6.6.19

Pier Paolo Pasolini, Emilio Sereni e i canti popolari italiani (S.L.L.)

Ripropongo le due parti di un mio vecchio scritto per "micropolis", apparse rispettivamente nel numero di dicembre 2007 e di febbraio 2008. (S.L.L.)

Uno straccetto rosso come quello
arrotolato al collo dei partigiani
e, presso l'urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi due gerani.
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, vv. 79-82



Parte prima
Diversamente rossi

1. Il canto, il popolo, la storia
Nell’ampia introduzione al Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, che Pasolini pubblicò per Guanda alla fine del 1955 dopo tre anni di ricerca, due dense paginette sono dedicate a Gramsci; è valorizzata in particolare una “formidabile” riflessione dai Quaderni dal carcere, per la quale ciò che identifica i canti popolari non è l’essere composti “dal popolo” o “per il popolo”, ma l’essere da esso “adottati”. Per Gramsci, in sostanza, l’elemento distintivo del canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è rappresentato né dal fatto artistico né dall’origine storica, ma dal “modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto con la società ufficiale”. Anche il popolo, del resto - avverte il gran sardo - “non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta stratificazioni culturali numerose, variamente combinate”.Pasolini, dal suo canto, lamenta che la poesia popolare risulti quasi del tutto assente “dall’informazione, pur così varia complessa e spregiudicata”, che sta alla base degli appunti carcerari poi raccolti in Letteratura e vita nazionale, la cui attenzione è piuttosto diretta a quella che nel secondo dopoguerra si sarebbe definita “cultura di massa” (melodramma, romanzo d’appendice, eroi popolari etc.); ma aggiunge, ragionando per assurdo, che, se anche Gramsci avesse avuto conoscenza più ampia della poesia popolare e dei problemi teorici e storici ad essa connessi, non ne avrebbe tratto “motivi di reale e profondo interesse, in funzione polemica rivoluzionaria”.
La ragione di questa perentoria asserzione è condensata nella chiusa “politica” dell’introduzione al Canzoniere: “Salve le aree depresse, la tendenza al canto popolare nella nazione è a scomparire. Il popolo moderno, cosciente di sé in quanto classe, e politicamente organizzato verso la conquista del potere, tende ad abolire l’irrazionale soggezione in cui per tanti secoli era vissuto: tende ad essere autonomo, autosufficiente nell’ambito ideologico: a dissimilarsi”. Di contro, però “le armi di diffusione dell’ideologia della classe al potere sono immensamente potenziate: e la loro influenza, nel popolo, è di condurlo a prendere l’abito mentale e ideologico di quella classe: ad assimilarlo”. Pasolini conclude: “Dissimilazione, dunque, e insieme assimilazione, tra le due culture: con una frequenza intensissima, insieme di simpatia e di lotta, del 'rapporto'. La poesia popolare, come istituzione stilistica a sé, è in crisi. La storia in atto”.
In questo passaggio è possibile intravedere la vena di “populismo” estetizzante che percorre la produzione del poeta come del romanziere, del cineasta come del saggista, in contraddizione (spesso feconda) con la modernità del suo “fare” artistico e con il suo eterodosso marxismo; ne sono impregnati, del resto, i testi poetici composti negli stessi anni e raccolti ne Le ceneri di Gramsci, insieme documento e manifesto della sua ideologia, uno dei quali non casualmente si intitola Il canto popolare. A giudizio di Pasolini, nell’“umile Italia” degli anni ’50 potevano rintracciarsi gli scampoli di un popolo che per secoli era stato “pura presenza”, ma ora tendeva a scomparire, vittima del capitalismo e, insieme, del movimento operaio organizzato. I comunisti, che pure affidavano al popolo le bandiere della "speranza", nello stesso momento ne favorivano la mutazione antropologica. E da qui che deriva il sostanziale disinteresse per la poesia popolare degli “intellettuali organici” come dei “poeti di partito”: perfino per gli etnologi specialisti l’ideologia marxista è arma inadeguata allo studio del canto popolare, inadeguata perché troppo potente.
Tutt’al più può funzionare, e solo in parte, un marxismo “privo di nitore, ma anche di semplicismo” come quello che Pasolini attribuisce a Ernesto De Martino che coltivava “interessi un poco spuri, di ascendenza freudiana”.
Pasolini, attento e onesto osservatore dell’universo comunista, nella sua introduzione, pur senza entrare nel merito segnala anche l’eccezione: un saggio di Emilio Sereni, Popolo e poesia di popolo in Italia intorno al ’48 nel quaderno di Rinascita dedicato al 1948.


