confesercenti,
Confcommercio e alla Confindustria. Quel deputato fascista che hanno
preso con i viados sta ancora a pontificare contro gli immigrati e
nessuno dice niente. Scommetto che al Quirinale anche il baciapile se
lo fa mettere bellamente in culo. Perché l’America dovrebbe
arrivare solo qui, solo per me ? Ve la do io l’America! A tutti!”.
Isidoro gli disse: “Puoi
anche avere ragione, ma non possiamo sfasciare l’organizzazione.
Abbiamo delle responsabilità nei confronti dei lavoratori”.
Oliviero fece una
smorfia, una risata sardonica, abbassò il tono: “Gliene frega un
cazzo ai lavoratori delle nostre beghe! Convocate assemblee nelle
fabbriche e negli uffici. Mettiamo la questione a referendum. Vedrete
che l’ottanta per cento mi darà ragione. Le donne per prime!”.
Ireneo accennò un
sorriso, decisamente incongruo. Poi si fece silenzio. Il fumo
ammorbava la stanza, Oliviero aveva aspirato una Marlboro dietro
l’altra. Disse: “Vado sulla veranda, a prendere una boccata
d’aria”.
Parte seconda
1.
“Nel mondo dei senzadio
s’è perso il senso del peccato, ma il colpevole c’è sempre,
almeno d’istigazione”.
“L’istigazione non è
facile provare in dibattimento, ci vuole movente, occasione,
vantaggio diretto o indiretto….”.
“Diretto. Indiretto. E’
ora di smetterla con questi garantismi da campionato dilettanti”.
“Il responsabile è
lei, dottor Trifasi. Chieda pure il supplemento. Ammesso che il GIP
glielo conceda, per lei saranno solo grane. Non si fonda un’accusa
sul niente”.
“Sul niente? Io non
sono nichilista. Né teorico né pratico. Dio si nasconde forse, ma
risorge. Comunque sia, non intendo promuovere un’accusa, solo un
supplemento d’indagine. Gli elementi non mancano: i due metri di
distanza, la perizia, le discordanze, benché lievi, tra i testimoni…
E poi c’è lui, il presunto suicida. Uno così non si ammazza. Meno
che mai per vergogna.”.
“La smetta con le
giaculatorie, i filosofemi e le generalizzazioni arbitrarie e
risparmi almeno il sepolto. Lei, in passato, ha fatto indagini
eccellenti, ma stavolta le sue idee sono confuse. Prima parla
d’istigazione, adesso invece mi enumera i precari indizi di un
improbabile omicidio”.
“Le indagini per cui mi
loda sono nate anch’esse da confusione. Confuse sono però le
intuizioni, le idee sono limpidissime. Di una cosa soprattutto ho la
certezza: un colpevole c’è sempre, il male esiste”.
“Lei fa tutto un
intruglio. Il male non ha nulla a che vedere con il nostro mestiere.
Noi cerchiamo il reato, non il peccato. Ricordi comunque che per gli
avvisi ha solo ventiquattro ore ”.
2.
Nelle carte gli appigli
non si trovavano. Le ultime telefonate, tutte registrate, non
lasciavano presagire l’esito catastrofico, ma comprovavano
inquietudine. Si era decifrata ogni allusione, nulla appariva oscuro.
Le testimonianze
sull’ultima riunione convergevano sulla sostanza, pur mantenendo
quelle lievi discordanze che escludono un’intesa preventiva e
semmai confermano il ruolo attivo, selettivo e in qualche modo
deformante della memoria. Apparivano sincere e complete, perfette: i
quattro della segreteria non avevano taciuto neppure le minacce
d'Oliviero, ma giuravano di non aver afferrato l’allusione.
La ricostruzione degli
antefatti risultava fin troppo semplice in grazia alle dichiarazioni
di Eleonora, l’amante, ricche di particolari con corollario d'acute
interpretazioni: una storia degna della più squallida telenovela.
Tutto era accaduto nel
torno di due mesi. L’adultera era rimasta incinta del marito, con
il quale non aveva mai cessato di usare maritalmente, anche se teneva
il ganzo all’oscuro. Quest’incidente ne aveva fatto una
maddalena: confessata la sua relazione tra lacrime purificatrici,
aveva ottenuto il perdono del cornuto, che le concedeva, ora che si
sentiva forte, una fiducia piena.
Non aveva preteso ch’ella
rientrasse in fabbrica, aveva anzi considerato essenziale al suo
trionfo che, al sindacato, ostentasse una professionale correttezza
nei confronti di Oliviero ed a tutti rendesse evidente il suo pieno
ritorno alla santità del vincolo coniugale. Veniva a prenderla ogni
sera e i due coniugi amoreggiavano coram populo come
fidanzatini.
