21.10.10

Walter Cremonte racconta Sandro Penna. 4. La forma del desiderio

Il viandante, che per caso o per scelta attraversasse la periferia industriale di Perugia, ‟imbatterebbe probabilmente nella Via Sandro Penna: un lungo stradone disadorno fiancheggiato da capannoni,  magazzini, rimesse, che finisce in un prato rinsecchito, non più campagna e non ancora città. Una volta mi è capitato di proporre, un po’ scherzando ma neanche tanto, che si ricordasse degnamente il centenario della nascita di Sandro Penna raccogliendosi per una lettura pubblica delle sue poesie nella desolazione e nella confusione di quel luogo (o non-luogo, come oggi si dice), piuttosto che nelle aule deputate alla celebrazione e alla commemorazione. Certo, in quella proposta un po’ paradossale c‟era anche un intento ironico e polemico (è così, con queste intitolazioni di strade anonime e casuali che la città onora il suo più grande poeta?). Ma devo dire, riflettendoci meglio, che quell’intento polemico – e anche un po’ banale, un po’ facile – non era probabilmente l’intento prevalente. C’era piuttosto la consapevolezza che in fondo va bene così, va bene confinare (anche simbolicamente) i poeti nella marginalità della periferia: perché penso che la marginalità in cui è confinata oggi la poesia – rispetto al sistema dominante della comunicazione – non è per forza una iattura: potrebbe anche essere una fortuna, un segno di privilegio, perché permette un ascolto della realtà, esterna e interna, più intenso e concentrato, meno distratto dal rumore di fondo, dal chiasso (che non è tanto il chiasso della produzione e del movimento delle merci delle nostre periferie industriali, ma piuttosto il chiasso delle sirene culturali mass-mediatiche, di quelli che oggi si chiamano “eventi”). Del resto proprio Sandro Penna si presta mirabilmente ad abitare questi luoghi della marginalità, a frequentare la periferia della vita:
Eccoli gli operai sul prato verde
a mangiare: non sono forse belli?
Corrono le automobili d’intorno,
passan le genti piene di giornali.
Ma gli operai non sono forse belli?
Se uno prova a fare un giro nei luoghi intorno a Via Sandro Penna verso l‟ora di pranzo, della  pausa-pranzo, troverà certi bar affollati di gente. Da fuori sembrano dei normali bar, anche piccoli, ma dentro sono sorprendentemente grandi: ci sono operai, impiegati, viaggiatori, che consumano il loro pasto veloce, magari precotto e passato al microonde. Certo, non c‟è più il “prato verde”, con la gavetta, in un‟immagine che anticipa straordinariamente (negli anni ‟30 della poesia) il nostro grande cinema neorealista: non sono più gli stessi, sono anche fisicamente diversi, la mutazione antropologica c‟è stata, ma è lo stesso fondo di umanità che piacerebbe ancora (“non sono forse belli?”) al nostro poeta.
Naturalmente è inutile ripetere qui che in questo entusiasmo di Penna per gli operai non c’è nulla di ideologico, nulla che abbia a che vedere con una prospettiva politico-sociale; anche se è vero – e forse proprio per questo è vero – che in pochi poeti del nostro Novecento c‟è come in Penna una sensibilità così acuta e affettuosa verso l‟Italia “umile”, fatta di osterie, palestre e cinema di periferia (“dove le porte / s‟aprono e chiudono continuamente”) e sale d‟aspetto, portinerie di caseggiati popolari, tram e situazioni di incerto confine tra margini urbani e una campagna ancora primitiva… Sappiamo che nella passione di Penna per gli operai belli c’è una motivazione esclusivamente estetico-desiderante, essendo il poeta del tutto indifferente alle ideologie dell’epoca, e in generale ad un’idea della realtà intesa come realtà-storia: a favore piuttosto di un senso della vita simile ad un sogno prolungato, o ad un dormiveglia quasi di natura ipnotica, il risveglio dal quale si configura come semplicemente “triste”: “La vita… è ricordarsi di un risveglio / triste in un treno all’alba…”, nella poesia archetipica di tutta l‟opera penniana. Questo rifiuto della realtà-storia in nome della realtà-vita è il rifiuto del mondo adulto, fatto di consapevolezze che sono mere sovrastrutture ideologiche (e in questo senso gli operai di Penna, evidentemente, sono “puri” come i suoi fanciulli) e di trame e rituali che sono propri dell’homo oeconomicus: Penna è vissuto ed è morto olimpicamente povero, e non possiamo non pensare – a posteriori – che negli anni in cui si dispiega la sua grandissima poesia quel mondo degli adulti che lui rifiuta stava preparando i massacri della seconda guerra mondiale. Di fronte a questo atteggiamento di ripulsa, di sostanziale distacco, la parola che ci viene alla mente è innocenza, e su questa parola tornerò tra poco. È certo tuttavia che il rifiuto del mondo adulto e la consentanea scelta del mondo dei “fanciulli” (ma non è facile dire cosa venga prima e cosa venga dopo), quel mondo degli adolescenti verso cui lo spinge irresistibilmente il suo desiderio omoerotico, questo rifiuto e questa scelta sono insieme causa e conseguenza dell’esclusione, della discriminazione sociale, dello stigma che il poeta subisce per la sua sessualità irregolare. Ecco allora la poesia della solitudine e, insieme, dell’anelito (sia pure frustrato) ad essere, invece, accettato:
Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento.
Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.
La luna si nasconde e poi riappare
– lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare .
Ma quello che cogliamo con più evidenza da una poesia come questa – e senza l’ausilio di sofisticati apparati interpretativi, basta la nostra attenzione di lettori di poesia al ritmo, ai timbri – è un’altra cosa: è l’amore di Penna alla poesia manifestato subito dal primo verso, nel quale sentiamo l’eco esatta dell’amatissimo verso leopardiano “Dolce e chiara è la notte e senza vento”. Amore alla poesia che è la stessa cosa dell’amore alla vita, in Penna: non un frigido sostituto dell’amore alla vita, come avvertiamo in tanta poesia a lui coeva. Ecco da cosa viene la forma energica e limpidissima della poesia di Penna, la grazia che tutti i suoi lettori hanno colto come unica e irripetibile in tutto il nostro Novecento. Penna va al cuore dell‟esperienza vitale e ne mette a nudo, in ogni momento, il motore di fondo, il desiderio; e la vita, in questa visione così trasparente e radicale, coincide con il desiderio. Allora la forma pura, cristallina, innocente della poesia di Penna è, forse, la forma stessa del desiderio. Mi rendo conto che con questa affermazione sto –  indegnamente – mettendo in discussione la linea critica maestra su Penna, quella che va da Pasolini (lettore innamorato) al nostro maggiore critico della poesia novecentesca, Pier Vincenzo Mengaldo: quella che vede un processo eufemistico, o eufemizzante, nella costruzione formale poetica di Penna rispetto al contenuto. L’eufemismo è una figura retorica con cui si attenua o addolcisce un’espressione troppo cruda o realistica, e la poesia di Penna – per Pasolini – trasferirebbe “su un piano linguistico purissimo le più tremende impurità”. E Mengaldo: “si può dire che la natura totalmente trasgressiva della tematica di Penna postula assolutamente un linguaggio non trasgressivo: l’eufemismo funge contemporaneamente da mascheramento e nobilitazione dell’istinto vitale”. E così l’aspirazione – innegabile, in Penna – all’accettazione sociale si affiderebbe proprio all’eleganza formale, alla regolarità di stampo classico del suo dettato, teso – magari inconsapevolmente – a compensare e a rendere socialmente approvabile la sua infrazione della regola sociale.
E se, invece, come cercavo di dire, l’innocenza della forma alludesse proprio all’innocenza del desiderio? Del desiderio, che forse è innocente perché viene sempre “un po’ prima” della coscienza del bene e del male, è al di qua del bene e del male (e non, superomisticamente, al di là)? (Dico “forse” perché non ne sono sicuro, quello che qui esprimo è un sentimento amoroso “penniano” più che una certezza intellettuale). E in ogni caso il desiderio è quella forza che salva i poeti dall‟afasia o dalla retorica, e si potrebbe chiamarlo, nel lessico di Penna, amore (“ ‘Poeta esclusivo d’amore’, / m’hanno chiamato. E forse era vero”). E allora rimane davvero difficile scorgere per forza lo sguardo peccaminoso del pederasta, magari “nobilitato” dalla forma poetica, nella poesia che inizia con il verso “Ecco il fanciullo acquatico e felice”, la poesia che sento come una poesia-guida in ogni mia riflessione, in ogni mio ritorno a Sandro Penna. Sarà anche che la poesia, quando è vera poesia, perdura ma insieme in qualche modo cambia nel tempo, o nelle circostanze, e cambia in rapporto alla ricezione, per cui anche noi lettori contribuiamo a farla, quella poesia; sarà per questo, ma, come ho già avuto occasione di dire una volta, io, per me, in quei versi riconosco piuttosto lo sguardo pieno d‟amore di un padre che rivede il proprio figliolo che esce da un mare anche questo, come quello di Penna, “tutto fresco di colore”:
Ecco il fanciullo gravido di luce
più limpido del verso che lo dice.
Dolce stagione di silenzio e sole
e questa festa di parole in me.

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