2. Il grande racconto
In realtà, in parte per una spinta autonoma e antica (la sua formazione di economista agrario), in parte per la sollecitazione rappresentata dai quaderni gramsciani, il dirigente comunista aveva per il canto popolare un interesse non episodico e non superficiale, solo in parte documentato da opere edite, ma evidentissimo da un esame dei suoi appunti di lavoro e del suo epistolario.
Ne dà conto, Tullio Seppilli, nella ricca e acuta introduzione alle Note sui canti tradizionali del popolo umbro, uno scritto di Sereni già pubblicato in due puntate su “Cronache umbre” nel 1959 e riedito nel settembre scorso in occasione del centenario sereniano, come primo dei quaderni della rivista “Umbria Contemporanea”, diretta da Raffaele Rossi. In realtà nel ’59 nella rivista del Pci umbro (di cui all’epoca lo stesso Rossi era condirettore) avrebbe dovuto comparire la terza parte del saggio, ma essa non giunse mai a stesura.
Insieme al saggio il quaderno rende noti alcuni materiali di lavoro reperiti nel Fondo Sereni degli Archivi dell’Istituto Gramsci, in primo luogo il sommario di una storia del popolo italiano attraverso i suoi canti, centrata sul nesso città-campagna e probabilmente risalente al 1947-49, in sostanza una lista sistematica dei testi ritenuti emblematici di una precisa situazione storica. La probabile destinazione era una grande opera progettata per Einaudi, che poi non si fece soprattutto per i vincoli imposti dall’editore.
Seppilli vi ha poi aggiunto una propria analisi delle schede di lavoro di Sereni (redatte soprattutto nella primavera del ’47), con l’indicazione dei testi da cui sono stati trascritti dei brani e delle fonti bibliografiche comunque richiamate. È sostanzialmente lo stesso materiale, di origine positivistica o idealistica, su cui poco tempo dopo lavorò Pasolini. Ma anche i percorsi concettuali di Sereni (come quelli di Pasolini) sono in realtà un dialogo con il “grande racconto” della nazione italiana elaborato da Gramsci nelle carceri del fascismo. Una delle schede autografe più interessanti, la cui riproduzione anastatica funge da copertina del libro, Il canto e la poesia popolare, così definisce il popolo: “quella parte di società che, nella data situazione storica, non ha ancora elaborato dal suo seno un ceto di intellettuali «organici»”, distinguendo tra i canti che il popolo produce (raramente) o sceglie (più spesso) quelli che ne sono espressione immediata (ad es.quelli di lavoro), quelli dotti “degradati” e quelli popolareschi, composti cioè da letterati alla maniera del popolo. In queste note private non manca qualche presa di distanza da Gramsci, in particolare sul tema della “coscienza nazionale”. Sereni condivide l'idea che, fino a tutto il Settecento, essa sia soprattutto un fenomeno retorico, limitato ad una piccola élite di letterati cortigiani in realtà cosmopoliti e tuttavia questa rappresentazione che gli pare monca. A questa che egli chiama “coscienza senza realtà” contrappone infatti una sorta di “realtà senza coscienza”, quella del canto popolare, che sebbene in forme differenziate (la lirica del centro sud e l’epica del centro nord) e vernacolari, tende all’unificazione dell’Italia.

