4.6.19

Mussomeli. Un articolo di Pietro Nenni (Mondo Operaio, 1954)

Il Castello di Mussomeli

Il 17 febbraio scorso Mussomeli, grosso paese della provincia di Caltanisetta, assurgeva di colpo ad una dolorosa notorietà.
Quel giorno una folla di misera gente, donne la maggior parte, s’era raccolta sulla piazzetta antistante il municipio invocando a gran voce il sindaco e da lui attendendo che mettesse ordine nella esazione in corso dei ruoli di pagamento del canone dell’acqua, proprio in un momento in cui, da diversi giorni, l’acqua mancava. Si trattava di poche migliaia di lire, forse meno di quanto costa, a Palermo o a Roma, un pranzo in un ristorante alla moda. Ma poche migliaia di lire, per i braccianti o per i minatori di Mussomeli, sono una ricchezza ch’essi non possiedono. Il sindaco ebbe paura di quella folla inerme che gli chiedeva già da due giorni un atto di giustizia, e la paura gli suggerì la folle idea di far sgombrare la piazzetta dai carabinieri col lancio di candelotti lacrimogeni. Fu sul luogo un grido solo: «Le bombe! Ci assassinano! » e un fuggi fuggi disperato, per due strette uscite e un parapetto dove la gente s’accalcava e si schiacciava. Bilancio: quattro morti e molti feriti. Dei morti tre erano donne: Messina Vincenza di anni 25 madre di 3 bambini, Pellitteri Onofria di anni 50 madre di 8 figli; Valenza Giuseppina di anni 72. E un ragazzo: Cappalongo Giuseppe di anni 16.
La commozione nell’Isola e nel Continente fu generale. Quei morti erano, in un certa tal guisa, il biglietto da visita del ministero Scelba che si era costituito sette giorni prima e di cui era bastato annuncio perché si tornasse, di un tratto, da Milano a Roma a Torino ai bei tempi dei caroselli, delle jeep, delle cariche della Celere e delle manganellate.
Si poteva credere che la presenza vicino a Scelba del vice-presidente del Consiglio Saragat, inducesse il governo a promuovere, o la parte socialdemocratica ad esigere, una inchiesta, previa la destituzione del sindaco e del maresciallo dei carabinieri, evidentemente incorsi in un caso clamoroso di abuso di potere. Nulla. Il governo si tenne pago del rapporto dell’Arma, di qualche sussidio mandato alle famiglie delle vittime, di una parola di pietà che non dirò ipocrita, ma insufficiente sì. La sua stampa annunciò che il sindaco ed i carabinieri avevano dovuto difendersi da una fitta sassaiola, sotto il cui grandinare i vetri del municipio erano andati infranti. Risultò che non c’era un solo vetro rotto, che le autorità non avevano corso alcun pericolo, che sarebbe bastata una buona parola del sindaco per rimandare a casa la gente. Ma intanto s’erano svolti frettolosamente i funerali e non per nulla il nostro è il paese dove chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Su Mussomeli. sui suoi morti, sulla sua miseria cadde in pochi giorni l’oblio del silenzio.

