Rex Stout |
Nasce nell’Indiana, il
1° dicembre 1836, da genitori quaccheri da cui erediterà un'aria
ieratica e una barba caprina. Studia nel Kansas e a tredici anni,
divorati, senza sintomi apparenti d’indigestione, i milleduecento
volumi della biblioteca paterna, vince un campionato d’ortografia.
Nessun editore ne tenne, verosimilmente, conto. E così, troppo
vivace per sottoporsi alla metodicità degli studi accademici, troppo
estroverso per accontentarsi di scambiare chiacchiere e ingiurie
solamente col fornaio di Topeka, va a vendere sigari a Cleveland,
accompagna i curiosi nei pueblos Intorno a Santa Fé, si dà al
commercio di cesti indiani ad Albuquerque, fa il cicerone a Colorado
Springs, mette la cravatta del commesso di libreria a Chicago e New
York. Va militare in Marina — guadagnandosi i galloni di ufficiale
perché mancava il quarto a un tavolo di whist — ma non dura
più di due anni; pensa di far l’avvocato, ma finisce per vendere
collaborazioni a giornali e riviste. Finché, ricordandosi d’essere
stato un genio, inventa un sistema di risparmio bancario per
studenti, con sportelli che si aprono a centinaia in tutti gli
States, e diventa ricco, ricchissimo. Vola a Parigi, di cui riporta
in patria l’odore eccitante di certa avanguardia, costruisce casa
al confine tra il Connecticut e New York e comincia seriamente a
scrivere.
Ma Rex Todhunter Stout —
è sua la biografìa appena tracciata — comincia a scrivere troppo
seriamente. Il 1929 porta all’America una crisi economica di cui
nessuno può dissimulare la gravità, e un romanzo di Stout, How
like a God (in Italiano, da Sellerio, Due rampe per l'abisso,
di cui ciascuno ha potuto apprezzare, senza traumi né rimorsi,
l’indifferenza alle sorti, non tanto dell’America, quanto della
letteratura nella sua generalità. Né bastò l’appassionata difesa
dello studioso Joseph Warren Beach, che ne fece un modello della
tecnica letteraria del primo Novecento, a convincere il pubblico a
seguire con attenzione l’impegno del maturo narratore dell’Indiana.
Soprattutto non convinse Stout, che piazzò altri tre romanzi nel
mercato dei saldi della letteratura maggiore ed enunciò la
fondamentale regola del best-writer (autore di best seller) “chi
non ha la stoffa del romanziere, s’accontenti di fare il
narratore”. Alle ortiche l’arte, dunque, e avanti a tutta birra
nell’artigianato creativo.
Se l’arte può anche
essere incompresa, ché, prima o poi, qualcuno le renderà il giusto
merito, l’artigianato non ha senso alcuno senza successo: per
forzarlo, Stout sceglie un genere di enorme favore popolare, la
detective story. Oltreoceano dicono Business Is Business per
significare che talvolta si può scendere a patti con la propria
coscienza in nome della ragione economica, e ai suoi affari pensò
Stout respinto dalla porta principale, nel tempio delle lettere entrò
dalla porta di servizio usando il grimaldello più efficace. Oggi, a
un secolo dalla nascita e a un decennio dalla morte, veste ancora i
panni riveriti del grande sacerdote. Ha creato uno dei personaggi
indelebili della mitografia gialla: Nero Wolfe, un cervello di
prim’ordine e un palato ancora superiore iniettati in un settimo di
tonnellata di muscoli e, prevalentemente, di grasso.
Pensare Stout separato da
Wolfe è impresa ardua. È vero: nel suoi romanzi non sempre Wolfe fa
da padrone. Talvolta i protagonisti si chiamano Tecumseh Fox,
Alphabet Hicks, Teodolina Bonner e, persino, Ferguson Cramer (già,
in Fili rossi, proprio l’ispettore Cramer risolve da solo un
caso di qualche difficoltà). Ma, pur non disconoscendoli, è a Wolfe
e alla sua folta truppa di comprimari che Stout ha dedicato le
maggiori e, senza dubbio, le migliori energie.
Diversi nel fìsico,
nelle relazioni private, nell'intraprendenza sociale, Stout e Wolfe
sono simili nell’amore per la cucina e la botanica, nell’odio per
la televisione e i maneggioni della politica, nella passione per la
polemica e il duello In punta d’apostrofo. Dove, poi, si
sovrappongono addirittura è nel considerare il lavoro un male
necessario per assicurarsi beni, servizi e opportunità altrimenti
inaccessibili. Chi abbia qualche conoscenza delle storie di Nero
Wolfe, sa che uno dei doveri per i quali Archie Goodwin, il suo
portaborse, è pagato, consiste nello stimolare il suo principale,
neghittoso e sfuggente, ad accettare incarichi di lavoro. Stout non
paga un buttafuori, ma dichiara con rritante candore: “In tutta la
mia carriera di scrittore ho iniziato ogni romanzo il 10 o il 12 di
gennaio e l’ho finito in 39 o 40 giorni. Il resto dell’anno
leggevo, discutevo, giocavo a scacchi e facevo un sacco di altre
cose». Ai geni si perdona anche l’improntitudine, così come a
Wolfe e alle sue storie si perdona l’uniformità degli schemi e
l'insignificanza delle trame.
Tino Buazzelli nei panni di Nero Wolfe |
Dove sono allora i suoi
meriti, dov’è allora il suo fascino? Non vorremmo peccare di
presunzione, ma una storia di Wolfe è simile alla replica di un
testo del teatro No giapponese; che importa conoscerne sviluppi ed
esiti quando il suo pregio, ciò per cui si baratta parte del proprio
tempo e del proprio denaro, è il modo in cui è interpretato, la
trasgressione regolata e appena percettibile di un passaggio, di una
consuetudine, di una norma d’usucapione? Così è Nero Wolfe,
attore imprevedibile della stessa performance per oltre quaranta
romanzi, consumato guitto che dichiara di seguire stili e regole
solide e invarianti, per violarle appena in modi e momenti inattesi,
generatori di tensione ora drammatica ora, assai più spesso,
sapidamente e irrefrenabilmente comica.
Merito di un narratore di
solido mestiere, campione d'ortografia in gioventù e di sintassi in
età più avanzata, capace di crearsi un personaggio, una maschera e
uno stile inimitabili. Tanto inimitabili che qualcuno, come accade al
grandi del giallo (Sherlock Holmes e James Bond, ad esempio), ha
provato invece ad imitarli. Il Giallo Mondadori n. 1957, uscito in
estate, s’intitola va Nero Wolfe: delitto in mi minore. Non
era un palinsesto sbucciato, né un Inedito raccolto in bottiglia al
largo di Miami Beach. Era un apprezzabile tentativo di tale Robert
Goldsborough di ridare voce a Rex Todhunter Stout. Ne seguiranno
altri.
L'Unità, 30 novembre
1986
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