Maschera ninja |
Facciamo un piccolo
gioco. Se diciamo ‘Samurai’, quali film vi vengono in mente? E se
diciamo ‘Ninja’? Le probabilità che nel primo caso rispondiate
con I sette samurai, Kagemusha l’ombra del guerriero,
Rashomon, e nel secondo con la saga delle Tartarughe Ninja, sono
molto alte. Il gioco appena proposto non è casuale. Perché proprio
il cinema ha contribuito in maniera determinante a costruire l’aura
leggendaria che, tanto nel mondo orientale quanto in Occidente,
circonda queste due opposte figure di guerrieri giapponesi. Ed è
stato il cinema, più di ogni altro moderno vettore culturale, ad
aver conferito, nel nostro immaginario, diversa statura storica,
sociale, epica a samurai e ninja. Nobili, coraggiosi, sprezzanti del
pericolo, disposti all’estremo sacrificio, i primi. Misteriosi,
spietati, infidi, occulti, i secondi. Ma davvero tali categorie si
addicono loro fino in fondo?
La mostra in corso al
MAO, Museo di Arte Orientale di Torino, Ninja e Samurai. Magia ed
estetica, si è assunta il compito di raccontare come andarono
veramente le cose, alle generazioni dei film di Akira Kurosava e a
quelle delle tartarughe fumetto di Kevin Eastman e Peter Laird. La
dichiarazione di intenti è tutta nel sottotitolo, che Daniela
Crosella ribadisce in uno dei saggi introduttivi: «Magia ed
estetica. Due sostantivi che costituiscono i più diffusi stereotipi
riguardo le figure storiche di ninja e samurai. Termini scelti con
l’intenzione di suggerire una dimensione fantastica per poter
giungere, attraverso un percorso narrativo, ad una più attendibile
conoscenza di queste figure che, esaurito il loro compito nella
storia passata, esercitano un innegabile fascino nelle generazioni
che si sono susseguite».
Il doppio ingresso
virtuale da oltrepassare lungo la via della mostra apre altrettanti
mondi che, pur generati dagli eventi di uno stesso Paese, appaiono a
chi oggi li incontra incredibilmente distanti tra loro. Citando il
sottotitolo, distanti nella magia che si creò intorno a imprese in
un caso mitiche e nell’altro avvolte dall’oscurità; distanti
nell’estetica delle discipline formative e rituali,
dell’abbigliamento e delle armi da battaglia o da guerra
clandestina. C’è poi una terza porta, dietro cui si nasconde il
mondo dei Guardiani della pace. A partire dagli albori del
diciassettesimo secolo e per quasi tutto il diciannovesimo,
fuorilegge e tutori dell’ordine si affrontarono usando armi e
tecniche mutuate dai ninja, cui i gendarmi aggiunsero lo strumento
spietato della tortura.
Fonti della narrazione
espositiva allestita negli spazi del MAO sono oltre duecento pezzi
datati dal ’500 al ’900, provenienti dal museo stesso, dal Museo
d’Arte Orientale di Venezia e da collezioni private. Alcuni
compaiono pubblicamente per la prima volta. Nel mondo dei samurai
entrerete tenendo a mente una citazione dallo Ujishui monogatari,
Storie raccolte a Uji, racconto di autore ignoto scritto nei
primi decenni del tredicesimo secolo, riferita a coloro che,
ottocento anni fa, si chiamavano mononofu o tsuwamono,
i guardiani del palazzo reale: «I giapponesi sono persone che non
rimpiangono di perdere la loro vita, come la rugiada che svanisce
all’alba». Il nome mutò poi in bushi, o samurai,
senza toccare i valori fondamentali della fedeltà, dell’integrità
morale, del coraggio, della maestria nell’impugnare la katana
e, non ultimo, dell’affrontare la morte lontani da ogni paura.
Guerrieri di nobili origini, al servizio dell’imperatore e dei
kuge, i signori: questa l’idea comune del bushi. Ma,
avverte Crosella: «La figura del guerriero giapponese è multiforme
e sovente disomogenea: teoricamente il bushi dovrebbe
provenire dall’aristocrazia, ma risulta palese che le battaglie non
potevano essere combattute dai soli nobili».