3. L'umile terza Italia
Nel saggio sui Canti popolari umbri Emilio Sereni esplicita gli elementi di dissenso da Gramsci.
Nella pratica dello stalinismo i “testi sacri” del marxismo, in scritti pubblici, potevano essere “interpretati”, non contraddetti e Sereni in quello che Zdanov chiamava il “fronte ideologico” era stato in prima linea, fino a schierarsi contro gli scienziati italiani di sinistra e perfino contro il buonsenso a proposito dell’affare Lysenko. Questa volta però fa una scelta di stile innovativa e coraggiosa: dichiara che Gramsci si sbagliava. A suo dire c’è un segno evidente di un processo unitario “dal basso” fin dal XII e XIII secolo, nel costituirsi, prima ancora che Dante sottolineasse l’esigenza del “volgare illustre”, di una cultura popolare unitaria, evidente anche nell’evoluzione linguistica, alla quale l’area dell’Italia Centrale dà un suo particolare contributo elaborando un suo proprio genere letterario, la cosiddetta “orazione” umbro-abruzzese, una forma, che pur correlandosi sia all’epica del Nord sia alla lirica del Sud, ha una sua specificità.
Essa sarebbe rappresentata non tanto dall’ispirazione religiosa, comune a tanta produzione del Nord come del Sud della Penisola e della Sicilia, ma dallo speciale approccio a questa tematica. A elaborarla e diffonderla sarebbero alcune particolari figure di “nuovi intellettuali”, chierici vaganti, giullari, fraticelli, che rappresentano artisticamente ed ideologicamente la crisi profonda dell’Umbria feudale. Sereni, ampiamente utilizzando e citando i canti della tradizione popolare, nella prima parte del suo saggio si sofferma su due momenti di crisi e di passaggio e perciò “genetici”: il risveglio evangelico dopo il Mille e il diffondersi delle correnti ereticali. Per Sereni i testi di poesia popolare umbra più significativi sono la celebre e celebrata Passione, appunto un’“orazione”, che racconta gli ultimi giorni del Cristo, e il Contrasto tra il ricco e il povero, una “lauda” drammatica (altra forma di origine umbra, che ebbe ampia diffusione nel Centro Italia). La Passione aveva suscitato un grande interesse anche in Pasolini, benché questi utilizzi, con qualche interpolazione, la lezione ottocentesca del Mazzatinti (dai Canti popolari umbri raccolti a Gubbio), mentre Sereni segue quella del Chini (i cui Canti popolari umbri sono raccolti a Spoleto e nel contado nei primi decenni del Novecento).
A leggere i due testi l’impressione è che il dirigente comunista non abbia presente (forse addirittura non conosca) l’analisi dell’inquieto scrittore friulano, ma è singolare la coincidenza delle valutazioni. Né l’uno né l’altro sono etnologi: l’uno si dichiara “letterato sconfinante da un territorio limitrofo”, l’altro è dirigente politico e intellettuale organico che cerca nella storia, studiata attraverso la chiave del canto popolare, strumenti di comprensione e trasformazione della realtà presente. L’uno e l’altro parlano dell’ambivalenza tra misticismo e sensualità che si esprime in quella che Pasolini chiama “rusticità fisicamente linguistica”.

4. Le ceneri di Gramsci
La “questione della lingua” è in effetti il terreno su cui l’approccio estetico-letterario di Pasolini e quello storico-sociale di Sereni più sembrano convergere. È il tema centrale della seconda parte del saggio di “Cronache umbre” e la linea portante dell’introduzione pasoliniana.
Emilio Sereni la affronterà concentrando la sua attenzione sui Francescani e sul moto dell’Alleluja. Neanche qui manca una scelta di stile coraggiosa. Dalla Terza Internazionale in poi non era uso dei comunisti allineati con Mosca citare con consenso i dirigenti caduti in disgrazia. Sereni compie anche in questo caso un atto di coraggio: in piena destalinizzazione si rifà esplicitamente al libretto di Stalin su Il marxismo e la linguistica, per riprendere il concetto (ultrascolastico) che la lingua, essendo universale mezzo di comunicazione, non è sovrastruttura e perciò non muta con il mutare della struttura economico-sociale. Sereni parte da questo assunto per asserire che è altrettanto vero che sul terreno della lingua si svolge una dialettica sociale che prevede, insieme a scambi, anche contrasti assai forti. È un ragionare che trova più di un punto di contatto con quello di Pasolini, che collocando anche lui la genesi della poesia popolare tra Duecento e Trecento ne coglie la peculiarità in quello che chiama “bilinguismo e bistilismo sociologico”. Ma per entrare nel merito avremo anche noi bisogno di una seconda, più breve puntata. Resta la curiosità per la contiguità delle ricerche “anomale” di due “figure” del Novecento che più diverse non potrebbero essere: il comunista tutto d’un pezzo e il letterato scandaloso. La spiegazione sta a nostro avviso nelle ceneri di Gramsci, nella capacità egemonica che i Quaderni esprimono in un certo momento della nostra storia politica e culturale.

