11.10.10

L'impero al tramonto (di Roberto Monicchia)

Roberto Monicchia

Da “micropolis” del settembre 2004. Il “gran recensore” Roberto Monicchia ci racconta due libri di quell’anno e, per questa via, ci parla della crisi attuale (S.L.L.).
Immanuel Wallerstein


Concludendo il suo Secolo breve, Eric Hobsbawm si è detto convinto che il XXI secolo non sarà un altro secolo americano: se è improbabile che lui possa assistere al cambio di egemonia, questo sarà senz’altro visibile ai suoi lettori più giovani.
Due analisi degli Usa, sembrano confermare questa profezia del grande storico. Molte sono le differenze tra i due libri: Paul Krugman, l’autore di La deriva americana (Laterza, Roma- Bari 2004), è un influente economista liberal, molto ascoltato ai tempi di Clinton, convinto assertore dei benefici della globalizzazione dei mercati; il suo libro (raccolta di articoli pubblicati tra il 1998 e il 2003) predilige un approccio congiunturale, tecnico, con un’ottica molto critica ma “riformista”. I saggi di Immanuel Wallerstein, raccolti nel volume Il declino dell’America (Feltrinelli, Milano, 2004), si muovono su un’ampia prospettiva storica e si pongono nell’ottica della ricerca di radicali alternative “antisistema”. Semplificando, Krugman scruta i difetti dell’economia di mercato, un orizzonte comunque insuperabile; per Wallerstein il problema è in che direzione uscire dall’esaurimento storico del capitalismo. Ciò che accomuna due analisi tanto distanti è la centralità degli Usa di oggi per i destini del mondo, tanto più se unita alla consapevolezza della radicalizzazione della destra al potere, con conseguenti rischi globali.
Fedele ad un’impostazione braudeliana - che contempera storia e scienze sociali nell’ottica della lunga durata - Wallerstein inscrive il declino dell’egemonia mondiale statunitense all’interno della complessiva crisi dell’economia-mondo capitalistica, crisi finale ed irreversibile, che apre ad inediti scenari nel giro di pochi decenni. Formatasi nella lunga fase delle scoperte geografiche, dell’accumulazione originaria e della rivoluzione industriale, l’economia-mondo capitalistica si è estesa fino a configurarsi come un vero e proprio sistema-mondo, in cui la centralità economica dell’occidente è accompagnata dal dominio politico-militare e dall’egemonia culturale. Dentro questo orizzonte il primato americano, affermatosi dalla fine dell’Ottocento, si realizza pienamente
- dopo una lunga lotta contro la Germania - alla fine della seconda guerra mondiale, quando gli Usa possono - grazie alla ricostruzione di Europa e Giappone - dare sbocco alla preponderante capacità produttiva accumulata, mentre sul piano politico-militare la spartizione (2/3 contro 1/3) pattuita con l’Urss assicura una sicurezza sostanziale e permette anche di tenere alta la pressione militare grazie allo spauracchio del “nemico”. Il culmine dell’egemonia americana (i “gloriosi trenta”) vede anche la maturazione delle alternative storiche al sistema-mondo capitalistico, quella rappresentata dal movimento operaio organizzato e quella dei movimenti anticoloniali. Il 1968 e la guerra del Vietnam rappresentano l’inizio del declino: lo scacco militare nel Sudest asiatico e la rivolta planetaria antiautoritaria mettono in discussione l’egemonia statunitense, ma contestano anche le sue alternative storiche, rifiutando in sostanza lo status quo di Yalta. Il crollo del socialismo reale e il prevalere delle motivazioni etniche o religiose nei movimenti di liberazione nazionale costituiscono l’acme di questa sconfitta storica. In sostanza è fallito il modello storico fondato sulla conquista dello stato come necessaria premessa alla trasformazione sociale: compiuto il primo passo né i paesi socialisti né i gruppi dirigenti postcoloniali sono stati in grado di costruire una società diversa. Ma la crisi del 1989 è una campana a morto anche per l’egemonia americana. Completata la ricostruzione postbellica, infatti, già dagli anni ’70 Europa e Giappone sono pericolosi concorrenti degli Usa; la fine del blocco sovietico elimina un potente alibi per l’apparato militare americano. Ne consegue un isolamento di fatto della superpotenza Usa, che reagisce con il rafforzamento del progetto imperiale (senza più limiti territoriali), ma non è più in grado di esercitare un’egemonia complessiva: il dopo 11 settembre è stato il segnale di questo isolamento. Il declino americano è, più in generale, solo un aspetto dell’esaurimento in atto dell’economia-mondo capitalistica, che sta ormai toccando i limiti “fisici” del processo di accumulazione cominciato nel XVI secolo. I principali elementi della mondializzazione del sistema capitalistico, deruralizzazione, assoggettamento al lavoro salariato, esternalizzazione dei costi, si scontrano con difficoltà - ambientali e umane – ormai insostenibili, mentre le lotte per estendere le protezioni sociali aggiungono un’ulteriore pressione sul livello dei profitti. In questo senso globalizzazione
