Achille Campanile |
Ci
sono molte ragioni per non leggere Campanile.
La
prima è che alimenta in chi legge un senso di impotenza, anzi di
frustrazione. Di fronte a quelle sue divagazioni, che sembrano
marginali, e scoccano sempre nel bersaglio, si ha l'impressione di
essere presi in giro. Ma come, con trucchi così semplici, potrei
provarci anch'io. Provateci: il gioco non torna, soltanto a lui il
coniglio è uscito dal cappello, vi sentite degli imbecilli.
La
seconda ragione è che, dopo aver letto una sua pagina, vi viene
voglia di ripeterla agli altri. Guai a cadere nella tentazione. Il
vostro uditorio seguirà, con aria afflitta, quella storia sulla
quale avete rischiato di slogarvi le mascelle, ma che non è più,
per impercettibili spostamenti, la stessa storia. Provate a
raccontare "la quercia del tasso", se non la sapete
ripetere alla lettera. E saperla alla lettera, con tutti quei giochi
fra il Tasso (poeta) e il tasso (animaletto del genere dei
plantigradi), o il tasso (albero delle Alpi) o, guarda un po', il
tasso (di pagamento), è impossibile.
La
terza, più pericolosa ragione, è che metterete fine alla vostra
quiete familiare. Se avete una partner, che magari si è addormentata
accanto a voi, non vi perdonerà mai le risate con le quali l'avete
fatta sussultare nel cuore della notte. Inutile rifugiarsi in
un'altra stanza, o magari in bagno, per farsi coprire dal getto della
doccia. La donna vigila, vuole anche lei la sua parte, verrà a
contendervi il libro; la luce resta accesa, la notte se ne va.
C'è
una sola ragione, per leggerlo. Perché fa bene alla vita. Una pagina
di Campanile, nella sua stralunante astrazione, nel suo vagabondaggio
sul nulla, è un elisir dello spirito, un graal della mente.
Giustifica le discussioni in famiglia, le proteste del vicinato, gli
sguardi minaccianti vendetta dei compagni di treno. Infischiatevene.
La
Bompiani, dopo avercele fatte sospirare quattro anni - le rinviava di
Natale in Pasqua, di Pasqua in Natale - ci procura adesso 1465 pagine
di quella felicità. Grazie a Oreste del Buono, mette in circolo il
secondo volume delle Opere, Romanzi e scritti stravaganti,
1932-1974, con un'appendice
sulla più recente fortuna critica dell'autore, fino a Umberto Eco.
Volume da non perdere. Il curatore, che ha qualche merito verso noi,
affiliati della setta, ha tirato fuori dalla miniera di Campanile
cinque pietre scintillanti, veri topkapi della letteratura
umoristica. Le ultime due, Manuale di conversazione
e Gli asparagi e l'immortalità dell'anima,
sono portate da dessert, friandises
per i più raffinati; ma ancora trovabili in qualche reprint di anni
meno remoti, nelle biblioteche di non decrepite zie. Ed è lì che
bisogna cercare subito, a pagina 1033, "La mestozia",
surreale apologia del refuso; o meglio ancora, a pagina 1359, il
pezzo sui centenari, sintesi dello humour campanilesco: "C'è in
giro una spaventosa moria fra i centenari, disse il capitano Horn.
Ogni tanto leggo nei giornali che è morto nel paese tale o tal altro
un vecchio, o una vecchia, che aveva raggiunto o superato i cent'anni
di età. Chi sa da che dipende. Forse ci sarà un'epidemia fra i
centenari. Oppure, costoro fanno una vita di stravizi. Certo, se io
avessi cent'anni, non mi sentirei molto tranquillo".
Ma
i primi tre libri del nuovo volume erano scomparsi da anni, non si
trovano nemmeno più dagli antiquari. Battista al Giro
d'Italia, per esempio, del 1932.
Per leggerlo bisogna farsi aprire polverosi archivi, disseppellire
annate di giornali che nessuno consultava più da decenni. Campanile
al seguito del Giro lo aveva mandato Ermanno Amicucci, direttore
della “Gazzetta del Popolo”. E lui, in quella giostra dove tutti
puntavano su Binda e Guerra, era andato a scegliersi i più
derelitti, gli ultimi, seguendone tappa per tappa la corsa. Ma
nessuno, in ultimità, riusciva a battere Gerbi, il "diavolo
rosso" del primo Novecento, ormai cinquantenne. "Ore 22 -
Di Gerbi non si sa ancora nulla. La notte è calata. I pastori
accendono i fuochi sulle montagne per indicargli la strada". E
Il diario di Gino Cornabò?
Cornabò è un libro che noi della setta ci raccontavamo l'un
l'altro, a pezzi, incontrandoci nei crocevia, per telefono. Chi
scrive ne aveva avuto una copia nel 1947 e aveva commesso l'errore di
restituirlo al proprietario dopo averlo letto appena due volte (mai
restituire Campanile, è uno sgarbo fatto all'autore). Quel travet
amareggiato e un po' ciula, che si crede vittima di una società
incapace di riconoscere la sua grandezza, e ripete, con affetto
sempre più esilarante, il suo “e non sono nemmeno cavaliere”, è
il solo vero personaggio creato da Campanile. Vero nel senso
campaniliano, cioè inesistente, finzione verbale, fin dal nome che
porta. Ma da quel nome si srotola una serie di avventure paradossali;
il personaggio incespica in ragazze di mano rapida, mariti gelosi; si
infila nudo, sbagliando camera d'albergo, nel letto di vecchie
signore; rimane ingabbiato in ascensore tutta la notte con una forma
di robiola che si è guastata per il caldo; progetta un romanzo su
due fidanzati di campagna minacciati da un signorotto, scoprendo solo
alla fine che qualcun altro aveva già scritto I Promessi
Sposi. "Non solo i
contemporanei, ma anche i trapassati sono contro di me: Alessandro
Manzoni mi taglia le gambe, mi traversa la strada, mi impedisce di
far carriera, di scrivere il mio capolavoro... Questo, sentite, non è
capitato a nessuno, mai".
Il
cuore del volume, l'oro del suo oro, la pietra che non usciva più di
miniera neanche per citazioni, è il Trattato delle
barzellette (1961) "ad uso
delle scuole, Università, famiglie, comunità, signore sole,
viaggiatori, tipi sedentari e professori della Sorbona", come
recita il sottotitolo. Non è solo una silloge di barzellette, che
Campanile ha messo insieme - e in parte probabilmente inventato -
pescando da tutti i repertori. È un lungo controcanto, campanilesco,
sul riso, che fa il verso a tutti i saggi scritti sull'argomento.
Campanile rifiuta il colore locale, gli indugi narrativi: prende la
vecchia storiella e la sfronda di tutti gli accessori, fino a farne
schizzare il veleno.
Tuttolibri
La Stampa, ritaglio senza data, probabilmente 2003
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