28.6.19

Perugia 1416. La città della guerra (Salvatore Lo Leggio)

È un pezzo a cui tengo molto, pubblicato ieri, 27 giugno 2019, su “micropolis”, il supplemento umbro de “il manifesto”, nella rubrica La battaglia delle idee. Mi pare che quello che sta accadendo nella nostra città, fino a qualche lustro fa esempio di tolleranza, accoglienza, pacifismo, sia degno di attenzione anche fuori dai confini dell'Umbria e perciò lo ripropongo qui agli amici d'ogni dove. (S.L.L.)

Perugia, Rocca Paolina, giugno 2016. Un'immagine dalla  video-stallazione "Perugia folgora"

Si è conclusa il 16 giugno la quarta edizione di “Perugia 1416”, la kermesse che pretende di rievocare con scenografie, gare tra rioni, tornei, cortei in costume e altro ancora, i giorni, non si sa quanto felici, di Braccio Fortebraccio da Montone, un capitano di ventura che fu per qualche tempo Signore della città.
Molto s'è detto nel tempo, da parte degli oppositori e dei critici, sui costi spropositati, sulla stravaganza di una tradizione senza radici nella memoria collettiva, sulle incongruenze storiche - al limite dello sfondone - presenti nella rievocazione, sulla scarsa attrattiva turistica di una manifestazione senza passato e autenticità; ma niente ha fermato gli ideatori, organizzatori, consulenti e aggregati, guidati dall'assessore Severini, la vispa Teresa, espressione della tradizionale borghesia cittadina con un interessante passato enologico. Romizi peraltro, annunciandone il rilancio nel vivo della campagna elettorale, ha voluto fare della parata medievaleggiante il fiore all'occhiello della sua prima sindacatura, l'emblema di una peruginità che rompe con un passato di ibrido cosmopolitismo. Dopo il voto ne ha commentato i fasti più rilassato e a chi gli diceva del sollievo per la sua rielezione dei tanti “rionali” preoccupati di perdere il giocattolo, rispondeva magnanimo: “Ma no! Nessuno oserà sopprimere, né ora né in futuro, una manifestazione che riscuote un così forte gradimento”. E con occhi luminosi di soddisfazione aggiungeva: “Ho visto i ragazzini, i bambini impegnarsi con entusiasmo. Sono loro la garanzia di futuro per Perugia 1416”.
Intanto, mentre da settimane campeggiano sui muri cartelloni e poster preannuncianti il medioevo imminente, all'altra ricorrenza perugina, quella più antica e collaudata del 20 giugno, sono rimasti gli angolini: qualche locandina qua e là con un programma di iniziative dell'associazionismo e una forte impressione di residualità. Tutto il contrario della festa grande che Raffaele Rossi, padre nobile della sinistra novecentesca, aveva promosso e caldeggiato! “Lello”, nei suoi “discorsi sulla città”, sembrava compiacersi della felice coincidenza di data tra la violenza assassina compiuta nel 1859 dalle truppe mercenarie svizzere su Perugia, ricondotta al potere assoluto del Papa Re, e la sua liberazione dai nazifascisti nel 1944 da parte degli alleati affiancati dai partigiani resistenti. Questo fatto – a suo dire - riscattava la ricorrenza dall'ipoteca massonica e ne inverava la lettura data da Aldo Capitini e Walter Binni, i quali individuavano nel coraggio della libertà, nell'avversione per la crudeltà, nella diffidenza verso un potere imposto il manifestarsi di un alto sentimento civile. Perugia, conosciuta già nell'Ottocento in Europa e negli USA come “la città del 20 giugno”, martire dell'oppressione assolutistica, poteva ora dare a quella data un valore più inclusivo che in passato, tale da garantire la riconciliazione tra laici e cattolici e la partecipazione del cosiddetto “contado”, poteva volersi e vedersi come la città dell'orgoglio democratico, della tolleranza, dell'accoglienza e della pace.