Oliviero già da qualche
tempo si mostrava stanco della tresca e in giro si era dichiarato
pronto al volo per nuovi lidi, ma ora sentiva il suo orgoglio
oltraggiato e ferito. Non si può ben dire se ne fosse più piagato
il maschio o il dirigente, ma la colpa era sua che non sapeva tenere
distinti i ruoli.
La donna gli aveva detto:
“E’ finita. Aspetto un bambino”; e alla perfida domanda “Di
chi è?”, urtata, non aveva dato risposta. Aveva rigettato
seccamente ogni richiesta di un incontro chiarificatore.
Senza timidezze,
nell’interrogatorio, Eleonora aveva osato arguire che all’uomo
premeva solo una trombata, necessaria e sufficiente a ristabilire
ruoli e poteri: il maschio, il dirigente era lui, era lui a comandare
e solo lui poteva decidere quando e come smettere. Poi, forse,
l’avrebbe lasciata in pace.
“Una troia psicologa”
- pensò l’inquisitore, rileggendo il verbale.
Proprio per questo, aveva
aggiunto la donna, non poteva più concedersi; ne sarebbe andata di
mezzo la sua dignità.
Il commento irritava
Trifasi ad ogni rilettura: “Più sono troie e più parlano di
dignità”.
Le manovre di Oliviero
erano state varie ed insistenti. La più frequente era di chiamarsela
in ufficio e di esibire il rigonfiamento pubico: “Senti quant’è
duro!”.
L’indagatore si
compiaceva del racconto, poiché vi trovava la convalida di una sua
antica teoria. “Il pene - soleva dire con sussiego nei vaniloqui
d’ufficio - è intelligente e colto, ricorda, pensa, riflette,
risolve, non lo muovono gli istinti naturali quanto l’orgoglio
della ragione. Il desiderio è propriamente volontà pervertita
dall’intelletto e il peccato sessuale non è incontinenza, semmai
malizia e tracotanza. Si può apprendere a controllare l’organo. A
me non s’alza mai fuori dal letto matrimoniale”.
Eleonora aveva poi
riferito di tante altre molestie patite in venti giorni d’inferno.
La tormentava, una volta piangeva e pregava, un’altra faceva
l’amoroso, un’altra ancora la investiva di male parole. Poi,
quando prese a telefonarle a casa, la sera, la mattina presto, il
sabato, la domenica e i festivi, ad ingiuriare, a minacciare, la
donna aveva preso le sue contromisure: “Mi ha insegnato lui, che
registrava tutte le conversazioni”.
3.
Era bello per il dottor
Trifasi poter sentire e risentire di persona i nastri ben incisi,
senza essere costretto ad interpretare le comiche sintesi scritte e
le arbitrarie illazioni dei carabinieri, obbligatorie quando si
dovevano sbobinare e controllare ore di intercettazioni, chiacchiere
per la massima parte inutili alle indagini.
Le cassette erano due, di
quarantacinque minuti per banda, ed arrivavano da Roma. Eleonora,
infatti, raccolte una decina di conversazioni, particolarmente
compromettenti, aveva rivolto un ultimatum al segretario regionale:
“Se non la smetti, ricorro agli organi di garanzia”. Oliviero
aveva replicato con sprezzo: “Non me ne frega un cazzo”.
La donna si era
consigliata con Luisa, che, udite le registrazioni, aveva esclamato
indignata: “E’ gravissimo! Questo non è un affare privato, è
una questione politica fondamentale. Con quale coerenza il sindacato
si batterà contro le molestie e i ricatti sessuali nei luoghi di
lavoro, quando tollera la presenza di maiali tra i suoi dirigenti?
Dovresti denunciarlo all’autorità giudiziaria, ma, se non vuoi uno
scandalo pubblico, andremo a Roma e parleremo con le compagne”.
Eleonora, come risultava
dal verbale, aveva acconsentito, “in obbedienza ad un dovere
politico e sindacale”. Così le cassette erano giunte a Roma dove
le occhiute sindacaliste che si occupavano della campagna sul sesso
nei luoghi di lavoro, avevano aumentato la dose: “E’
intollerabile!”.
I nastri erano dunque
pervenuti, insieme con una circostanziata denuncia, alla Commissione
Nazionale di Garanzia. I tempi dell’istruttoria interna erano stati
rapidissimi e le giustificazioni d'Oliviero non avevano convinto. La
proposta era netta: espulsione. L’unica alternativa offerta al reo
era di dimettersi da ogni incarico, immediatamente e senza
condizioni. I capi avevano provato a far passare una diversa
soluzione, un declassamento ed un trasferimento a Roma in un Centro
Studi, o a Napoli, segretario degli edili, ma il tentativo era stato
bloccato dall’intransigenza delle femmine.
