16.6.19

La lingua felice di Vivian Lamarque (Vilma De Gasperin - University of Oxford)



«La mia superficie è felice,
ma venga, venga a vedere
sotto la vernice».

Giovanni Raboni definì la poesia di Vivian Lamarque di una ‘semplicità quasi feroce’. Certo, la lingua poetica di Lamarque, i cui modelli italiani dichiarati sono Umberto Saba, Giorgio Caproni e Sandro Penna, è rivestita di una patina liscia, ritmata, con l’uso non invadente della rima: ambienti, oggetti, animali e fiori appartengono a un quotidiano familiare. Ma questa lingua “semplice”, poggia su tecniche linguistiche e retoriche che le conferiscono una sorprendente forza, come una spinta inattesa che butta chi legge giù dalla poltrona proprio quando pensava di starci comoda. La passione per la fiaba, la ninna-nanna e la filastrocca (oltre che poetessa Lamarque è una prolifica scrittrice di fiabe e libri per bambini) traluce nei versi poetici. La voce sembra cullare nel ritmo lieve e rasserenante della sfera domestica, spesso infantile (mai puerile) e poi i versi di chiusura arrivano, scrisse Vittorio Sereni, come ‘una coltellata’: ‘Quest’operazione / che la costringete sempre a fare / «ridimensionare» / non è come stringere un vestito / non è indolore / si taglia la pelle del cuore’.

L’abbandono e gli altri temi
L’ampio corpus poetico di Lamarque esplora la vicenda autobiografica di abbandono, adozione e ricerca delle origini nelle sezioni 'Conoscendo la madre' in Teresino (1981), 'Madri padri figli' in Una quieta polvere (1996) e ‘Madre l’altra’ in Madre d’inverno (2016); il transfert psicanalitico ne Il signore d’oro (1986), Poesie dando del Lei (1989) e Il signore degli spaventati (1992); il lutto nelle prime tre sezioni di Madre d’inverno; la morte; relazioni amorose; famiglia e amicizie; e ovunque acute riflessioni sul vivere, compreso in Poesie per un gatto (2007) e le poesie in dialetto milanese ne La gentilèssa (2009).

Generi e intertestualità
Lamarque va dalla forma breve a componimenti più discorsivi di prosa poetica, ai poemetti come ‘Questa quieta polvere’, ‘L’amore mio è buonissimo’, ‘L’albero’, che giocano con la ciclicità e la ripetizione. La ripetizione è poi un elemento caratteristico a unire i brevi componimenti, come l’attacco “l’amore mio...” nella sezione ‘L’amore mio è buonissimo’ (Teresino). Importante anche il dialogo intertestuale. In ‘Questa Quieta Polvere’, il cui titolo è tratto da ‘This Quiet Dust was Ladies and Gentlemen’ di Emily Dickinson, sono inserite 53 citazioni evidenziate dal corsivo provenienti da 16 fonti diverse (testi poetici, storici, biblici, fiabeschi e cinema). Qui i versi di Dickinson (“Because I could not stop for Death - / He kindly stopped for me”) si intrecciano a quelli di Lamarque: “poiché non potevo fermarmi per la morte / lei gentilmente si fermò per me // anche da morta mi ricorderò i ricordi / mi ricorderò sempre di quando ero viva’. Altrove le citazioni sono presenti in modo sporadico e mimetizzate, come in ‘chiara era la notte e senza vento guarda / da una morta era spuntata una margherita”, che riprende il noto incipit leopardiano de La sera del dì di festa.

L’io e il tu
L’io lirico presuppone in larga parte un tu di matrice autobiografica, al quale si rivolge, ricorda momenti passati, pone interrogativi (retorici e non), dà ordini perentori, evoca e invoca, irrorando i versi leggeri di nostalgia, anelito, biasimo, disagio e dolore. Ad esempio, in “Sempre più mi sembri una persona innamorata / e so che con me questo non ha a che vedere / e so che con me questo non ha a che vedere”. Oppure l’io pone domande per rassicurare il tu: “È ora di dormire anima mia / perché non dormi? vengono i pensieri? / Fa’ così con la mano che vanno via / fa’ presto fa’ presto anima mia”. Si noti la ripetizione, un tratto che, insieme all’uso frequente dei superlativi, agisce come artificio di intensificazione.
Ne Il signore d’oro si instaura quella forma di dialogismo in cui è l’io stesso a fungere da interlocutore e a dare la risposta, come nei bambini quando parlano con creature mute (bambole o gatti) per alleggerire la propria solitudine. Così ne ‘Il signore e la bambina’ da Il signore d’oro, che trasfigura in chiave poetico-fiabesca la terapia psicanalitica:

«Chinatosi qualcosa da terra raccoglieva.
Che cosa?
Credo una foglia, oh no era una microscopica bambina.
Bambina?
Sì, lunga come i millimetri e tutta avvolta in una colorata vestina.
E dopo averla raccolta?
Dopo la cullò, come il vento una fogliolina.»

