Con Giorgio Lukacs
avevamo incomincialo a discorrere dell'individuo astratto degli
esistenzialisti nell'atrio del teatro delle Arti. C'eravamo messi in
un angolo al riparo di una innocente siepe di curiosi che assistevano
al passaggio delle personalità illustri partecipanti alla riunione
dei «Partigiani della pace». Il lampo delle macchine fotografiche
sopravanzava di tanto in tanto le teste, e illuminava il magro arguto
viso del filosofo ungherese. Il nome “Lukàcs, Lukàcs”, nato
come un appello perentorio in qualche parte della sala ci arrivava
con la tenuità del bisbiglio. Qualcuno cercavaa Lukàcs; e il
filosofo ebbe forse quattro volte la tentazione di seguire quel
richiamo che vagava nella sala; ma si decise a continuare il
discorso.
Gli dico; — Quali sono
le ragioni del suo recente interesse per la filosofia
esistenzialista?
— È una giusta domanda
— mi dice. — L'avere scritto un libro intitolato: Esistenzialismo
o marxismo può sembrare in contraddizione con il mio giudizio
negativo. Ma a mio modo di vedere c'era un equivoco da dissipare.
L'esistenzialismo è tornato di moda in questi ultimi anni per merito
della grande forza di promozione della pubblicistica francese; questa
voga ha potuto far credere agli ignari che si trattasse di una
filosofia nuova, rivoluzionaria, antiborghese. Ho voluto invece
dimostrare che si tratta della punta estrema dell'idealismo
decadente. Il tentativo di mettere in rapporto l’esistenzialismo
con il marxismo è una delle tante manovre borghesi per limitare o
annullare il valore delle più grandi idee rivoluzionarie dei tempi
moderni stemperandole in una equivoca letteratura ricca di
pseudoproblemi.
La « libertà »
crociana
— Non è senza
significato — osservo io — che il numero maggiore di seguaci
Sartre lo recluti, tra la gente «angosciata » dall’ozio, che fa
naufragio in un mare di delizie.
— Il fatto di credere —
aggiunge ridendo Lukacs — che l'esistenzialismo abbia risolto in
modo cosi gradevole ed accettabile i problemi del marxismo è uno dei
tanti comodi alibi della società borghese. In Italia per compio per
conseguire lo stesso scopo si trovò molti anni fa un altro alibi:
l’idolatria di alcune generazioni di studiosi per Benedetto Croce.
Il «maestro» aveva scritto un libro, a loro modo di vedere
definitivo, con il suo Materialismo storico ed economia
marxistica. Non valeva perciò più la pena di occuparsi di
problemi già eliminati da un giudizio inappellabile. Mi è sempre
parsa strana — aggiunge Lukacs — l’importanza che gli italiani
danno a Benedetto Croce; mi sembra veramente sproporzionata al
significato attuale del suo pensiero. Si può dire che tutta
l’umanità abbia ormai archiviato il suo concetto della libertà
che è così strettamente legato, con i suoi angusti caratteri, alle
rivoluzioni borghesi del secolo passato.
— Ricordo a Lukacs che
la sua osservazione coincide con quella latta da Denis Saraut durante
la seduta ai chiusura del congresso del «Pen», in settembre a
Venezia. Saraut aveva detto dopo aver ascoltato tutti gli interventi
dei critici italiani, di essersi fatta l’opinione che in Italia,
fare della critica sia l’arte di parlare di Benedetto Croce. Ma
aggiungo, a discolpa dei miei connazionali, che quando si dice
italiani si dà un significato troppo estensivo al termine; gli
scolari di Croce sono ormai in Italia un manipolo che dà
l’impressione di essere numerosissimo, solo perché ha in mano i
più grandi organi di informazione.
Il nostro primo colloquio
aveva avuto termine; io avevo molte domande ancora da porre a Lukacs;
ma c’era la seduta del congresso che era ben più importante dei
miei quesiti. Lukacs mi aveva promesso però di riprendere la
conversazione; e l’abbiamo ripresa, in due tempi, nei locali della
C.G.I.L.
