24.6.19

E Togliatti salvò i fascisti (Nello Ajello)



«Oggi Consiglio dei ministri per elaborare il testo dell'amnistia», annotava Pietro Nenni nel suo diario il 19 giugno 1946. E continuava: «Tendenza di De Gasperi: "mettere fuori tutti i fascisti"; tendenza di Togliatti:"mollarne il meno possibile". Due modi di intendere la Repubblica». Il dibattito centrato intorno a questo dilemma ideale non andò per le lunghe se, appena tre giorni più tardi, il 22 giugno - sessant' anni fa, esatti - il decreto presidenziale venne ufficialmente emanato. Quel testo fu subito definito «l' amnistia Togliatti», dal cognome del segretario del Pci che nel primo governo De Gasperi rivestiva la carica di Guardasigilli. Lo stesso titolo porta il volume che alla vicenda ha dedicato lo storico Mimmo Franzinelli (Mondadori), corredandolo di un sottotitolo esplicitamente polemico: "22 giugno 1946, colpo di spugna sui crimini fascisti".
Nel segno della fretta si svolsero, di fatto, i primi atti della magistratura chiamata ad attuare il decreto. In appena quattro giorni, la Corte d'Assise di Roma scarcerò ottantanove fascisti accusati di «collaborazionismo o di atti rilevanti». Fra gli umori, che Nenni immaginava contrastanti, del leader democristiano e del capo comunista, furono i primi a prevalere. Nel giro d'un paio di anni, sarebbero tornati in circolazione molti personaggi che all' indomani della caduta del fascismo erano stati condannati, a volte perfino con troppo spirito punitivo.
«Condanne eccessive», annota Franzinelli, vennero trasformate in «strabilianti proscioglimenti». Se si dovesse assegnare a quell'amnistia un valore di simbolo, non ci sarebbe da trarne motivi di esultanza per il «nuovo corso». Essa valse a confermare lo scetticismo che, fin dagli albori dell'epurazione, aveva pervaso le personalità antifasciste che venivano chiamate a gestirla. L'ipotesi che l'epurazione stessa fosse nata un po' deforme - è qui il caso di ricordarlo - aveva trovato alimento nel fatto che il primo suo fautore, Pietro Badoglio, mancava di ogni requisito per ergersi a moralista. Fin da allora, 1944, venne contraddetto, nei fatti, il proposito di punire i responsabili di vertice, evitando di prendersela con certi «poveri diavoli di gerarchetti», cioè con «i nostri fratelli sciocchi» (così li chiamava Carlo Sforza, primo Alto Commissario all' Epurazione). Lo stesso Nenni, insignito a sua volta della carica dopo la nascita del governo Parri, trovò difficile attuare la direttiva di «colpire in alto e indulgere in basso». E concluse che «nel campo dell' epurazione» si era «raggiunto il risultato di scontentare tutti».
Gli scontenti dell'amnistia si contavano ora in gran numero fra gli antifascisti e gli uomini della Resistenza, cioè in un ambiente che comprendeva i militanti del partito di cui proprio Togliatti era a capo. A mano a mano che la Cassazione tornava, con intenti assolutori, sulle sentenze che erano state emesse dalle Corti d' Assise Straordinarie nell'immediato dopoguerra, specie nell'Italia del nord, la protesta saliva di livello. Falliva così l'intenzione di procedere a una pacificazione nazionale. «L' associazionismo partigiano», scrive Franzinelli, «considerò l' amnistia come uno schiaffo». Tornavano alla vita civile collaborazionisti e delatori, complici dei nazisti e confidenti dell' Ovra, gerarchi che si erano distinti nelle diverse reincarnazioni del regime littorio, bastonatori, aguzzini, fucilatori, teorici ed esecutori della «soluzione finale», componenti degli organi di giustizia della Repubblica sociale, giornalisti dediti all' apologia del regime. Nei territori da loro amministrati, i prefetti registravano quelle reazioni esacerbate. Le associazioni delle vittime del fascismo indirizzavano ai governanti documenti sdegnati, nei quali campeggiavano slogan del tipo: «Evviva la Repubblica! Abbasso l' amnistia!». Nei volantini spiccava la minaccia di «riprendere le armi per la seconda lotta di liberazione». Nei diari dei capi progressisti (ancora una volta in quello di Nenni, giornalista ancor prima che leader politico) dominano le annotazioni riguardanti «la macchia d' olio dell'agitazione» e si citano focolai di rivolta estesi dal Piemonte in tutto il nord. «A Milano», registra il capo socialista, «sono comparsi camion di partigiani in armi». Nelle aule di giustizia, imputati fascisti in procinto di venir perdonati vengono sottratti con fatica al furore del pubblico. A Casale, settembre 47, durante il processo contro gli autori dell' assassinio di alcuni partigiani fu necessaria la mediazione del segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio - con la garanzia che il presidente della Repubblica non avrebbe firmato le istanze di grazia - perché tornasse fra gli astanti un minimo di ordine, dopo che una dozzina di carri armati erano entrati a presidiare la città. Nell'occasione il questore di Torino, l'azionista Giorgio Agosti, interpretò, in un colloquio con il ministro dell'Interno Mario Scelba, il sarcasmo d' un pubblico indignato di fronte al perdonismo «strisciante»: «Se si vogliono accordare le grazie», osservò, «si abbia il coraggio di dirlo chiaro, così che tutto il Paese sappia che i seviziatori e i massacratori neri hanno salvato la vita grazie al tenero cuoricino di De Nicola».