Noi non abbiamo dimenticato, nè taceremo, se prima Mussomeli non abbia ottenuto riparazione e giustizia.
Mussomeli, i suoi morti, la sua miseria nera, ci appaiono come il simbolo del tanto, del molto che resta da intraprendere e da fare per attuare il terzo tempo sociale. Si tratta di un grosso paese, che si stende attorno ad un antico castello, con le case grigie dei borghesi, tra le quali troneggia il palazzo della famiglia Lanza, principi di Trabia, ultimi signori feudali della zona; con misere casupole dove si ammassa la povera gente, braccianti, carusi delle miniere di zolfo, piccoli artigiani di mille mestieri; col tanfo perenne, il colore, gii usi e costumi della miseria. È un paese, come ve ne sono tanti in Sicilia, dove la mafia ancora detta legge; dove le autorità sono agli ordini e a disposizione dei «cappeddi» (dei ricchi) e della mafia, pressapoco come ai tempi delle orazioni di Cicerone contro Verre; dove la Chiesa fa corpo (sociale e non mistico) coi proprietari di terre (e per le cui viuzze di fango o di polvere non si incontrano quindi i fraticelli del cardinale Lercara in amore di riformismo sociale); dove la legge del tempo sembra essere la immobilità. Le esigenze di Mussomeli sono quelle del terzo tempo sociale: lavoro e pane, istruzione ed igiene, case e svago civile, cioè dignità di vita nella sicurezza di una occupazione stabile. Non furono dunque questi i motivi sociali della grande lotta dei Fasci siciliani, esattamente sessanta anni or sono?
Lo furono. E il fatto che tanto tempo sia passato e i medesimi problemi siano all’ordine del giorno, è un atto d’accusa per la classe dirigente siciliana, ed italiana, per le autorità locali e il governo centrale.
I Fasci sorsero in Sicilia nel 1891, furono la prima istintiva forma di organizzazione contadina e socialista, divennero una forza dopo il 1892, dopo la costituzione a Genova del Partito Socialista (allora Partito dei Lavoratori). Nel maggio 1893, quando si tenne il primo congresso socialista siciliano, l’organizzazione di Partito era almeno formalmente distinta da quella più larga dei Fasci, dove confluivano operai, contadini, minatori delle zolfare, piccola e minuta borghesia rurale. Poi, nello sviluppo rapido del movimento, i Fasci, con alla testa Garibaldi Bosco, Nicola Barbato, Bernardino Verro, Giuffrida De Felice, presero l’effettiva direzione della lotta sociale e politica nell’Isola. Si assisteva al fenomeno detto da Filippo Turati della «proletarizzazione della massa siciliana»; alla trasformazione della agricoltura feudale e patriarcale in agricoltura capitalista; alla spoliazione borghese delle terre demaniali. Coincidevano i mali della vecchia società feudale e della società capitalista in formazione. Il movimento dei contadini era diretto essenzialmente contro i gabellotti, per lo sfruttamento a cui sottoponevano i lavoratori dei campi. Il movimento dei minatori delle zolfare era diretto contro le condizioni inumane del lavoro, che all’epoca strapparono grida di orrore per come vivevano i picconieri e specialmente i carusi. L’artigianato assecondava la rivolta dei contadini. Tutti avevano nemico lo Stato, impersonificato dal carabiniere e dall’agente delle tasse. Si lavorava per paghe giornaliere da 40 cent, a una lira, fino a un massimo di due lire per la mietitura, nei pochi giorni in cui le braccia non bastavano.
Un movimento di quella natura, in quel clima, in quelle condizioni sociali, non poteva sfuggire a impulsi anarchici (ed infatti Antonio Labriola in una sua lettera a Federico Engels parlava dell'influenza pazzotica di De Felice), eppure c’era nei dirigenti una maturità di coscienza e di responsabilità che ancora sorprende. C’era l’idea chiara del valore dell’alleanza tra città e campagna; c’era il sentimento, se non ancora la teorizzazione, che la emancipazione dei lavoratori doveva essere opera dei lavoratori stessi; c’era una nozione esatta del legame tra politica ed economia, tra classe dirigente politica e classe dirigente economica. Bosco poteva dire fin d’allora agli studenti: non potremo trionfare se con noi non si muoveranno i contadini. Il programma dei Fasci era quello del Partito Socialista, era quello della scuola marxista. Nella scultorea definizione di Antonio Labriola i fasci ebbero il compito di portare il proletariato agricolo siciliano «sul davanti della scena della storia». Tra i dirigenti Bosco e De Felice esprimevano l’interesse della popolazione progressiva urbana al grande riscatto dei contadini; Nicola Barbato, medico a Piana dei Greci e Bernardino Verro segretario comunale a Corleone (egli fu assassinato dalla mafia nel 1915) erano in più diretto contatto con la grande miseria e la grande rivolta dei rurali.
La rivolta assunse le forme che poteva assumere, confermando uno dei principii fondamentali del materialismo storico e cioè che la storia si fa come può, nelle condizioni determinate dall’ambiente, ma si fa: occupazione di terre, prevalentemente demaniali; scioperi; attacco ai gabellotti ed ai signori; incendio dei casotti del dazio e dei municipi.
La repressione fu localmente quale l’imponeva l’istinto bellicoso di difesa dei feudali e dei loro scherani, che sentivano traballare sotto i loro piedi l’organizzazione sociale di cui gli uni vivevano lautamente e gli altri raccoglievano le briciole, e fu da parte dello Stato, inerente alla natura delle istituzioni, falsamente liberali col Giolitti della primissima maniera e apertamente reazionarie col Crispi dell’ultima maniera. Nessun arbitrio fu risparmiato, dall’assassinio all’arresto per associazione a delinquere, dalla proibizione dei cortei e dei comizi alla diffida personale, dall’allontanamento degli inscritti ai Fasci dagli impieghi pubblici, all’intimidazione famigliare; dal sequestro del giornale Giustizia Sociale alla chiusura delle sedi dei Fasci.
Quando quelle misure apparvero inadeguate, si ricorse alla strage. Undici contadini uccisi a Giardinello nel dicembre 1893, altri 11 poco dopo a Lercara, 8 a Pietraperzia nel gennaio 1894, 20 a Gibellina, 2 a Belmonte, 18 a Marineo, 13 a Villanova ecc.
Il 25 dicembre 1893 Crispi si faceva autorizzare dal re e dal consiglio dei ministri a proclamare lo stato d’assedio nell’isola e inviava a Palermo, con pieni poteri, il generale Morra di Lavriano. All’accusa di fomentare la sedizione e la rivolta, i Fasci rispondevano fieramente proclamando che «l’agitazione presente è il portato doloroso e necessario di un ordine di cose inesorabilmente condannate e che mette la borghesia nella necessità o di seguire le esigenze dei tempi o di abbandonarsi a repressioni brutali». Faceva eco da Roma la solidarietà dei deputati socialisti i quali accusavano il governo di non avere fatto «nulla nel passato», di nutrire ora «di piombo gli stomaci affamati» e «fraintendendo ad arte l’opera moderatrice dei Fasci dei Lavoratori» di soffocarne «con l’arresto dei capi la voce generosa».
Piombo e galera furono il rimedio di Crispi, e perché non mancasse nulla del classico armamentario reazionario, ci fu anche la solita e stolida accusa crispina che i capi dei Fasci fossero al servizio dello straniero, della Francia e della Russia (già allora!) per staccare l’isola dal regno.
Sciolti i Fasci, dispersi i seguaci, arrestati quelli che oggi chiamiamo gli attivisti, condannati i capi dal tribunale militare straordinario (De Felice a 16 anni, Barbato e Verro a 14, Bosco a 12, Montalto a 10 anni ecc.) l’antico ordine sociale fu ritenuto salvo. Senonché i dispersi ritrovarono rapidamente animo e coraggio; l’amnistia del ’96 strappò dai reclusori i capi dei Fasci che nelle elezioni del 1895 erano stati eletti in diverse circoscrizioni continentali; nel gennaio del ’96 il Partito Socialista in Sicilia veniva ricostituito; le masse si rimettevano in movimento.
La repressione dei Fasci siciliani non fu un episodio né unico né singolare del decennio della reazione: 1890-1900. Metodi analoghi furono subito dopo impiegati contro analoghi moti in Lumgiana e si ebbe, nel luglio 1894, la legge contro gli anarchici, fonte per lunghi anni di inqualificabili abusi, di cui furono vittima in modo particolare i socialisti. Poi le elezioni del 1895, che raddoppiarono alla Camera l’Estrema Sinistra, e a Roma videro Crispi vincere di stretta misura il galeotto De Felice con uno scarto di 213 voti. Poi Adua che rovesciò Crispi. E dopo il ritiro di Crispi, l’oscuro periodo culminato nei moti e nelle repressioni del ’98, moti e repressioni che presero di bel nuovo l’avvio in Sicilia, per dilagare rapidamente, di provincia in provincia, nel continente, fino a Milano, e ivi essere immortalate nelle gesta del generale Bava Beccaris. Dopo di che, e dopo il tentativo del generale Pelloux, di piegare con la frode dei regolamenti della Camera e delle elezioni ammaestrate la resistenza della democrazia, dopo il regicidio di Monza, la reazione precipitava d’un tratto nel vuoto ch’essa aveva scavato sotto i propri piedi. Nasceva, col Giolitti della seconda maniera, l’era liberale, durata, con alterne vicende e tra clamorose contraddizioni, fino al 1922.

