Da molti anni Domenico
Losurdo è impegnato in una generosa e meritoria battaglia contro la
straripante egemonia culturale della destra. A partire
dall‘equiparazione tra marxismo e totalitarismo, e anche grazie
alle abiure di molti intellettuali di sinistra, la rivoluzione
conservatrice ha compiuto un lungo percorso di decostruzione
reazionaria, per legittimare l'assolutismo liberista.
Questo percorso di
critica dell'ideologia (già sperimentato, per citarne solo alcune,
nelle opere su Hegel, Nietzsche, Stalin) continua con La lotta di
classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, Roma-Bari
2013). Negata e contrastata fin dall'apparizione nel Manifesto dei
comunisti, la teoria della lotta di classe è stata interpretata
e applicata in accezioni tanto diverse da poter fungere da chiave di
lettura della vicenda del movimento operaio del XIX e XX secolo.
Losurdo si dedica in
primo luogo a chiarire il significato e la portata del concetto così
come viene elaborato da Marx ed Engels. Al centro del ragionamento vi
è la concezione plurale della lotta di classe, che vale sia in senso
storico che in senso attuale: il conflitto capitale-lavoro è solo
una delle forme della lotta di classe, che non annulla altre
contraddizioni tra le quali hanno particolare importanza la questione
femminile e soprattutto quella nazionale. A differenza di Fourier e
Proudhon prima e dei socialisti imperialisti alla Lassalle poi, Marx
ed Engels riconoscono l'importanza e la legittimità della questione
nazionale (la solidarietà con la causa irlandese e polacca è
ricorrente) e coloniale (India e Cina). Molto significativa è la
decisa presa di posizione per il nord “capitalista” nella guerra
di secessione, che indica come obiettivo prioritario l'abolizione
della schiavitù: la barbarie dello sfruttamento capitalista si
riflette in quella coloniale; la liberazione del proletariato non è
una questione economica, ma una “lotta per il riconoscimento”. La
dinamica delle lotte di classe è integralmente storica, il che
implica un possibile superamento della divisione in classi e
l'universale riconoscimento della dignità dei popoli. In questo
senso il marxismo nasce e si sviluppa in netta opposizione ad ogni
determinismo, tanto quello di chi nega o attenua l'esistenza del
conflitto (come nel giusnaturalismo e nel contrattualismo), quanto
quello di chi, come Nietzsche, vede nella subordinazione un dato
naturale e necessario. L'approdo a questa visione articolata e mobile
non è però immediato né pacifica. Nel 1848, e di nuovo al tempo
della Comune, Marx è propenso ad affermare una prospettiva
rivoluzionaria unificata sull'asse del conflitto capitale-lavoro.
La molteplicità delle
forme e manifestazioni, spesso contraddittorie, in cui si presenta la
lotta di classe, acquisisce importanza decisiva nell'epoca aperta
dalla rivoluzione sovietica, che a sua volta si sprigiona dalla
grande guerra, evidenziando fin dal suo innesco l'intreccio tra
questione nazionale e lotta operaia. Lenin è l'interprete più
avvertito dell'età dell'imperialismo, di cui coglie la “doppia
diseguaglianza” che attraversa il XX secolo: i paesi coloniali o
comunque subordinati (come la Russia zarista), non possono realizzare
l'emancipazione delle classi subalterne senza uscire dalla dipendenza
economica e dall'isolamento politico internazionale. Fin da
Brest-Litovsk il governo dei soviet sperimenta per primo il dilemma
che tante tragiche scelte imporrà ai regimi postrivoluzionari del
‘900: come espropriare le vecchie classi dirigenti, reperendo
contemporaneamente le risorse (in termini di capitali e conoscenze)
per sviluppare le forze produttive necessarie a uscire dal
sottosviluppo? Lenin affronta il problema con la Nep: bisogna
riaprire all'iniziativa economica e al “know how” della
borghesia, senza mettere in discussione il monopolio politico
bolscevico, perché senza un'adeguata base materiale non è possibile
alcuna forma di socialismo. Vista col criterio della doppia
diseguaglianza (sociale e nazionale), lo spostamento verso “sud-est”
delle lotte rivoluzione nel novecento non è la confutazione
dell'ipotesi marxiana, piuttosto la conferma della natura multiforme
e su più piani della lotta di classe. Il realismo “costruttivo”
di Lenin è uno dei due poli attorno a cui oscilla il movimento
operaio; all'opposto si manifesta a più riprese - come nel 1919-20 -
l‘ipotesi di una “guerra civile mondiale” tra le due schiere
omogenee della borghesia e del proletariato. Questa visione
riduttivistica si accompagna spesso (in Urss e fuori) ad
un'identificazione del socialismo con un egualitarismo assoluto, che
porta a trascurare la varietà delle lotte o a considerare tradimento
e sconfitta qualsiasi altra tendenza. Rientrano in questo schema
quanti esaltano la miseria “condivisa” del comunismo di guerra
contro la “restaurazione capitalistica” della Nep, come coloro
che svalutano la lotta dell'Urss al nazismo perché macchiata da un
carattere patriottico. In questo modo si manca la comprensione
dell'importanza storica del movimento anticoloniale; del resto il
progetto nazista, che proietta in Europa il colonialismo, evidenzia
come il capitalismo imperialista si fondi contemporaneamente
sull'oppressione di classe quanto su quella nazionale e razziale.
Nella parabola della
rivoluzione cinese è contenuto l'intero spettro dei modi di
intendere e condurre la lotta di classe. La peculiare esperienza
dell'esercito popolare maoista ha al centro la necessità di superare
insieme l'oppressione di classe e la dipendenza economica,
riconoscendo la funzione progressiva dell'alleanza con la borghesia
nazionale in funzione antimperialista. Queste caratteristiche,
oscurate da svolte estremiste e catastrofici scacchi, riemergono
pienamente con la svolta di Deng, che si rifà ripetutamente
all'esperienza della Nep. Precipitosamente liquidata da sinistra come
“restaurazione capitalistica”, la strepitosa crescita cinese va
invece considerata come l'esperienza più avanzata di uscita dalla
“doppia diseguaglianza”. Confermano questa lettura, del resto,
gli esiti politici ed economici opposti della crisi del 1989 per Cina
e Urss. La catastrofe sociale e nazionale della Russia postsovietica
mostra le similitudini tra quest'epoca e la restaurazione del 1815.
Sul piano ideologico il crollo di regimi politici oppressivi e
decrepiti diviene discredito di ogni ipotesi di cambiamento, ennesima
riproposizione dell‘estinzione della lotta di classe, e insieme
rilegittimazione della superiorità occidentale (colonialismo
incluso); al modello unico liberale corrisponde sul piano politico il
lancio di un progetto globale unipolare. Ma come la restaurazione
postnapoleonica chiuse solo momentaneamente l'età delle rivoluzioni,
così in pochi anni “superimperialismo” Usa e “fine della
storia” sono falliti miseramente. Il paradigma della lotta di
classe resta il più adatto a comprendere la storia mondiale. Del
tutto di là da venire è invece la possibilità che i diversi
conflitti attuali trovino una qualche sintesi, almeno sul breve
periodo.
“micropolis”, giugno
2013
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