Per il duecentesimo
compleanno di Marx non c'è stato il clamore di altre ricorrenze del
passato riferibili al rivoluzionario di Treviri, né il fervore
religioso di certe antiche celebrazioni. La fine dell'Unione
Sovietica, che nel pensiero di Marx, anzi nel marxismo, anzi nel
marxismo-leninismo, pretendeva di trovare la giustificazione della
sua nascita e della sua esistenza, e del comunismo novecentesco che a
quell'esperienza si collegava, ha laicizzato la ricorrenza. Il che
non è necessariamente un male.
Un approccio laico, del
resto, era quello di Antonio Gramsci un secolo fa, per il primo
centenario della nascita, nell'editoriale scritto per il “Grido del
popolo”, il settimanale dei socialisti torinesi, dal titolo Il
nostro Marx. Basta rileggerne
l'incipit: “Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? [...] La
questione sarà probabilmente ripresa in questi giorni, per la
ricorrenza del centenario, e farà versare fiumi d’inchiostro e di
stoltezze. Il vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio
immarcescibile degli uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non
è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di
imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle
categorie di tempo e di spazio...”.
Unica
celebrazione solenne di questo secondo centenario è stata quella
svoltasi a Pechino, in un immenso Stato tuttora governato da un
Partito Comunista, ma il cui sviluppo lascia molte perplessità sulla
natura sociale di quel modello economico e politico. A Pechino, per
l'Italia, c'era Massimo D'Alema, che ha prodotto su Marx uno dei
pochi interventi italiani “simpatetici” di questo centenario.
Sulla stampa nazionale che un tempo chiamavamo “borghese” non
sono, infatti, mancati interventi sul Marx pensatore, storico,
teorico dell'economia, in gran parte encomiastici, e qualcuno di essi
ricordava che per alcune sue formulazioni e ricerche egli oggi funge
paradossalmente da maestro di quei capitalisti contro cui organizzava
la classe operaia e il proletariato. Ma in genere gli elogi si
accompagnano all'archiviazione del Marx ispiratore di movimenti
politici, ad una sua collocazione monumentale nella storia della
cultura, anzi della Cultura, occidentale. D'Alema no, in un certo
senso è rimasto “chierico”: ha perciò parlato di Marx come
maestro, tentando un'interpretazione della nozione di “capitale
fittizio” e dichiarando che la lente critica di Marx può aiutare a
governare il capitalismo, controllando le pulsioni distruttive che
accompagnano il “feticismo del denaro”.
Trovo
più convincente Immanuel Wallerstein che a Marx ha sempre guardato
senza rispetto religioso. Nel concludere un suo prezioso libretto, Il
capitalismo storico, più di
trent'anni fa, quando l'URSS c'era ancora, scriveva: “ Karl Marx è
stato una figura monumentale nella storia intellettuale e politica
contemporanea. Ci ha lasciato una grande eredità, che è
concettualmente ricca e moralmente ispirata.[…] Egli sapeva, a
differenza di molti di quelli che si sono spesso autoproclamati suoi
discepoli, di essere un uomo del secolo XIX […]. Adoperiamo dunque
i suoi scritti nell'unica maniera ragionevole - consideriamolo un
compagno di lotta, che ne sapeva quanto lui ne ha saputo”. Oggi –
in un dialogo con un giovane studioso italiano, Marcello Musto,
pubblicato un mese fa su “La lettura” del Corsera – Wallerstein
ricorda come Marx ci abbia insegnato “meglio di chiunque altro che
il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la
società” e come dal capitalismo come totalità (imperfetta, ma
totalità) sia possibile uscire. Marx, soggiunge, nel capitalismo
globalizzato e pieno di ingiustizie, è ancora nostro compagno e può
ancora aiutarci ad uscirne.
Quanto
a noi – parlo di me, ma credo possa essere riferito a diversi
compagni di “micropolis” e “Segno critico” - non abbiamo
difficoltà a definirci “marxisti” impenitenti, specie oggi che
esserlo è fuori moda. Ricordiamo l'affermazione di Marx di non
essere “marxista” e abbiamo letto con profitto su una rivista on
line di storia delle idee,
“InTrasformazione”, patrocinata dall'Università di Palermo e
diretta da Piero Violante, l'utilissimo glossario storico sulla
babele dei marxismi e sulla confusione semantica e concettuale che ne
è nata, elaborato da Enrico Guarneri, un vecchio compagno della
scuola di Mario Mineo. Ma, a modo nostro, ci piace continuare a dirci
“marxisti”, provando a ricomporre, seguendo l'esempio del nostro
compagno Karl, la scissione tra ricerca teorica e impegno pratico, di
cui scrive Paolo Favilli sul “manifesto” (“Bisogna entrare nel
merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte,
diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde
nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia
politica”). Ci riconosciamo in quanto, all'inizio del millennio,
ribadiva un grande intellettuale (ed eccellente poeta) come Edoardo
Sanguineti: “Nel momento niente offre una visione più
matura, più ricca del marxismo che, mi pare, è ancora quella che
spiega meglio a che punto siamo della storia umana, quali sono i temi
fondamentali da affrontare e anche qual è la direzione verso la
quale muoversi, che poi è la questione veramente radicale. Cioè:
che fare”.
Il nostro "marxismo"
è un'approssimazione, un modo di dire, non certo un pensiero in sé
compiuto, ma, così concepito, non rientra nel circuito
dell'ideologia. L'ideologia non cerca verifiche o smentite nella
realtà, si contenta della coerenza formale; il pensare alla marxista
invece di necessità comporta scarti e accidenti. Si può essere
davvero "marxisti", solo lasciando aperte porte e finestre.
"micropolis", maggio 2018 - Nella rubrica "La battaglia delle idee"
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