Il "Simposio" di Platone visto da David |
Appare curiosa l’idea
di Platone per cui ciò che più serve, per essere un vero filosofo,
è il coraggio. Ancora più sorprendente è che questa tesi venga
sostenuta nel bel mezzo di una discussione sull’amore, in quella
notte di discorsi che fu il Simposio. È curioso, ma è così,
e qualche ragione probabilmente l’aveva. Perché parlare dell’amore
è un modo per parlare di noi, per capire chi siamo. E per capire chi
siamo ci vuole coraggio.
Quando Aristofane aveva
cominciato a raccontare la sua buffa storia, gli altri si erano messi
a scherzare, ridendo di quei primi uomini con due facce, quattro
gambe e quattro braccia — delle sfere, che seminavano figli nella
terra e si muovevano rotolando. In realtà erano esseri perfetti,
potenti e veloci; e avevano cercato di scalare il cielo. Per
punizione sarebbero stati tagliati in due, «come uova o pere». Fu
una punizione inattesa e dolorosa. Divisi, questi esseri si
scoprirono incompleti, non facevano più nulla. Cercavano
disperatamente la metà perduta; e se la ritrovavano, si lasciavano
morire abbracciati, stretti nel vano tentativo di tornare uno da due
che erano diventati. Morivano di desiderio. Così Zeus dovette
intervenire una seconda volta, per salvarli. Comandò che i loro
organi genitali venissero spostati all’interno: accoppiandosi gli
uomini forse avrebbero trovato requie al loro dolore, tornando a
vivere. In parte accadde. Ecco perché l’amore è così importante:
ci salva. Ma non del tutto, perché l’inquietudine, in quelle sfere
divise in due, rimase. Rimane tuttora.
Buffa quanto si vuole, la
storia di Aristofane ci mette davanti a noi stessi: esseri
imperfetti, mancanti. Per questo viviamo nel desiderio. Parlare di
amore è dunque un modo per parlare di noi, e delle nostre mancanze.
Un tempo — il tempo del mito e dell’infanzia, dell’innocenza e
dell’ignoranza — eravamo completi, non ci mancava nulla, e
stavamo bene. Adesso, però, è solo mancanza, e può affogare, come
scriveva Eugenio Montale. Che cosa stiamo cercando, davvero? La metà
perduta, certo. Ma come hanno insegnato Sigmund Freud e Marcel Proust
nell’amore si è sempre in quattro: ci sono le persone fisiche e le
loro proiezioni, i fantasmi che sempre ci accompagnano. Nella metà
perduta cerchiamo noi stessi, quello che vorremmo essere e ancora non
siamo. Cerchiamo quello che ci manca per essere noi stessi. Capire
chi siamo, quale è il nostro posto nel mondo, e il senso che vorremo
dare alla nostra esistenza: lì è il desiderio profondo. Per questo
il coraggio è così importante: ci vuole coraggio per cercare sé
stessi, riconoscendosi nei propri limiti e difetti.
“La lettura –
Corriere della sera”, domenica 28 aprile 2018
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