San Giuseppe Cafasso tra i carcerati |
Hanno avuto coraggio le
edizioni del Gruppo Abele a confrontarsi con un tema particolarmente
scottante, dato il loro impegno, i grandi santi «sociali» del
Piemonte ottocentesco.
Torino è ancora piena
del ricordo — soprattutto delle grandi opere — di don Bosco, del
Cafasso, del Cottolengo. Oggi si va riempiendo, invece, delle opere e
dei giorni di gruppi del tipo del gruppo Abele, ormai padre di molti
figli. È passato poco più di un secolo, ma sembra un millennio. Il
confronto, d’altronde, è inevitabile: meglio affrontarlo senza
reticenze.
Allora si diceva
«carità», oggi «condivisione»: è o non è la stessa cosa? Ieri
analfabeti, storpi, i mostri del Cottolengo, i condannati a morte del
Cafasso; oggi drogati, spastici, alcolisti: è la stessa cosa?
Diversi rivestimenti di un’identica miseria e di un identico
cristianesimo? La società produce nei diversi secoli forme quasi
identiche di emarginazione, per la «gioia», si potrebbe dire con
sarcasmo, delle «anime belle» che vi trovano palestre per i loro
«esercizi» di pietà?
Solo una mano leggera
come quella di Sergio Quinzio poteva affrontare il confronto (Domande
sulla santità. Don Bosco, Cafasso, Cottolengo, Edizioni Gruppo
Abele, Torino, 1986). Una mano che dubita, interroga, lascia in
sospeso. Che parla soltanto di storia; il confronto con l’oggi
resta implicito, lo farà il lettore. Ma lo farà inevitabilmente e
inesorabilmente. E, pur con molte attenuanti, il giudizio sarà duro
per il cattolicesimo sociale del passato. Tanto più duro quanto più
non soltanto cortese, ma anche accorato. Quinzio ricorda la sua
giovinezza fra i salesiani, ma molti di noi ritrovano nei tratti dei
santi sociali qualche cosa di una infanzia insieme vicina e lontana.
Panni, sporchi o puliti, ma comunque di famiglia: non soltanto il
gruppo Abele, ma tutto il cattolicesimo italiano deve rivisitarli.
Con coraggio ma anche con affetto, proprio come fa Quinzio.
Quante contraddizioni! Le
loro «opere» parlano ancora: basti pensare al lavoro dei salesiani
in tutto il mondo o al Cottolengo di Torino (vi si sta spegnendo, fra
gli altri poveri, il cardinale Pellegrino, il più grande fra i
vescovi «conciliari» italiani). Un po’ meno gloriose le opere del
«santo della forca», il Cafasso, eppure fra i tre il Cafasso regge
meglio degli altri il confronto con l’oggi. Ma dalle pagine del
libro le loro figure escono piuttosto deboli, esili, non grandiose né
eroiche.
Ma ad essere debole era
soprattutto il Piemonte dell’800: legato ad una monarchia piuttosto
provinciale, ad una cultura chiusa, estraneo ai venti che
dall’illuminismo in poi avevano cominciato a «criticare». Il
Piemonte baluardo della Controriforma, affinché dalle valli valdesi
e da Ginevra l’aria dell’Europa «moderna» non scendesse verso
il Po. «Don Bosco dà giudizi tanto perentori quanto ingiusti (sulla
base delle polemiche accuse controriformistiche, soprattutto
ricalcando S. Alfonso de’ Liguori) su Lutero e Calvino, presentati
come viziosi, impudichi, dissoluti, corrotti... Nella sua Storia
ecclesiastica scrive, ad esempio, che Lutero morì ’’vomitando
orribili bestemmie”» (pag. 33). Nell’opinione dei santi sociali,
i protestanti stanno insieme con gli atei, i politeisti, i
musulmani...
Si legge, con un certo
raccapriccio la lettera di don Bosco all’imperatore d’Austria
Francesco Giuseppe perché si muova a ristabilire il potere temporale
del papa (pag. 47): altro che Santa Alleanza!
Cafasso consola, sì, con
eroica bontà, i condannati a morte, ma «a quel che risulta non ha
mai trovato qualcosa da ridire contro una legge così dura, e che
usava ben altro metro per misurare le colpe dei nobili, dei ricchi e
dello stesso clero sottratto alla giurisdizione ordinaria e
sottoposto al benevolo foro ecclesiastico» (pag. 44). «L’universo
mentale — commenta mestamente Quinzio — restava quello di Joseph
de Maistre, ambasciatore di casa Savoia in Russia» (pag. 45).
Eppure, è sempre Quinzio a osservarlo, non era mancata nella storia
del cattolicesimo e della stessa Controriforma un’altra tradizione
di santi, sociali anch’essi, ma di diverso livello culturale (San
Camillo de Lellis, all’inizio del ’600; San Vincenzo de’ Paoli,
San Giovanni Battista de La Salle, ecc.). Era stato «San Vincenzo
de’ Paoli, sul letto di morte, a insegnare a una sua novizia il
dovere di farsi anzitutto perdonare dal povero o dal malato al quale
si porge un piatto di minestra, perché il gesto implica fatalmente
l’umiliazione di chi lo riceve» (pag. 24).
Quinzio sa bene che i
santi sociali sono figli del loro tempo e del loro Piemonte, nel bene
e nel male. I loro limiti non sono certamente nel campo della buona
volontà, ma, caso mai, in quello culturale. E la loro grandezza?
Quinzio, coerentemente con tutto il discorso cristiano che sta
portando avanti da anni, la trova là dove generalmente non la si va
a cercare, nei loro aspetti più negativi, o, se si preferisce,
crocefissi: «La precoce e pietosa vecchiaia di don Bosco... il
sentirsi dell’infelice Cafasso “una mezza creatura” e un “prete
da forca”... il sorridere del Cottolengo nel considerarsi un
“cavolo di Bra”; il loro modesto bagaglio culturale ed
intellettuale, nel momento in cui il distruttivo irrompere del
moderno nella cristianità avrebbe richiesto risposte storiche di ben
altra potenza (siamo negli anni del Manifesto di
Marx), li venero come segni di vera santità» (pag. 86).
Nessuna esaltazione,
dunque, per i loro ben noti e anche strepitosi successi, per le loro
«opere». Ma neppure, conclude Quinzio, per le aperture dialoganti
di oggi. I tentativi di «puntellare» ancora una volta la declinante
cristianità, compiuti con parecchia ingenuità dai santi sociali
dell’800, fallirono e oggi ci paiono eroici ma anche un po’
patetici. Ma i nostri tentativi di oggi e di domani? Quinzio non
risponde se non con il segno chenotico, ma tutt’altro che negativo,
della croce, che «non è il nulla» (pag. 88).
"il manifesto", ritaglio senza data, ma 1986
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