CON I GIUDICI DI VITERBO
SUL FEUDO INSANGUINATO
Nelle canzoni popolari
siciliane
echeggia il tragico
interrogativo
sui mandanti della strage.
La corte ha terminato i suoi sopraluoghi
Gaspare Pisciotta parla con un avvocato al processo di Viterbo |
Con la spedizione di oggi
al feudo Trasacco, dove il campiere Busellini fu assassinato dai
banditi che ritornavano dalla Portella la Corte d'Assise di Viterbo
ha concluso il suo laborioso sopraluogo giudiziario in Sicilia. Per
l'ultima volta questa mattina, alle 6, la lunga colonna delle
autovetture di avvocati e giornalisti è partita rombando per la via
di Monreale lasciandosi alle spalle la città addormentata dove
circolavano solo gli strani lattai palermitani, conducendo lentamente
per le cavezze le loro vacche fulve e scheletrite per andare a
mungere, secondo l'usanza, il latte sulle soglie delle case dei loro
clienti.
Monreale è il passo
obbligato per arrivare a Trasacco; la topografia di questo luogo è
la guida indispensabile e sicura per arrivare alla ricostruzione dei
delitti di Giuliano e della sua banda: il luogo dove la Corte
abbandona la strada per inoltrarsi nel feudo Lo Presto, dove fu
ucciso Busellini, non dista più di
mezz'ora di macchina da Villa Carolina, la casa dei Miceli, posta un
po' fuori di Monreale dove si tennero i convegni dei banditi.
Paesaggio
apocalittico
Poche decine di
chilometri in linea d'aria ci separano dalla incantevole piana
digradante sul mare, dove ieri siamo passati, attraversando i
giardini di limoni ed i campi di grano, fitti di olivi secolari: e
siamo già in pieno feudo, in un passaggio apocalittico, dominato da
impervi roccioni calcarei, sparsi di pietrame tra il quale cresce a
stento un grano duro, di montagna, e sorgono pochi alberi di mandorlo
dall'ombra rada.
Sotto il sole implacabile
la Corte ha faticato non poco a raggiungere il luogo dove Busellini
fu visto passare per l'ultima volta dal contadino Giovanni Arrigo.
«Tre gruppi di banditi
— ha detto il testimone — sbucarono ad un tratto dalla costa
della collina che sovrasta il mio
campo: stavo mangiando seduto a terra ed al vedere i banditi, mi
appiattai ancora di più fra il grano. Passarono al limite della
coltura prima tre, poi 4, poi 5 persone; nell'ultimo gruppo era
Busellini. Non vidi altro».
Quello che non ha visto
l'Arrigo è stato ricostruito nelle indagini dei carabinieri. I
banditi raggiunsero un pozzo, poco distante dal feudo e, posta la
loro vittima contro un muretto, la crivellarono di colpi,
rovesciandola poi nell'umida tomba.
Un mese dopo, quando la
polizia (forse per informazione dell'assassino, il Ferreri detto 'fra
Diavolo') recuperò il corpo del Busellini, nella tasca del
disgraziato campiere si trovò il fatale documento che aveva
provocato la sua condanna a morte: un bigliettino, reso quasi
illeggibile dalla azione dell'acqua: in esso un maresciallo della
Piana dei Greci fissava al Busellini un appuntamento per il giorno
seguente a quello della sua morte.
Undici uomini (oltre al
Busellini) furono visti dall'Arrigo: Pisciotta ne ha nominati
quindici. E gli altri quattro?
«Quelli andavano in
macchina — ha risposto al Presidente l'avvocato Crisafulli — e
portavano le armi. Sullo stradale si divisero in due gruppi: mentre
il primo prese la strada della montagna in direzione di Montelepre,
l'altro proseguì in automobile per la strada di Monreale».
Nella città dominata
dalla mafia, il giorno del 1° maggio si correva la gara dei
cerberi, i piccoli e velocissimi cavalli locali, e tutta la gente era
ammassata ai bordi del corso principale dove si doveva svolgere la competizione.
Invece, della sfrenata corsa dei cavalli senza fantino, la gente vide
arrivare le autolettighe ed i camions carichi dei morti e dei feriti
a Portella preceduti dall'urlo lugubre delle sirene.