A distanza di tanti anni, dopo tanti eventi militari e politici, dopo i vent’anni della dittatura fascista tra le due guerre mondiali, un episodio come quello di Mussomeli, attesta le insufficienze dell’epoca liberale, denuncia il tragico sperpero di ricchezze e di energie promosso, al di là dei mari, da Mussolini; ripropone alla democrazia repubblicana il terzo tempo sociale, eluso, nel corso degli ultimi sette anni, dalla democrazia cristiana e dalla socialdemocrazia per le quali urgenti non era dare terra ai contadini, case, scuole ed ospedali al popolo, sicurezza di lavoro agli operai, dignità di occupazione ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, garanzia di sviluppo alle professioni intellettuali, ma urgente era la crociata ideologica contro il marxismo, la discriminazione che tende a porre ai margini della vita democratica socialisti e comunisti, la lotta contro i sindacati e la maggiore delle loro organizzazioni centrali, la C.G.I.L.
Mussomeli ci ha ricondotti al «quia». «State contenti, umana gente, al quia». I lavoratori non staranno contenti. Hanno nel passato rimosso molte delle cause della loro servitù e della loro miseria. Rimuoveranno le cause persistenti dell’ingiustizia sociale. Questo, e non altro, ha da essere il senso del terzo tempo sociale.

Nessun commento:

statistiche