Cimeli bushi
Quando, al termine del
XII secolo, l’aristocrazia guerriera delle province andò
imponendosi sui kuge e sulla corte imperiale, detenendo di
fatto il potere per quattrocento anni, non erano certo uomini di alto
lignaggio a costituire il grosso degli eserciti. Il vertice della
casta militare egemone era comunque occupato da un nobile, lo Shogun,
al quale sottostavano le varie classi di samurai. Shogun e sottoposti
continuavano a seguire gli antichi valori, esaltandoli anche
attraverso il teatro, la pittura a china, la poesia, la cerimonia del
tè e coniugandoli alle arti militari. Un’ulteriore annotazione di
Crosella diviene guida per ammirare con il giusto sguardo i cimeli
bushi: «Possiamo
leggere i periodi storici grazie allo stile e alla varietà delle
armi, delle protezioni, delle armature, degli abbigliamenti…
L’estetica prende contorni diversi in base alla funzione: semplice,
rustica, efficace, ricca di riferimenti propiziatori a partire dalle
epoche più belligeranti, e sempre più sontuosa, raffinata, fine,
iconografica nei tempi di pace».
Così vanno visti i
corredi da viaggio, comprensivi di un set per la cerimonia del tè;
le spade e le else, le katane, il mobiletto porta spada, le lance,
gli elmi, i pugnali, i falcioni. Per fermarsi, increduli, davanti
all’armatura blu del periodo Edo: lacca, leghe metalliche, seta,
cotone, lino, pelle, corno, crine. Quando gli occhi riescono a
staccarsi da tanta meraviglia, colgono, dietro l’angolo, un’ombra
netta e scura che si proietta su un muro. Benvenuti nel mondo dei
ninja, popolato di Shinobi, gli uomini ombra; Onmitsu, gli agenti
segreti; Monomi, gli osservatori; Ukami, le spie.
Tutto, in queste stanze,
sembra voler sfuggire allo sguardo degli estranei. Qui non
scintillano le katane, la luce non esalta i corredi guerrieri,
dentro le vetrine non brillano argenti e lacche. L’ombra prima
intravista su una parete appartiene a un’armatura che il buio rende
quasi invisibile. Lega di ferro, cotone, lacca. Misera, se messa a
confronto con la più spartana tra le armature bushi. Poveri sono le
decine e decine di oggetti esposti. All’apparenza nient’altro che
lame, dardi, punte, catene, barre di ferro, spade. All’apparenza,
appunto. Perché i cartellini che accompagnano ciascuno di essi,
aggiungono un aggettivo che lo trasforma in ben altra cosa. Il dardo
è da lancio, come le stelle a quattro punte, a svastica, a losanga.
Il falcetto è richiudibile, multiuso, con catena appesantita, da
battaglia, da guerra. Il cilindro in ottone è un lanciadardi
meccanico, la custodia per pipa è ‘con lama nascosta’, il
bastone è ‘animato’. Poi gli artigli metallici, la corazza da
mano, l’anello cornuto, i colpitori, i triboli, la chiave
grimaldello, la lampada con giroscopio, il tritone da segnalazione, i
talismani e il sonaglio buddhista con lama nascosta…
Le armi dei ninja
Le armi dei ninja
erano i ninja stessi, le espressioni materiali di un concetto
filosofico cinese, kyojitsu tenkhan ho, ben sintetizzato
nell’introduzione di Giada Turtoro a questa parte della mostra: «…
quell’insieme artefatto, cioè, di realtà e mistificazione, storie
e leggenda, tradizione e adattabilità, che li ha resi (i ninja, ndr)
evidentemente immortali se ancora oggi compaiono per un attimo sulla
bocca di tutti, ma nessuno sa esattamente di chi o di cosa stia
parlando». Una filosofia, il kyojitsu tenkhan ho, applicata
dai ninja manipolando le informazioni, servendosi dell’inganno,
della dissimulazione, di ipnosi e spiritismo; sovrapponendo verità e
fantastico. Nel dizionario delle parole che appartengono al ninjutsu,
l’apparato strategico, si incontrano kancho, spia;
kikimonoyacu, addetto all’ascolto; rappa, confondere
o distruggere; kagimono hiki, coloro che annusano e ascoltano.
