19.10.10

Quello che mangiano (da "Il ventre di Napoli" di Matilde Serao)

Matilde Serao nel 1888
Matilde Serao (1857 – 1927), nata in Grecia da padre napoletano in esilio (un “traditore” liberale servo dei “nazisti savoiardi” – direbbe lo stupido revisionismo oggi in voga) e da madre greca, tornò a Napoli dopo l’Unità e vi visse in una dura povertà piccolo-borghese ravvivata da madre ingegnosa e colta che dava nella Napoli dell’Ottocento lezioni di lingue. Matilde fu maestra elementare, scrittrice e, soprattutto, giornalista. La sua più celebre inchiesta giornalistica è Il ventre di Napoli, pubblicata per la prima volta nel 1884, in coincidenza con un’orribile epidemia che sconvolse la città. Il libro si presenta come una sorta di petizione al presidente del Consiglio, il famigerato Depretis, e gli mostra la Napoli più nascosta quella che non può e forse non vuole vedere, che andrebbe non solo urbanisticamente “sventrata” per risanarla – come quel governo intendeva fare – ma riformata, rifatta anche nell’organizzazione economica e sociale. Riporto qui il capitolo terzo dell’ottimo libretto della giovane, coraggiosa e vulcanica scrittrice. (S.L.L.)
Maccaronari
Un giorno, un industriale napoletano ebbe un'idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava, il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse, poi andò scemando. La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana.
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È vero, infatti: la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo, di moltissima parte del popolo napoletano.
Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone, che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte.
Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l'hanno col pomidoro e con l'aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.
Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel pranzo del popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli: dallo stesso friggitore si hanno per un soldo, quattro o cinque panzarotti, vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne di carciofi, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano vi bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un'altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco bollite. Dall'oste, per un soldo, si può comperare una porzione di scapece; la scapece è fatta di zucchetti o melanzane fritte nell'olio e poi condite con aceto, pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo, in cui sta intasata, come una conserva e da cui si taglia con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l'oste vi versa sopra la scapece.
Dall'oste, sempre per un soldo, si compera la spiritosa: la spiritosa è fatta di fette di pastinache
gialle, cotte nell'acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano e peperoni. L'oste sta
sulla porta e grida: addorosa, addorosa, 'a spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba è condita in
modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più atonizzato palato meridionale.
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Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quartieri popolari, hanno una di queste osterie che installano all'aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Cotrone. Anzi tutto, quest'apparato è molto pittoresco, e dei pittori lo hanno dipinto, ed è stato da essi reso lindo e quasi elegante con l'oste che sembra un pastorello di Watteau; e nella collezione di fotografie napoletane, che gl'inglesi comprano, accanto alla monaca di casa, al ladruncolo di fazzoletti, alla famiglia di pidocchiosi, vi è anche il banco del maccaronaro. Questi maccheroni si vendono a piattelli di due e di tre soldi; e il popolo napoletano
li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie e nu tre. La porzione è piccola e il compratore litiga
con l'oste, perché vuole un po' più di sugo, un po' più di formaggio e un po' più di maccheroni.
Con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell'acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel  brodo: per due soldi l'oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline, e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l'unto caldo e bruno non coli per
terra, che vada tutto sulla mollica, perché il compratore ci tiene.
Appena ha tre soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall'oste per comperare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata.
Con quattro soldi si compone una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o un'insalata di patate cotte e di barbabietole, o un'insalata di broccoli di rape; o un'insalata di citrioli
freschi.
La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di
minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria, o tutte queste erbe insieme, la cosidetta minestra
maritata; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di
fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro.
Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, e di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta, e che si chiama efficacemente monnezzaglia: e la condisce con pomidoro e formaggio.
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Il popolo napoletano è goloso di frutta: ma non spende mai più di un soldo, alla volta. A Napoli, con un soldo si hanno sei peruzze un po' bacate, ma non importa: si ha mezzo chilo di fichi,
un po' flosci dal sole: si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano
l'aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato,
un po' fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che sono riusciti male, vale a dire biancastri.
Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi di mellone o di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e lo stomaco si gonfia, come se avesse mangiato.
La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all'occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite.

Questionario:
Carne in umido? - Il popolo napoletano non ne mangia mai.
Carne arrosto? - Qualche volta, alla domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello.
Brodo di carne? - Il popolo napoletano lo ignora.
Vino? - Alla domenica, qualche volta: l'asprino, a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi: questo tinge di azzurro la tovaglia.
Acqua! - Sempre: e cattiva.

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