Era difficile che il mito del 20 giugno e la connessa narrazione identitaria resistessero intatti all'ondata revisionistica della cosiddetta seconda repubblica. Un ruolo di punta di lancia lo ha svolto nei primi anni Duemila la rivista “Diomede”, pensatoio della sognata riscossa aristocratico-borghese: per snobbare la ricorrenza del 20 giugno non ci si attaccava più ai residui di anticlericalismo, ovviamente “vieto”, ma se ne denunciava il carattere troppo “di sinistra”, e per ciò stesso antiquato. Non era però un indigeno, né tanto meno proveniva però dalla cerchia antica il vero e proprio profeta della nuova “peruginità” militaresca, era piuttosto un immigrato di successo: si tratta di Alessandro Campi, ammanicato politologo della destra nazionale e locale.
A suo tempo costui aveva definito “eroe” e “campione di italianità” uno dei mercenari italiani sequestrati e uccisi in Iraq, il povero Quattrocchi, per via della sua ultima frase autoconsolatoria su come muoiono gli italiani; più di recente Campi aveva organizzato, nel nome di Machiavelli, una mostra sulla tradizione perugina dei capitani di ventura, di cui Braccio Fortebraccio rappresenta un esempio tra i più fortunati. Da consumato ideologo ben sapeva il Campi, già prima della conversione italianista della Lega, che le piccole patrie, le spesso meschine identità locali non indeboliscono, ma corroborano il nazionalismo statolatrico.
È grazie a questa cultura consapevolmente contrapposta alla nonviolenza e al pacifismo capitiniani (ovviamente “buonisti”) e non sempre adeguatamente contrastata, che la città nei giorni deputati trabocca di militarismo, ben al di là della criticatissima e finta sassaiola: questa è solo un elemento marginale, popolaresco, dell'apologia della violenza che “Perugia 1416” organicamente incarna. Quella che qui viene esaltata è la figura del professionista della violenza, dell'uomo d'armi, del guerriero e più ancora quella del comandante in capo, del duce. Il pensiero non può non correre a quel “capitano” alla guida della destra, uno che ama indossare le divise e a tutto si dice pronto pur di fermare l'invasore, magari sul bagnasciuga.
Ci sono aspetti inquietanti in questa mascherata grottesca, primo fra tutti il simbolo raffigurato nelle bandiere blu che ornano il centro cittadino: le catene. In piazza Matteotti un barbuto dall'aria bonaria, tipo vecchietto del West, invita i bambini ad entrare nello spazio del cimento per abbattere, lancia in resta, un cattivo, un saraceno non a a caso. Alla Rocca Paolina pannelli esaltano le glorie della cavalleria, crociate incluse, e vengono offerte in visione spade, picche, lance, maglie metalliche e pesanti armature (il tutto rifatto ovviamente, ma generalmente luccicante). Il clou si raggiunge in una saletta, dove un'istallazione video dal titolo Perugia folgora promette una full immersion nella città medievale, mentre una didascalia, la canonica excusatio non petita, avverte che non bisogna pretendere veridicità e precisione da quella che è solo un'elaborazione artistica, di fantasia. Segue una escalation di edifici, immagini artistiche di guerra, intrecciati giochi di luce, in cui spesso la croce si fa spada e che culmina nell'apparizione di un'ombra che sovrasta la città, a proteggerla e ad ammonirla, un guerriero con l'arma sguainata che ricorda il simbolo leghista. Non c'ero, ma mi hanno raccontato che a fine festa il finto Braccio volendo comunicare la morale della favola come invasato urlava: “La tradizione è cultura! La tradizione è identità, la tradizione è bellezza”. Che poi anche la tradizione sia rielaborazione fantastica per costoro è secondario.
Pagliacciate? Dicevano così anche nel secolo scorso i benpensanti, quando i balilla armeggiavano coi moschetti finti, i podestà intravedevano nell'armeggiare un futuro luminoso e Mussolini si metteva in posa con l'armatura di Bartolomeo Colleoni. Si sa come andò a finire. Non pochi di quei balilla, dopo, da partigiani, in cerca di pace e libertà rivolsero le armi contro i fascisti. Ma non era meglio risparmiarsela una così grande carneficina?

“micropolis – il manifesto”, 27 giugno 2019

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