E forse qualcuno avrà
visto anche il misterioso jeppone che probabilmente precedeva le
autolettighe e a bordo del quale erano
Giuliano ed i suoi luogotenenti, reduci dal loro più nefando
delitto. Ma quelli che aspettavano giù a Monreale e che potrebbero
chiarire alla Corte più di un dubbio, non sono imputati nel processo
per la strage di Portella della Ginestra.
Dopo il faticoso, se pur
breve sopraluogo, la Corte ritorna a Palermo presto, alle 10. C'è in
giro un'aria di partenza con frettolosi saluti, strette di mano,
arrivederci a Roma. La Corte dovrà
riprendere le sedute mercoledì prossimo a Viterbo e quasi tutti i
suoi componenti, escluso il Presidente, partiranno oggi insieme con
gran parte dei giornalisti.
La festa di Santa
Rosalia
La
capitale siciliana è in festa per le onoranze a Santa Rosalia. La
città brulica di gente venuta da ogni parte della Sicilia e che
affolla le vie, animatissime, come in una domenica, per il «
festino».
Ci aggiriamo incantati in
questo meraviglioso andirivieni, tra venditori ambulanti che
strillano, carrozzelle, gelatai, bambini che vendono gelsomini
portando in giro la loro mercanzia raccolta in grandi mazzi dal
profumo acutissimo e inebriante.
All'angolo di una strada
un capannello con al centro un cantastorie. Le nenie del cantore
popolare ci riportano di colpo alla realtà che avevamo dimenticato
per un momento. Esso canta: i frati Ginovesi su accusati/comu li
guardaspaddi di Giuliano. / Mannino e Cucinella su imputati. / P'ù
stissu fatto Licari c'entrò! / Ora dico che Sciurtino / ch'è cugnato
di Turìddu: /perchè proprio solo a iddu/ Stati Uniti nun mannasti? /
Iddu li sapì i veri mandatari / e Licari i canusci sti signuri. /
Ferreri e Sapienza su d'unuri. / Pir chìstu Gaspanni scatasciò! / Lu
dramma è Viterbu, ma la farsa/ la fannu pri sollazzo l'awucati: /
vonnu cantari, ma sunnu stunati».
Ecco la tragedia di
Giuliano che prende il posto delle cantate delle gesta degli antichi
paladini; è anche nella trasfigurazione del poeta popolare
quell'interrogativo che assilla tutti: i mandanti? Intorno a noi non
vediamo né il Presidente né i giudici popolari. Ma confidiamo che
l'essere venuti in Sicilia abbia dato loro, oltre che quelle
indicazioni che chiedevano ai luoghi che furono teatro della strage,
anche l'impressione precisa di quello che il popolo siciliano pensa e
si aspetta dal processo di Viterbo.
L'Unità, domenica 15
luglio 1951
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POSTILLA
BENEDETTO BENEDETTI, SANGUE ROMAGNOLO
Benedetto Benedetti in una posa da attore |
L'articolo che qui ho ripreso da “l'Unità” riguarda il
sopralluogo in Sicilia della Corte che a Viterbo, per legittima
suspicione, fu chiamata a giudicare la banda Giuliano nel 1951, dopo
l'uccisione del celebre fuorilegge. Ne è autore Benedetto Benedetti,
figura di geniaccio di provincia di cui si trova qualche
significativa traccia anche in rete.
(qui per esempio,
http://www.simonemariotti.com/Content-pa-showpage-pid-77.html
)
Era nato in Romagna, a
Perticara, “paese di lanterne magiche” (così lo chiamò) e di
zolfo, aveva studiato, compagno di classe di Sergio Zavoli al Liceo
Classico di Rimini.
Dopo aver molto girato, è morto a Novafeltria, nel Riminese all'inizio di questo 2014, ottantanovenne.
Dopo aver molto girato, è morto a Novafeltria, nel Riminese all'inizio di questo 2014, ottantanovenne.