Il nome stesso, ninja (usato
fuori dal Giappone, dove gli uomini di questo esercito oscuro erano
chiamati shinobi), si traduce con infiltrato, ma anche con
paziente e perseverante. Le origini dei ninja, più familiare a noi
chiamarli così, non hanno una datazione precisa. La storia ne
attesta l’attività clandestina forse a partire già dal
tredicesimo secolo, certamente fra il quindicesimo e diciassettesimo,
il turbolento Periodo Sengoku. Con l’unificazione del paese sotto
lo shogunato Tokugawa (1603 – 1868) la fama dei ninja declinò, per
divenire leggenda vicina alla superstizione nella seconda metà
dell’800. L’origine del ninjutsu si fa invece risalire al
celebre testo Sun Tzu sull’arte della guerra, redatto
duemila e cinquecento anni fa. Punto di riferimento della bingjia,
la più importante scuola di strategia della Cina antica, lo Sun
Tzu accosta all’argomento principale indicazioni riguardanti la
diplomazia, l’intelligence, l’economia e una ‘teoria della
pace’, riassunta nella frase ‘Vincere senza combattere’ che
sembra appositamente coniata per il futuro modus operandi del
ninjutsu. Ulteriore fonte ispiratrice sarebbe stata, sempre
dalla Cina, lo Yinshenshu, l’Arte della scomparsa del corpo.
Ugualmente sconosciuto il periodo in cui questa somma di teorie
arrivò nel paese del Sol Levante. Forse lo portarono alcune sette
buddhiste sincretiche, che elessero a dimora ascetica e lontana dalla
gente le montagne giapponesi. Scrive Turtoro: «Da qui, e dalla
necessità di difendere queste piccole, umili comunità, sarebbero
nati i primi shinobi che, con un tipo di ‘guerra asimmetrica’,
garantivano la prevenzione di attacchi militari. Con il crescere di
queste comunità e a causa della posizione strategica di alcuni passi
di montagna, gli shinobi degli esordi furono costretti a
mettere le proprie conoscenze al servizio di questo o quel daimyo
(la massima carica feudale, ndr), così fornendo sostentamento al
proprio clan e garantendogli inattaccabilità geografica». In cima
alla piramide del clan ninja stava il jonin, il maestro,
celato da identità segreta. Subito sotto, i chunin
rivestivano un ruolo di comando e coordinamento nei confronti dei
genin, i guerrieri. L’abilità nel saper agire senza essere
visti, la micidiale capacità di colpire, la forza e la
determinazione dei ninja nascevano da un complesso intreccio di
pratiche spirituali ed esoteriche, ricerche in campo chimico e
alchemico, ferreo addestramento fin dalla prima infanzia. Erano,
questi, in parallelo, strumenti di sopravvivenza per un popolo ‘a
parte’, temuto da una società dominante, che si serviva di loro
per non sporcarsi le mani e al medesimo tempo li emarginava. Nessuno
studio, compiuto o futuro, riuscirà a conferire ai ninja la certezza
della loro esistenza. Ma, sostiene a ragione Giada Turturo: «Come in
uno zenonico paradosso, affermandone la non esistenza si afferma
l’esatto contrario: essi esistettero, e in forme nuove esistono, in
virtù della propria ‘invisibilità’».