Sono qui presenti altri tratti caratteristici quali il ricorso ai diminutivi, la dimensione infantile (retaggio del trauma dell’abbandono che pervade il vivere adulto), la proiezione del sé autobiografico alla terza persona.

Dialoghi
Tutto imperniato su domanda e risposta è Poesie per un gatto, composto di minidialoghi tra la poetessa e il gatto Ignazio. Se alcune poesie scherzano con divertita ironia, come in “– Cos’è questo odore infernale? / – È smalto per le unghie Ignazio. / Quando vedo tutto nero coloro di rosa / le unghie come una vita... / – Rimbambita” con effetto dissacrante della rima vita-rimbambita, la terza sezione, ‘Il giardino dell’aldilà’ riflette con levità sulla morte, partendo dal lutto proiettato sul gatto per la gattina Zarina: “– E poi sarà uguale alla nostra / l’erba dell’aldilà? / – Lo vedremo Ignazio / lo vedremo quando saremo là”.
Le domande spesso (come nella vita) non hanno risposta. Non ne hanno se l’interlocutore non c’è più e questo modulo pervade la raccolta Madre d’inverno. In ‘Le posizioni del dolore’ non ci sono risposte e la domanda pare essere posta non a tu/madre ma a un destino che consente che vi sia tanta sofferenza: “Perché non trovarti mai le vene / macchiarti le tue braccia di neve così?” Sì, perché?

Lettere e destinatari
L’apostrofe a un tu assente prende talvolta la forma di lettera con l’incipit epistolare: “Caro babbo II (ma primo) / che ti chiamavi Dante / che facevi il Campione d’Italia / di Sollevamento Pesi e il Vigile del Fuoco / che salvavi le persone / che hai fatto in tempo a salvare anche me / prima di morire / a 34 anni”: il che anaforico crea un climax fondato semanticamente sul bene e sulla vita, interrotto bruscamente dalla congiunzione temporale che introduce la morte prematura del padre. In “Cara sorella / oggi capisco / che ti eri spaventata / quando ero nata / avevi tredici anni / e anche tu l’infanzia / un po’ minata / ma credi non era colpa mia / se ero nata”, il presente di oggi capisco viene ricalibrato dall’avversativo ma, a bilanciare il peso di trascorse colpe e assoluzioni.
L’incipit epistolare si estende anche oltre l’ambito familiare. Il destinatario può essere l’amato: “Caro Dottore / basta distanza / varchiamo La prego / il confine della stanza”, o il Papa: “Caro Papa ma non vedi / gli occhi disperati / degli animali santi / dall’uomo martirizzati?”, concludendo con un richiamo al Cantico delle Creature: “e San Francesco è morto / cum tucte le sue creature”.

Un modo imperativo
Il dialogo si costruisce spesso sull’imperativo, assumendo il tono perentorio dell’ordine tanto più gridato quanto più sa di rimanere inascoltato. In Poesie dando del Lei l’io-paziente, apostrofa il Dottore-amato: “Basta villeggiatura UBBIDISCA! RITORNI!”; o ancora più insistente: “mi tenga accanto a sé / MI TENGA ACCANTO A SÉ HO DETTO! / ubbidisca! Le pare?”: l’enfasi del maiuscoletto e dell’esclamativo che mima il grido si scioglie poi nella domanda retorica Le pare? quasi che l’io si fosse reso conto dell’inattuabilità delle proprie pretese e ribaltasse con ironia l’impossibilità di esaudire il proprio desiderio.

Licenza grammaticale
Nella lingua “semplice” di Lamarque si insinuano talvolta parole nuove, risultato di univerbazione: qualchelungavolta, volereaffetto, infanziamanina, caravoce, uomomamma, natalimpida, biancacarta, il chiastico come casanuova / in una nuovavita. O nuovi avverbi: domenicalmente, innamoratamente; insoliti superlativi baciabilissimo, riempitissima di lontananza, talvolta a formare un poliptòto: chiudendo la chiusissima porta. Tipica del linguaggio poetico è la posizione anteposta al nome di taluni aggettivi (participi, di colore): le addormentate acque, una fortificata casa, una bianca gomma, che insinuano nella lingua quotidiana la dimensione aulica.
Ma non è certo dagli aulicismi che la poesia di Lamarque trae il suo vigore, bensì dagli accostamenti di immagini familiari di cui, nel ripercorrere le tappe della vita, rivela il senso che sta sotto la superficie, sotto la vernice.

dal sito dell'Istituto della Enciclopedia Italiana 12 settembre 2018

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