Gli chiedo se abbia in
programma libri nuovi. Mi risponde che in questi ultimi tempi sta
preparando il libro forse più interessante della sua vita
occupandosi febbrilmente dell'organizzazione della scuola e della
cultura del suo paese.
— Ho rapporti
quotidiani con migliaia di individui concreti — mi dice
sottolineando la parola — individui che hanno l’ardentissima
aspirazione di migliorarsi per contribuire al bene comune. È una
esperienza insostituibile che, più tardi, darà certamente anche i
suoi frutti teorici. Bisogna entrare nel vivo del lavoro e della
lotta degli uomini per conoscerne le esigenze ed esprimerle. Solo
quando si sentono queste esigenze e si ha la ferma volontà di
contribuire a realizzarle si è veramente liberi, si fa lavoro
veramente valido.
— Lei parla, immagino,
anche del lavoro di creazione artistica — gli dico.
— Ma naturalmente;
capisco che lei ha voglia di pormi il quesito che in genere mi viene
posto con ammirevole insistenza. «I contenuti che una società in
movimento propone all’artista non sono un limite alla libertà del
suo lavoro inventivo?». Non sono un limite; lo sarebbero solo se
questa società fosse considerata estranea o addirittura ostile alla
mente del poeta, del romanziere o del pittore. Ma questa ostilità,
se esiste, priva addirittura della possibilità non dico di creare
opere d'arte, ma addirittura di comprendere il proprio tempo. Tutte
le grandi epoche dell’umanità hanno avuto artisti che esprimevano
gli ideali dominanti e li facevano attivamente progredire. Oggi noi,
ideologicamente siamo senz’altro più progrediti; abbiamo la
consapevolezza di questo rapporto necessario tra arte e società, che
dà un carattere più decisamente volontario all’opera
dell’artista. Il quale ha piena coscienza della lotta che conduce
con i suoi mezzi particolari, con le sue opere.
Arte e società
A questo punto mi piace
di porgli un’ultima domanda. — Non le pare che questo legame
intrinseco, necessario con la società nella quale l’artista vive,
tolga alla opera d’arte il suo valore eterno? Non esiste il rischio
che l’umanità si adatti a considerare l’arte come fatto mutevole
e transitorio, come prodotto dell’attività mentale che cada
fatalmente con i motivi che l'hanno ispirata o determinata?
— L’arte, la vera
arte è senza dubbio eterna — mi risponde; — ma eterna con misura
umana, non religiosa e trascendente. La società è un processo
dialettico e il processo conserva tutto quello che di veramente
vitale è stato prodotto nel passato. Tutti gli uomini escono
dall’infanzia; e i problemi caratteristici dell’infanzia decadono
fatalmente nell’uomo adulto. Ma c’è nell'infanzia qualcosa di
perenne che l’uomo porta in sé fino all’ultimo respiro. La
società attuale conserva del passato tutto quello che è necessario
alla sua vita mentale; in questa memoria multipla nulla si perde che
abbia un valore che aiuti l’uomo a comprendere sè stesso e a farsi
sempre più profondamente umano. Solo, in questo senso, si può
parlare di valore eterno dell’arte; la sua eternità è la sua
attualità. Nessuna opera d'arte che gli uomini che assistettero alla
sua nascita proclamarono bella in senso assoluto, ha possibilità di
sopravvivenza fuori delle esigenze presenti degli uomini che vivono
in questo nostro tempo. Come vede si tratta di una eternità affidata
alla memoria: e la memoria ha una sua segreta saggezza. Siamo,
dunque, rispettosi del passato, quando il passato merita questo
rispetto; ma abbiamo lo sguardo rivolto in avanti: siamo decisamente
innamorati del futuro!
“l'Unità”, 3
novembre 1949
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