9.6.19

La sai quella del crudele Caligola che... Le barzellette dell'antica Roma (Livia Capponi)

Il Cicerone dei Musei capitolini

Nel 192 d.C., lo storico Cassio Dione, seduto in prima fila fra i senatori durante uno spettacolo nel Colosseo, riuscì a stento a trattenere il riso. L’imperatore Commodo, nell’arena, ghignando mostrava ai senatori una testa mozzata di struzzo, come per avvertirli che avrebbe fatto lo stesso con loro. Ridere allora avrebbe significato morire, così Dione strappò le foglie d’alloro della sua corona e si mise a masticarle per nascondere l’ilarità. Oggi ci si morde le labbra, o si mette in bocca una caramella.
In Ridere nell’antica Roma (Carocci), la storica Mary Beard spiega che furono i Romani a elaborare il concetto di spirito umoristico come «sale» del discorso, legandolo alla sfera del convivio. Cicerone fu un prolifico autore di facezie. Vedendo il genero Lentulo, un piccoletto, armato di una lunga spada, disse: «Chi ha legato mio genero alla sua spada?». Quando, al processo contro Milone, gli fu chiesto di specificare a che ora era morto Clodio, replicò con una sola parola: sero (tardi/troppo tardi). E quando, durante la guerra civile, dopo aver a lungo vacillato politicamente, giunse nell’accampamento di Pompeo, gli fu detto: «Sei arrivato un po’ tardi». «Non sono in ritardo – replicò Cicerone —. Vedo che non c’è nulla di pronto per cena». Quintiliano ammette che alcuni degli espedienti cui l’oratore ricorreva erano pericolosamente vicini a quelli del mimo o addirittura dello scurra, il buffone politicamente scorretto, l’ alter ego dell’aristocratico uomo di spirito.
Il tiranno è da sempre dipinto come colui che deride per umiliare. Si dice dell’imperatore Eliogabalo che a teatro ridesse tanto forte da coprire la voce degli attori. Aveva anche l’abitudine di invitare a cena otto calvi, oppure otto guerci, o otto sordi o otto uomini dalla pelle scura o otto uomini alti – o otto grassi, per suscitare il riso di tutti, dato che non entravano sullo stesso divano. I suoi amici meno importanti li faceva sedere su cuscini pieni d’aria, e li faceva sgonfiare mentre quelli cenavano, così che si ritrovavano d’improvviso sotto il tavolo nel bel mezzo del pasto. Caligola invece, ai consoli che gli domandavano il motivo di una fragorosa risata, aveva risposto: «Solo l’idea che a un mio cenno potrei farvi sgozzare all’istante».
Lo sbeffeggio si rivolgeva però anche contro il potere. Giulio Cesare veniva deriso per la sua calvizie e pare si pettinasse con il «riporto» o sistemasse ad arte la corona d’alloro per nasconderla, mentre Domiziano (il «Nerone calvo») s’infuriava se qualcuno osava parlare della sua pelata. Sotto Augusto, invece, era giunto a Roma un sosia dell’imperatore, che attirava gli sguardi. Augusto gli chiese: «Dimmi, giovanotto, tua madre è mai stata a Roma?». «No», disse quello. Ma aggiunse: «Però mio padre sì, spesso». Il princeps, che amava le arguzie, incassò il colpo. Un aneddoto narra di un Gallo di umili origini che rise in faccia a Caligola, che dava responsi vestito da Giove. Caligola gli domandò: «Come ti sembro?». E l’uomo: «Come un vero idiota». Ma restò impunito: per l’imperatore era più facile sopportare la franchezza della gente comune rispetto a quella dei nobili. Lo schiavo o il provinciale che rideva del padrone sovvertiva momentaneamente i rapporti di potere, ma in realtà serviva a legittimarli.
Anche le donne potevano fare battute. Di Giulia, la figlia di Augusto, si ricorda la risposta a chi si stupiva della somiglianza dei suoi figli al marito Agrippa, nonostante concedesse il suo corpo a Tizio, Caio e Sempronio: «Non prendo mai a bordo un passeggero se non quando la stiva è piena».
Una raccolta di epoca imperiale, il Philogelos o «Amante del riso», tramanda 265 facezie, spesso con protagonisti un professore svitato, in trio con un barbiere e un pelato, un po’ come le nostre freddure su un inglese, un francese e un italiano. Un barbiere chiacchierone domanda a un tipo arguto: «Come vuoi che ti tagli i capelli?». «In silenzio», è la risposta. Un erudito, durante la festa per il millennio di Roma (21 aprile 248 d.C.), vede un atleta sconfitto che piange e per consolarlo gli dice: «Non preoccuparti, ai giochi del prossimo millennio vincerai tu». Quella dell’uomo di Abdera che vede un corridore sulla croce e dice: «Non corre più, vola!», ci lascia freddi e un po’ a disagio. Ma l’idea che il riso è un bene trasportabile e vendibile anche dopo secoli è la prova, secondo Mary Beard, che i Romani furono gli inventori della barzelletta, una delle più importanti conquiste per la storia dell’Occidente. Ponti e strade, al confronto, sono ben poco.

La Lettura – Corriere della sera, 27 novembre 2016

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