Parte II
Dall'alto e dal basso

1. I bietoloni e le rovine
Il Canzoniere italiano di Pasolini non ebbe il successo che l’autore si aspettava. Scontata la diffidenza degli ambienti accademici nei confronti dell’“intruso”, l'autore invano attese l’attenzione dell’intettualità impegnata. Fa eccezione Italo Calvino, che nel marzo ’56 gli scrive entusiasta: l’antologia “non è soltanto un importante libro sulla poesia popolare italiana, ma è un importante libro sull’Italia e un importante libro sulla poesia”. In quel torno di tempo Calvino sta lavorando alla raccolta einaudiana delle fiabe italiane e in Pasolini gli pare di “ritrovare e imparare” un procedimento che è anche suo.
Dell’introduzione segnala la “ricchezza e intelligenza”, valorizzando i “ritrattini delle varie regioni attraverso i loro canti”. Lamenta poi l’accoglienza generalmente “desolante” e in particolare la freddezza degli “intellettuali organici” del Pci: “Ma quei bietoloni del ‘Contemporaneo’ cosa aspettano a dedicare un paginone al libro?”.
In realtà i “bietoloni” (i direttori della rivista, Carlo Salinari e Antonello Trombadori) un paginone lo dedicarono, in giugno, ma tale da indurre Pasolini a vedere in atto “una campagna di discredito” e da sollecitare Calvino ad una dura protesta epistolare contro lo stile e i metodi adoperati. Salinari del resto lo chiamavano Stalinari.
Il rapporto di Pasolini con Franco Fortini fu molto intenso; ancora nel ’61 poteva scrivergli: “Tu esisti in me; esisti tanto da essere l’ideale destinatario di quasi tutto quello che scrivo”. Duro fu poi il conflitto: nello stupendo Attraverso Pasolini, che ne ricostruisce il tormentato percorso, a ragione Fortini parla di “inconciliabilità”. Una delle rotture è segnata da un epigramma fortiniano del ’63 pubblicato tre anni dopo ne L’ospite ingrato: “Ormai se ti dico buongiorno ho paura dell’eco, / tu, disperato teatro, sontuosa rovina”.
L’anno di più forte vicinanza (non senza appassionati confronti) fu invece il terribile ’56. Il 2 gennaio FF, scrivendo a PPP, si offriva come testimone a discarico nell’imminente processo per le “oscenità” di Ragazzi di vita e ragionava del “monumentale” Canzoniere italiano, giudicandone “validissima la trattazione teorica dall’inizio alla fine”. La monumentalità era riferita alla mole della raccolta pasoliniana, ma il termine conteneva un significato accessorio più profondo. Era stato il Belli ad elaborare una “poetica del monumento”: dichiarava di averne voluto erigere uno al popolo romano, che viveva ai margini della storia, prima che questa lo inglobasse e civilizzasse. Grosso modo anche Pasolini la pensava così sul “suo” popolo a rischio di assimilazione e riteneva la poesia popolare a rischio d’estinzione. Da questo punto di vista anche i testi del suo Canzoniere possono considerarsi una “sontuosa rovina”.

2.Monumento e documento
“Ogni documento è un monumento”, recita un motto caro agli storici delle francesi "Annales", polemico contro la pretesa positivistica che il documento parli da sé. Avevano ragione: non c’è documento che non sia “manifesto”, che non contenga, esplicitati o occultati che siano, un messaggio, un’intenzione, un’ideologia.
Funziona anche l’inverso: il “monumento”, adeguatamente interrogato, funge da documento, suggerisce collegamenti e piste, contribuisce a “fare storia”. È questa una chiave per individuare le differenti impostazioni dell’opera di Pasolini rispetto alle Note sui canti popolari umbri di Emilio Sereni . Nel primo caso da una parte c’è la teoria generale, dall’altra i testi che sono essenzialmente “monumenti”, da offrire alla interpretazione e contemplazione estetica (è ancora Fortini a notare il limite della parte interpretativa dell’introduzione al Canzoniere in un approccio “gustativo- impressionistico”). Nel testo di Sereni, benché si proponga nella forma non sistematica delle “note”, la trattazione dei canti è corredata da una serie di scandagli analitici, di connessioni fattuali e concettuali, che pone il testo fuori dal campo specialistico degli studi demologici e da quello della “letteratura”, collocandolo piuttosto a cavallo tra la “storia sociale” e la “storia delle mentalità”, non lontano dal tipo di studi che era caratteristico della scuola francese. Un esempio. Pasolini, nel presentare la Passione, la più celebre tra le “orazioni” umbre, la definisce un “pezzo superbo”. Il suo fascino come la sua “rozzezza” gli appaiono originarsi dalla sua “arcaicità, cioè la sua appartenenza a una classe sociale più antica, e sopravvissuta in questo suo prodotto. Prodotto sacro, quasi taumaturgico, e quindi meno esposto alle varianti al contrario dei canti d’amore, di continuo e liberamente riadattati”. È così. Se si leggono i “rispetti” e i “fioretti” umbri raccolti nel Canzoniere, la maggiore modernità linguistica è evidente anche all’inesperto.
Anche Sereni nelle sue Note dà alla Passione un posto speciale, ma la sua antichità è usata per ricostruire il contesto e perciò collegata ad altri testi non solo di origine etnografica, ma letteraria (cioè tramandata per iscritto) dalle “cronache” di Salimbene allo Speculum perfectionis, tutti usati come documento.

