20.6.10

Ergastolo e pena di morte. Come al tempo di Giulio Cesare.


Ieri 19 giugno, su “La Stampa”, Ferdinando Camon ha commentato una notizia americana. E’ stato ucciso qualche giorno fa nello Utah un uomo che era stato condannato a morte nel 1985 per un duplice, crudele omicidio. Per fucilazione, ha rifiutato l’iniezione letale, convinto che avrebbe sofferto anche di più.
Nessun dubbio sulla sua colpevolezza. Ma sono passati 25 anni tra rinvii, ricorsi, controricorsi, richieste di grazia e conseguenti deliberazioni e pare che nel frattempo l’assassino di allora sia un detenuto modello, non solo disciplinato, ma laborioso e generoso. A detta di Camon nel pubblico degli Stati Uniti la reazione generalizzata sarebbe stata di soddisfazione: meglio tardi che mai.
Non è la prima volta e non è accaduto solo lì. Il canto popolare sulla decapitazione di Sante Caserio, l’anarchico che nel 1894 uccise a Parigi il presidente Carnot, fa più o meno: “Spettacolo di gioia la Francia manifesta/ gridando viva il boia che gli tagliò la testa”. Camon tuttavia, utilizzando come termine di confronto la vicenda narrata in Il segreto dei suoi occhi, un film argentino che ha vinto l’Oscar, dubita che la gioia per una condanna a morte sia razionalmente giustificabile, neppure quando prevalga lo spirito di vendetta. Nel film un assassino s’accorda con lo Stato e torna libero. L’uomo a cui ha ucciso la compagna non sopporta questa ingiustizia, ma per realizzare una vendetta piena non vuole ucciderlo; pensa: “Io soffrirò per sempre, pagherei per morire in un attimo”.
Pertanto imprigiona l’assassino in un casolare sperduto e lo guarda ogni giorno chiedere misericordia, implorare di essere ucciso. Nel film, per dirla con Camon, l’ergastolo appare come “una morte interminabile, che ti fa sognare la morte istantanea come un regalo della pietà”.
La storia e l’argomentazione mi hanno riportato alla memoria gli anni di insegnamento, la sallustiana Congiura di Catilina e il dibattito nel senato romano sulla sorte degli eversori catilinari, che il console (è Cicerone, ma Sallustio quasi mai lo indica col nome personale) aveva fatto arrestare, portando le prove del loro disegno di ucciderlo e di mettere a ferro e fuoco l’Urbe per impadronirsene.
Sallustio pone l’uno contro l’altro quelli che dichiara essere gli unici due uomini di grande valore, benché di carattere opposto: Catone e Cesare. Vincerà l’intransigente Catone sul clemente Cesare, ma è il discorso di quest’ultimo che ci interessa di più. Il futuro dittatore, contrario alla pena di morte, sviluppa la sua argomentazione su due livelli diversi. Primo, il garantismo giuridico: del console – dice - ci fidiamo e costoro sono certamente colpevoli e certamente da punire, ma, uccidendoli senza processo, creeremmo una situazione irrimediabile e un precedente pericoloso. Secondo, la morte è pena troppo lieve: “Nel dolore, nella sventura la morte non è un supplizio, ma un riposo agli affanni; tutte le pene dissolve la morte”. Proporrà, senza successo, la confisca dei beni e l’esilio perpetuo in un municipio lontano, una sorta di ergastolo insomma.
Camon giunge alle stesse conclusioni. “Rispetto alla morte l’ergastolo appare una pena più crudele” – afferma; ma tornando all’uomo dello Utah aggiunge: “In un quarto di secolo è morto, in carcere, l’uomo-assassino ed è nato un uomo-modello. Con l’ergastolo si poteva tenerlo ancora in carcere, a super-redimersi, visto che redento lo è già. La fucilazione non è una redenzione più completa. È soltanto un altro omicidio”. Insomma, alla fine del ragionamento emerge l’idea secondo me più giusta: che oramai non va più bene né l’esecuzione né il perdurare della reclusione. Che la soluzione migliore per chi ha commesso crimini abominevoli, ma è rimasto in prigione tanto tempo, modificando il proprio rapporto con il mondo, è la liberazione. Ma non era meglio dichiarare subito la preferenza per una pena che corregga e riabiliti prima di affliggere piuttosto che seguire i forcaioli sulla ricerca della pena più dura, come al tempo di Giulio Cesare?

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