Fu giornalista, scrittore
prolifico (di testi generalmente
incompiuti e inediti o autopubblicati, narrativi, storici, etnografici ecc.), fu sceneggiatore (lavorò con Fellini, con Florestano
Vancini - per Bronte - e con altri registi) e critico musicale di prima fascia;
a quanto raccontano fu anche amatore appassionato e protagonista di
vicende troppo inverosimili per essere del tutto inventate.
Sulla sua attività di
cronista a “l'Unità” Benedetti scrisse quanto segue: "dopo le tristi vicende della guerra, a
Roma redazione dell’Unità allora in Via Quattro Novembre. Non
presi mai la tessera del partito, e nessuno me la chiese. Capo
servizio d’infallibile intuito, Alfredo Reichlin, titolista nato: "Toghe sdrucite" in titolo di un articolo per una
inaugurazione d’anno giudiziario; direttore il cordiale Ingrao;
redattore capo un gran signore, riflessivo e triste, Maurizio
Ferrara, padre dell’attuale direttore del "Foglio". La scuola
dell’Unità ebbe tre cardini: il discorso di Togliatti per la morte
di Stalin, il caso Don Camillo e il processo Pisciotta a Viterbo.
Inviato a Palermo per documentarsi sul bandito Giuliano, ebbi la
sorpresa: le fotografie di Pasquale Sciortino, il misterioso cognato
del bandito Giuliano, date per introvabili, potevano essere comprate
seguendo il canale giusto, con una certa facilità. Le coperte vie
conducevano a una Sicilia che voleva dire Trinacria. Trasmisi un
servizio riferendo i versi di un cantinpiazza che ripeteva
esattamente le tesi del Partito Comunista sulla strage di contadini
compiuta da Giuliano a Portella delle Ginestre e mi fu poi riferito
che Reichlin smontò la prima pagina del giornale per pubblicarlo.
Non so ancora oggi se è vero, ma quando me lo dissero, ne ebbi
piacere. Il caso Chiaretti-Pajetta fu lo scontro fra radical-chic e
un grande industriale della politica. La cosca intellettuale romana
era stata unanime a rifiutare di immischiarsi nel film tratto dal
romanzo "Don Camillo" di Guareschi, l’inventore dal “Candido” dei
trinariciuti comunisti: la regia fu affidata a Duvivier, grandissimo
professionista... Si formò
la coppia storica Gino Cervi-Fernandel. Successo smisurato, ma
l’ingualcibile Chiaretti che era anche critico cinematografico
dell’Unità intitolò la sua recensione "Italia Offesa":
Duvivier infatti, nazionalità e carriera francesi. Pochi giorni
dopo, stessa collocazione, stesso rilievo, in apertura di terza
pagina, Pajetta intervenne iniziando: «a me invece il film è
piaciuto». Per il lupo di mare politico, il film traghettava il
partito dal triangolo della morte ed altre facezie, alle facezie
Cervi-Fernandel. Morto Stalin, Togliatti iniziò la sua
commemorazione in Parlamento, con le parole «sono percosso,
attonito». Scandalizzato, il poco perspicace, andò per lumi da un
vecchio militante che aveva avuto in Russia qualche carezza
stalinista: dopo i doverosi insulti del caso, egli lo esortò a
meditare sull’interrogativo del cinque Maggio di Manzoni: «fu vera
gloria? Ai posteri l’ardua sentenza». Era cominciata la
destalinizzazione".
Benedetti tentò una sua personale destalinizzazione con un film di cui fu
soggettista, sceneggiatore e attore coprotagonista (con Helmut
Berger), Sai cosa faceva Stalin alle donne? (regista
Liverani). Vi si racconta la
storia di uno che guardava a Stalin come esempio di virilità. Non
piacque granché, per sua stessa ammissione neanche a Benedetti.
L'articolo qui postato, cui sono arrivato casualmente mentre consultavo
l'archivio in rete de “l'Unità” , è proprio
quello dedicato alla trasferta palermitana della Corte di Viterbo di cui Benedetti racconta. A me sembra che gli
schizzi sulla Palermo degli anni Cinquanta e la rappresentazione del
paesaggio tra la città e l'entroterra vadano oltre l'immancabile "colore locale". (S.L.L.)
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