Fra le carte della «scrivania di Togliatti», custodite nell'archivio romano della Fondazione Gramsci, i fascicoli relativi al 46 rigurgitano di appelli, petizioni, lettere, telegrammi di protesta. Nella missiva d'un gruppo di parenti di fucilati per mano fascista emerge la minaccia di ritorsioni elettorali. «Continuando detto stato di cose», vi si legge, «faremo attiva propaganda contro il comunismo». È forse esagerato presumere che, proprio a causa di queste difficoltà, dopo la caduta del primo governo De Gasperi (13 luglio ' 46), Togliatti non accettò l'incarico di Guardasigilli nel secondo. Doveva comunque averlo infastidito nel profondo quella contingenza che - così si esprime Franzinelli - aveva trasformato «il capo rivoluzionario in un ministro borghese». Egli peraltro negò che l'amnistia fosse stata «una cosa disastrosa», sostenendone la necessità: «Dovevamo farla e l'abbiamo fatta». Deplorò, nella «base», «manifestazioni scomposte», dovute ad «eccesso di nervosismo», e fece risalire gli «sbandamenti» verificatisi nel partito a «mancanza di fermezza politica». In termini politici generali Togliatti attribuì la colpa di certe incongruenze «perdoniste» agli alleati di governo e sottolineò la responsabilità dei magistrati filofascisti - perché tali erano rimasti - desiderosi di mettere in difficoltà le sinistre.
Non sfuggiva tuttavia, anche in ambito comunista, il fatto che il decreto di amnistia era stato costruito in maniera tecnicamente manchevole e a tratti incongruente, offrendo ai giudici una palestra per acrobazie concettuali, sottili disquisizioni, ragionamenti tortuosi, considerazioni capziose e settarie. Colpisce la varia gamma di umori che Franzinelli registra ai vertici del Pci. Luigi Longo scorge nel Guardasigilli l'ovvia intenzione di «conquistare» al partito «i fascisti sinceramente onesti». Per Terracini l'errore è consistito nell'«affidare ai giudici un ambito di discrezionalità inusitato». Pietro Secchia è convinto che Togliatti sia stato «fregato» dalla burocrazia del ministero. L'autore del volume, assai severo in sede storica, trova poco convincente quest'ultima ipotesi, basata sulla sprovvedutezza del capo comunista, il quale, osserva, disponeva fra i suoi consulenti di tecnici agguerriti. E trova dunque verosimile che, dato il suo «carattere volitivo», egli, «raggiunta una convinzione, poco si sia curato del parere dei collaboratori».
I socialisti furono tra i più decisi nel deplorare l'amnistia. Nilde Iotti colse sulle labbra di un militante del «partito fratello» un proposito che la sconcertò. Riferendosi agli ex fascisti liberati dalle carceri, egli assicurava: «Quelli escono e poi ci pensiamo noi». Sandro Pertini disegnò sconsolato il quadro che l'amnistia lasciava dietro di sé: «Abbiamo visto uscire coloro che hanno incendiato villaggi, che hanno violentato donne...». Saragat consigliò: «Nella questione dell'amnistia dobbiamo dissociare la nostra responsabilità da quella dei comunisti». Fra gli azionisti, Calamandrei definì il decreto togliattiano «il più insigne monumento all'insipienza legislativa» ed Ernesto Rossi vi scorgerà «una dimostrazione di imbecillità e di incoscienza».
In pagine risentite, Franzinelli descrive nominativamente il corteo degli alti dignitari del fascismo che torna in circolazione dal ' 46 in poi. Si va da Grandi a Federzoni, da Bottai a Scorza, da Alfieri a Caradonna, da Acerbo ad Ezio Maria Gray, da Renato Ricci a Giorgio Pini, da Teruzzi a Junio Valerio Borghese, da Cesare Maria de Vecchi ai collaboratori della banda Koch. E poi Mario Appelius, Telesio Interlandi, Concetto Pettinato, Bruno Spampanato. Molti fra loro detteranno le proprie memorie. Parecchi militeranno nelle file del Msi. Più d'uno, incredulo del miracolo che gli tocca, emigra in Sud America, per prevenire un ripensamento della democrazia. Un'epigrafe adatta a suggellare l'intera vicenda si trova in un'autobiografia che Giorgio Almirante pubblicò nel 1974: «Sarebbe ingeneroso non ricordare l' amnistia voluta da Togliatti per i fascisti».

“la Repubblica” 21 giugno 2006

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