Il dottor Trifasi, nel
riguardare le carte, si rammentava come perfino lui, abituato a
terrorizzare indagati e testi, si sentisse in imbarazzo al cospetto
delle dichiaranti che, senza alcuna pietà per il morto, sciorinavano
frasi fatte contro il maschilismo violento e incolto.
Volle risentire un pezzo
di telefonata.
“M’hai rotto il
cazzo, puttana. Ti faccio tornare in fabbrica nel giro di una
settimana e ti faccio mettere in mobilità nel giro di un mese. E
quello stronzo di tuo marito se lo può sognare di entrare al Comune
in pianta stabile. La seguirò di persona la pratica. Tu e il
magnaccia mi avete usato per i vostri interessi, ora devi pagare il
tuo prezzo, bagascia. Altrimenti ti ridurrò a fare bocchini in
autostrada”.
L’inquisitore, abituato
dal mestiere, non provava alcun sentimento o risentimento di fronte
alle turpi parole dell’uomo, evidentemente fuori di testa, ma si
consolava con le sue paradossali banalità: “Non è un
irragionevole delirio, è, piuttosto, la ragione che delira. Quando
si seguono ideologie che pretendono di realizzare la felicità sulla
terra e si smarrisce il senso del limite, tutto è possibile”.
Tuttavia, sul piano processuale, le registrazioni non fornivano alcun
appiglio per la ricerca di un colpevole, anzi corroboravano la
probabilità che la causale del suicidio fosse proprio il terrore
dell’ignominia.
4.
Un punto oscuro c’era:
la caduta a più di due metri dal palazzo, oltre il marciapiede,
sulla carreggiata. In quell’orrendo scatolone bianco c’era una
veranda ad ogni piano, nella stanza più importante, uno spazio
cubico rientrante che all’esterno dava l’impressione della
scansia di una libreria a muro. La veranda si affacciava su una
strada interna alla lottizzazione, che conduceva ai parcheggi.
La cosa più stravagante
ed intrigante restava il racconto dei due muratori anziani che del
volo erano i testimoni oculari. In quell’assolato pomeriggio di
maggio erano i soli a faticare, incaricati dall’impresa di qualche
piccolo aggiustamento e del riordino d'attrezzi e materiali. Non
dovevano essere lucidi nel momento topico: il bianco vinello che
sovente trangugiavano da un bottiglione impolverato toglieva forse la
sete e sorreggeva forse nella fatica, ma ottundeva le capacità di
percepire e comprendere. Le loro dichiarazioni sarebbero state del
tutto inattendibili, se non fossero state miracolosamente convergenti
e confermate da riscontri. L’uno e l’altro asserivano di non aver
visto lo stacco. Avevano sollevato gli occhi quando il corpo era già
a mezz’aria e disegnava, a loro dire, strani movimenti. Uno dei
due, ignorante quanto l’altro, ma appassionato alle gare televisive
di tuffi, aveva fatto scrivere nel verbale che sembrava un “doppio
salto mortale carpiato con avvitamento”. Come quel corpo riuscisse
in un breve tratto a mantenere l’angolo retto, a roteare, ad
avvitarsi su se stesso, l’uomo non era stato in grado di spiegarlo.
L’altro testimone, sicuramente più credibile, aveva parlato
soltanto di un giro curioso, che non ricordava bene e non sapeva
descrivere. Erano però concordi nel sostenere che il corpo era
piombato sulla strada con il capo in giù e che la testa era
rimbalzata a terra più di una volta, come se fosse una palla di
gomma.
Era fin troppo ovvio che
i due si erano reciprocamente influenzati e che entrambi dovevano
aver risentito degli effetti dell’alcol, se non fosse il fatto che
all’autopsia il cadavere era risultato miracolosamente intatto,
come se non avesse subito alcun urto o come se il colpo fosse stato
attutito da una protezione. La causa della morte risultava essere la
rottura di un’arteria del cervello, con rapida emorragia interna.
Le perizie davano del
volo e della caduta interpretazioni contrastanti. Avevano fatto lanci
di manichini e misurazioni accuratissime, come ai tempi di Pinelli.
Uno dei periti si spingeva al punto di ritenere compatibile che il
corpo fosse stato lanciato, ma non escludeva altre ipotesi. Gli altri
due avevano prospettato come più probabile uno scenario di questo
tipo: l’uomo era salito sulla ringhiera e lì era rimasto in
equilibrio per qualche secondo, poi si era proiettato in avanti, come
in un tuffo. Restavano però dei dubbi: la distanza del punto di
caduta risultava comunque inspiegabile senza ipotizzare, quanto meno,
un rimbalzo.