e progetto neoimperiale della destra americana sono rimedi di breve respiro: la prima è la “maschera mediatica” di una profonda depressione economica, il secondo un tentativo
votato al fallimento, capace solo di aggravare e rendere più oscura la crisi. Di fronte alla caduta irreversibile di un sistema-mondo si aprono scenari del tutto imprevedibili, vista la crisi simultanea delle alternative storiche. D’altra parte le “vie d’uscita” sono del tutto aperte, il bivio storico è irto di rischi ma anche gravido di potenzialità nuove.
Di portata più ristretta, ma più puntuale, il libro di Krugman mostra scenari altrettanto oscuri. Muovendo da una pacata analisi sul perché il boom economico dell’era clintoniana si sia rapidamente tramutato in un deficit senza precedenti negli anni di Bush junior, l’economista giunge a concludere che con Bush II sia salita al potere una destra radicale determinata a esercitare un “potere rivoluzionario” (definizione ironicamente ripresa da Kissinger), che cioè rifiuta legittimità alle regole politiche vigenti sul piano interno e su quello internazionale e punta a modificarle facendo ricorso a tutti i mezzi. In altri termini George W ha effettivamente messo in pratica le parole d’ordine radicali che aveva diffuso prima della propria ascesa alla Casa Bianca: i tagli fiscali ai redditi più alti puntano ad eliminare totalmente l’imposizione sui capitali riservandola ai salari, mentre si smantellano sistematicamente e “per principio” i diritti sociali; la teoria della guerra preventiva, concretizzata dopo l’11/9, segue rigorosamente il principio del primato dell’interesse americano, fuori e contro il diritto internazionale. A questa feroce determinazione fa riscontro una capacità enorme di “coprire” con bugie gli effetti disastrosi di tali politiche: ad esempio la crisi energetica della California sarebbe stata non l’effetto della privatizzazione ma colpa degli ambientalisti; così la riduzione delle tasse sarebbe il miglior sostegno all’aumento abnorme delle spese militari, senza parlare delle note panzane sull’Irak. Il potere dei neocons, entusiasticamente sostenuto dalle grandi corporation, ha la caratteristica di non porsi alcun limite; ed è qui l’errore degli oppositori democratici, fermi nella convinzione che alle proclamazioni radicali della destra corrisponda un sostanziale moderatismo; per inciso, è un errore che il candidato democratico Kerry sembra intenzionato a ripetere (per non parlare dell’opposizione nostrana). La svolta politica non è stata però indolore: dopo il boom degli anni ‘90, gli Usa si ritrovano con un deficit di bilancio e commerciale spaventoso, in preda a scandali finanziari inauditi, esposti al risentimento internazionale. Così la globalizzazione liberale, giudicata in sé come un fattore positivo di sviluppo e progresso, assume caratteristiche poco rassicuranti, fino a suscitare qualche dubbio “di fondo” sulle virtù dei mercati. Un liberale convinto come Krugman, dunque, riscopre il “volto oscuro” del capitalismo. Non è l’unico: la sensazione è che l’incertezza in cui sta precipitando il mondo dopo l’ubriacatura neoliberale cominci a fare breccia in alcune aree dell’intellighenzia democratica mondiale, che temono una gigantesca recessione globale (ricordate il 1929?) a breve termine. A giudicare dal cortile di casa nostra, non pare che a ciò corrisponda un’adeguata sponda politica, radicale o moderata che sia.
Parecchie ipotesi di Wallerstein e Krugman sembrano confermate dalle vicende irakene e dalla campagna elettorale Usa. Allo stesso tempo emerge la profonda influenza delle vicende americane sul mondo, anche in una fase di “declino” o “deriva”. In altre parole gli Usa, in crisi o meno, sono
in grado di “fare molto male”: ha ragione Toni Negri quando dice che l’impero non coincide con l’imperialismo americano, ha torto a sottovalutare il peso che questo continua ad avere. L’altra considerazione riguarda la prospettiva: si può essere più o meno d’accordo sulla fine del capitalismo prospettata da Wallerstein, certo è che dell’antica profezia “socialismo o barbarie” il secondo termine sembra in grande vantaggio.


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