3. Verticale e orizzontale
Pasolini utilizza una nozione che “nelle scienze linguistiche di questi ultimi anni, dopo la formulazione e l’uso che ne hanno fatto i linguisti più alti, come il Devoto e il Contini, si pone sempre più come centrale”, quella di “bilinguismo”, che però usa in una accezione particolare che chiama “bilinguismo sociologico” (cui accosta un “bistilismo sociologico”), riferita com’è alle differenze linguistiche che accompagnano le differenze tra la classe “borghese dominante” e la classe “popolare dominata”. È qui evidente il legame con Gramsci. La poesia popolare, prodotto del rapporto tra le due classi, è per PPP un “prodotto originale: non è contaminazione se non nei primi gradi della sua fase sia ascendente che discendente”. Propriamente “popolare” è la poesia che nasce dalla “iniziativa di un individuo o gruppo di individui della classe inferiore”, frutto di un doppio movimento, verso l’alto e verso il basso: l’acquisizione di dati stilistici e culturali della classe dominante e il loro impianto nell’ambito di una cultura “inferiore”.
Questa impostazione teorica sembra confermata e rimpolpata dall’analisi storica di Sereni, che, in linea con la metodologia gramsciana, come possibili autori del canto popolare propone figure che dal “quadro poetico organico” delle masse popolari vanno al “letterato” chierico o laico, in qualche misura declassato: “Tra il fraticello analfabeta o semianalfabeta e il dotto chierico, come tra l’anonimo giullare e lo scaltrito trovatore […] tramiti di diffusione di cultura dopo il Mille, v’è tutta una serie di figure intermedie, alle quali l’organizzazione della Chiesa lascia ancora aperte le strade di un’ascesa o una degradazione sociale”. Al movimento in verticale, secondo Sereni, se ne aggiunge uno, altrettanto significativo, in orizzontale: “Al riavvicinamento delle parlate volgari locali o, almeno, alla loro mutua intelligibilità giullari, chierici vaganti e monaci itineranti” contribuiscono in misura rilevante.
Nascerebbe così proprio nel canto popolare una “lingua franca” evidente nella diffusione dei testi da una regione all’altra, che precede di molto la formazione del “volgare illustre”.

4. La questione della lingua
Il segno prevalente di questa prima ampia produzione di canti popolari appare ad Emilio Sereni eversivo rispetto ai valori tradizionali delle classi: nel suo viaggio attraverso orazioni, contrasti e laude dell'Umbria egli scorge di volta in volta il compiacimento sensuale, la protesta sociale fino ai temi caratteristici delle eresie pauperistiche comunisteggianti.
Ma (è questo il tema della seconda puntata della sua ricerca) la Chiesa ufficiale non sta a guardare; ne andrebbe di mezzo la sua “egemonia”. Una prima svolta sarebbe segnalata dalla cosiddetta “formula del Monastero di S. Eutizio”, presso Norcia, un documento dell’XI secolo. È una sorta di Confiteor, di “atto di dolore”, in volgare umbro: “Confissu so a mesenior Dominideu et a la madonna Sancta Maria…”. Non si tratta della trascrizione mimetica di testimonianze villanesche tipica dei più antichi placiti cassinesi ("Sao ko kelle terre…"), ma della scelta di adeguarsi a popolazioni che non intendono più il latino e sono sempre meno incantate dall’aspetto magico del rito religioso.
Il processo che Sereni descrive, usando documenti di tipo letterario e solo eccezionalmente testi desunti da moderne raccolte di canti popolari, è quello di un rilancio della capacità di costruire consenso da parte della Chiesa cattolica, utilizzando quadri di origine popolare, capaci di mutare linguaggio e messaggio, e suscitando movimenti che tendono ad unificare, anche linguisticamente, la penisola.
Sereni non manca di evidenziare tensioni e conflitti, emblematici soprattutto nel movimento francescano, il più importante e significativo nell’opera di mediazione culturale e linguistica, ma vede esprimersi, nel “Cantico di Frate Sole” e nelle laude delle varie compagnie itineranti, la tendenza a una lingua comune, più o meno illustre, mentre le eresie del Nord Italia si chiudono (o sono costrette a chiudersi) in pratiche vernacolari.

Nessun commento:

statistiche