5.
L’inquirente in tutto
il palazzo aveva un solo amico, tanto diverso da lui, un collega
sostituto che in gioventù aveva fatto il Sessantotto nella sinistra
estrema, trotzkista. Dell’antica carica rivoluzionaria non
conservava quasi nulla, se non un vaghissimo populismo, che lo
spingeva ad una certa comprensione per i poveracci e ad una qualche
antipatia per i potenti. Non era tuttavia un magistrato d’assalto,
di quelli che occupano le prime pagine dei giornali e i notiziari
televisivi con la loro invadenza. Laico e professionale, aveva
conquistato negli anni una grande capacità diplomatica ed un grande
senso della misura.
Formavano una strana
coppia: l’uno cattolico tradizionalista con venature
d'esistenzialismo nichilistico, l’altro marxista disincantato e
critico. Curiosi l’uno dell’altro e talora convergenti nei
giudizi sull’attualità, stavano insieme volentieri, soprattutto
nelle pause d’ufficio e qualche volta anche fuori. La visita di
Trifasi nella stanza dell’amico al Palazzo di Giustizia e
soprattutto il fatto che menasse seco un incartamento erano comunque
un evento eccezionale e sorpresero pertanto il suo collega.
“Tu sai che non chiedo
mai consigli e seguo solo la mia coscienza, ma questa volta ho un
dubbio. Sento che, nel caso del sindacalista, c’è qualcosa
d'oscuro, c’è puzza di reato, ma non trovo una motivazione
plausibile per la richiesta di un supplemento”.
Insieme consultarono le
carte e ne discussero per una mezzora buona. Alla fine l’amico,
memore del suo marxismo antiburocratico, disse a Trifasi: “L’unica
cosa che si può provare è che i capi sindacali oltre al culo di
pietra hanno anche la testa di gomma “.
L’inquirente seguì il
consiglio ed archiviò.
Epilogo
Un anno dopo, nel salone
della sede regionale della CGIL si fece una pubblica commemorazione.
Al funerale nessuno della
segreteria nazionale aveva voluto parlare e l’unico a pronunciare
nel discorso d’addio parole affettuose era stato l’antico amico
assessore. Ora invece gli oratori erano tanti.
L’uomo venuto da Roma
ci mise quaranta minuti ad illustrare il contributo di Oliviero alla
linea nazionale del sindacato, ma nessuno riuscì a capire in che
cosa consistesse. Il presidente della giunta regionale ne esaltò la
passione civile e quello della Camera di Commercio si dilungò sulla
feconda collaborazione nella lotta contro l’usura.
Riparlò Carlo, che ne
approfittò per stringere in un fascio il trentennale del Maggio
francese e l’anniversario del suicida: “ Del Sessantotto ha
portato nel sindacato la volontà di cambiamento, depurandola da ogni
estremismo”.
Il rituale toccò la
punta del ridicolo e del macabro verso la fine, quando fecero parlare
un’operaia tessile dell’attenzione d'Oliviero alle condizioni
delle donne lavoratrici e quando il nuovo segretario regionale,
venuto da fuori, annunciò che un busto di bronzo era stato
commissionato ad un artista perché fosse collocato all’ingresso di
quella sede che Oliviero aveva voluto. Ne mostrò, già pronto, un
calco di gesso: il petto in fuori ed i baffoni rivelavano una curiosa
somiglianza con Giuseppe Stalin.
La sera il TG regionale
mise in onda un servizio e l’ipocrita con barbetta che lo presentò
disse di Oliviero che era morto esattamente un anno prima, suicida
“per ragioni che sono state tenute rigorosamente riservate”.
Subito dopo, per uno
scherzo del destino, andava in onda un servizio della Sede Regionale
RAI sugli infortuni di lavoro che ricorrentemente funestavano il
territorio. Il nuovo segretario accusava il lavoro nero nell’edilizia
e il presidente dei costruttori negava che gli imprenditori locali ne
fossero in qualche modo partecipi.
“Il problema, caro
ingegnere, - disse il sindacalista - è nei subappalti. Le vuol veder
con i suoi occhi le squadre di meridionali e di africani che arrivano
nei pulmini? Ce n’è pochissimi in regola e lavorano anche di notte
per sfuggire ai controlli. Venga da noi, alla CGIL regionale, si
affacci alla veranda del mio ufficio!”.
Il volto del costruttore,
normalmente livido, si fece paonazzo ed i lineamenti conobbero un
repentino stravolgimento che le telecamere impudicamente ed
imperfettamente registrarono.
“Io!? - disse con
concitazione - a quella veranda??!? Ci si affacci lei!”.
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