Lo shogunato Tokugawa
elesse Edo, oggi Tokyo, sua capitale. La pace ristabilita dopo il
Sengoku – jidai, il Periodo degli Stati combattenti durato un
secolo e mezzo, favorì la crescita dei commerci e al medesimo tempo
la migrazione di massa verso la piccola città. I lunghi decenni di
guerra e la miseria avevano reso le classi inferiori ostili verso
qualsiasi governo, alimentando disordini e rivolte. A difensori del
popolo si eressero criminali di mezza tacca, i machiyakko
(compagni di strada), che proteggevano i quartieri dai ladri, dai
soprusi dei ricchi e dai samurai corrotti. Ovviamente non senza
tornaconto. Le armi continuavano a circolare in abbondanza, a
dispetto del decreto promulgato prima dell’avvento dei Tokugawa,
che vietava ai cittadini il possesso di spade, archi, lance e
quant’altro, con l’eccezione delle classi nobiliari. Erano armi
nascoste dentro oggetti comuni, usate per difesa personale. Nuove
leggi dichiararono tollerati coltelli e spadini, ma poiché non erano
state fornite misure precise, i criminali giravano impugnando i
wakizashi, lunghe e affilate spade. Si tentò di correre ai
ripari imponendo lame che non dovevano superare i quarantacinque
centimetri. Se ai samurai era concesso il privilegio di portare il
daisho, la coppia di spade, il ruolo dei gloriosi guerrieri
subì un radicale ridimensionamento. Quelli di rango elevato
divennero funzionari amministrativi, mentre agli hatamoto e ai
gokenin, di rango
inferiore, non restò che trasformarsi in mercanti, manovali e,
tutt’altro che di rado, in fuorilegge chiamati kabukimono
per la stravaganza degli abiti. Loro acerrimi nemici erano i kyoaku,
i cavalieri della strada. Kabukimono e kyoaku possono
essere considerati i precursori della Yazuka, la mafia
giapponese. In tale situazione si rese indispensabile ristabilire
l’ordine con pugno ferreo. Nel corpo di polizia, comandato dai
Machi–bugyo, commissari e magistrati, erano arruolati, tra gli
altri, i Metsuke, agenti di spionaggio e controspionaggio; gli
okkappiki, informatori; gli Yoriki, i tenenti, samurai
a capo delle pattuglie; i Komono, attendenti a stretto
contatto operativo contro la delinquenza. Questi ultimi non erano
autorizzati a portare una spada, sostituita da strumenti di offesa e
difesa non letali, almeno in teoria. La mostra ne offre un vasto
campionario. Fra i tanti, lo jutte, manganello uncinato in
ferro; lo hananeji, manganello semplice, il tessen,
ventaglio in lega di ferro, il tenouchi, attrezzo in legno
legato a una corda; il sokutoki, scatoletta contenente una
miscela a base di peperoncino da soffiare sul viso del sospettato.
Tre le dotazioni del ‘kit’ per gli arresti, il torimono mittsu
dogu: sasumata, un forcone; sodegarami, un bastone
con rostro; tsukubo, un’asta a T. I prigionieri venivano
legati con la corda da cattura, hojo o torinawa, il cui
utilizzo si apprendeva attraverso la complessa disciplina dello
hojotsu. I nodi erano veramente impossibili da sciogliere, e
il loro disegno indicava il tipo di delitto commesso.
Dei delitti e delle
pene
Le condanne che i
magistrati infliggevano ai colpevoli andavano dal minimo degli
arresti domiciliari al massimo della pena capitale. Tra questi due
estremi c’erano la confisca dei beni e l’esilio; l’ento.
carcere; il tataki, pestaggio; il katairo e nagaro, lavori forzati e
schiavitù. I condannati a morte venivano portati in corteo fino a
Suzugamori, la piazza delle esecuzioni, e qui uccisi scegliendo tra
varie e disumane opzioni. La più blanda era l’impiccagione. Stando
ai registri dell’epoca, durante lo shogunato si arrivò a
giustiziare duemila persone in un mese. Le confessioni potevano
essere estorte tramite quattro tipi di tortura. Anche in questo caso,
meglio sorvolare sulle crudeltà cui erano sottoposti i presunti
autori di reati o chi era reticente nel fornire informazioni utili
alla legge.
SCHEDA
CINEMA NINJA
Non tutta di serie B la produzione cinematografica in tema di Ninja. Tralasciando i titoli di animazione e ispirati ai fumetti delle Tartarughe, va citato in primis Agente 007 Si vive solo due volte (1967), dove Sean Connery si addestra in una scuola ninja. Il primo film veramente ninjutsu è però The Octagon (1980), firmato da Eric Karson, con Chuck Norris e Lee Van Cleef. Un anno dopo, con L’invincibile ninja, Menahem Golan inaugura una fortunata serie che vede l’attore giapponese Sho Kosugi protagonista sullo schermo di spettacolari combattimenti. Nel 1982, John Frankenheimer, regista di pellicole come L’uomo di Alcatraz e Il braccio violento della legge, dirige Scott Glenn e Toshiro Mifune in L’ultima sfida. Fittissima la produzione di ninja movies in Oriente, generalmente di bassa o infima qualità. (lds)
“il manifesto”
10/03/2018
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