2.8.15

Gli italiani malati che non riescono a curarsi (Roberta Carlini)

Pazienti in attesa della visita odontoiatrica in piazza San Francesco a Ripa,
a Roma, il 30 giugno 2015 
All’inizio era un normale mal di denti, poi è diventato un ascesso e piano piano è salito al cervello. Quando il ragazzo è arrivato in ambulatorio, non c’era quasi più niente da fare. Ascesso cerebrale, il corpo bloccato da una semiparesi. Persa la funzione della parola. È successo a Roma, che un giovane di ventisei anni sia rimasto semiparalizzato per non aver curato un mal di denti. Fosse stato italiano, il caso sarebbe esploso come emblema di malasanità. Ma Jovan Firlovic, 26 anni, è un rom. Uno dei pochissimi del suo campo – quello di via di Salone, a Roma, un grande insediamento steso tra la via Prenestina e il raccordo anulare – che ce l’aveva fatta, a finire le scuole medie e a frequentare anche due anni di istituto tecnico. Inutile, perché adesso è afasico, e immobilizzato.
Lo racconta con rabbia Lucia Ercoli, che l’ha visto arrivare, troppo tardi, nell’ambulatorio di medicina solidale di Tor Bella Monaca. Un piccolo fabbricato che sta tra la strada e il cavalcavia della ferrovia, e che da undici anni arriva dove il servizio sanitario pubblico e universale non arriva: ai margini estremi, dentro i quali la povertà non è solo il contesto ma diventa essa stessa una malattia. Classificata anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, con un codice: Z59.5, povertà estrema. “Il maggior killer al mondo”, scrive l’Oms.
“Attenzione: non la povertà come una determinante sociale della malattia, ma come malattia in sé”, ci tiene a precisare Aldo Morrone, direttore dell’Istituto mediterraneo di ematologia.
Morrone è un medico da sempre attivo nella medicina per i poveri, a Roma, soprattutto dall’avamposto del San Gallicano: l’ospedale del settecento nato a Trastevere per il giubileo di Benedetto XIII e da questi destinato a curare i pellegrini e i morbi della pelle dei poveri (lebbra, scabbia, tigna), e poi man mano specializzatosi sempre più nelle malattie infettive e dermatologiche, fino a diventare un centro di riferimento nazionale e internazionale della prevenzione e cura delle principali malattie della povertà.
Il maggior killer al mondo, e non più nel terzo mondo. Né più confinato nella periferia e nei margini. Con la crisi e l’aumento del numero dei poveri assoluti, e la parallela riduzione delle prestazioni sanitarie pubbliche, il confine tra povertà e benessere è diventato spesso confine tra malattia e salute. Ma così come è cambiata la povertà, sono cambiate anche le sue malattie.
Il primo segno della privazione, spesso, è in un incisivo che manca e non si può recuperare; un vuoto che non si può nascondere, che rende difficili le cose ordinarie della vita quotidiana
Come la pelle, i denti sono una parte esposta. Il primo segno della privazione, spesso, è in un incisivo che manca e non si può recuperare; un vuoto che non si può nascondere, che rende difficili le cose ordinarie della vita quotidiana: mangiare, socializzare, andare a prendere i figli a scuola, presentarsi a un colloquio per avere un lavoro. Ma sono la parte più esposta anche perché lasciata fuori dalle cure di un sistema sanitario pubblico che pure era stato pensato come universale e uguale per tutti. Di quello che si spende per i denti in Italia, l’odontoiatria pubblica copre solo il 5 per cento. Il resto, il 95 per cento, è a carico dei privati.
Si potrebbe pensare che in quel 5 per cento pubblico si concentrino le fasce estreme di povertà e bisogno, e che dunque siano cresciute, negli ultimi anni, le liste d’attesa. Domenico Mazzacuva, odontoiatra di uno dei pochi servizi pubblici lasciati dallo stato a presidio delle nostre bocche, racconta un’altra storia. “Adesso le liste d’attesa si sono ridotte a un mese, la gente si affaccia e se ne va”. C’è troppo da pagare, tra ticket e contribuzioni varie: vedono il preventivo e vanno via, rinviano il più possibile. Oppure si dirigono verso i pochissimi presìdi totalmente gratuiti, quelli che nascono da iniziative territoriali, a volte sperimentali, spesso in collaborazione con il volontariato, quasi sempre appoggiati a qualche chiesa.
Mazzacuva per esempio lo si trova spesso a Sant’Egidio, “l’Onu di Trastevere”, una delle comunità raggiunte dall’unità mobile di odontoiatria a domicilio dove la gente bisognosa può andare a farsi visitare e curare i denti: tutte le prestazioni di base sono gratuite, i più vulnerabili – perché hanno un reddito bassissimo, oppure perché gravati da più patologie – ricevono anche le protesi mobili. Lì hanno visto crescere, man mano, la presenza degli italiani tra i pazienti in fila: adesso sono 4 su 10, e per semplificare le procedure (ma anche per evitare problemi) a Sant’Egidio l’assistenza odontoiatrica è divisa per giorni, il martedì gli italiani e il venerdì gli stranieri.
Si trova sempre più spesso alla porta pazienti italiani anche Giuseppe Teofili, dentista che presta un pezzo della sua settimana – e un grande sforzo organizzativo – al piccolo ambulatorio dei comboniani, sempre a Roma. Una saletta minuscola, ricavata dalla sagrestia della chiesa del Buon Consiglio, a due passi dal Colosseo. La sagrestia è diventata studio medico, il corridoio stretto contiene lo schedario con le storie delle persone che arrivano e raccontano, a partire dai denti, il percorso che li ha portati lì; alla fine del corridoio, la porta d’accesso a una chiesa che non sembra tale, poiché, nei giorni feriali, è occupata da grandi tavoli e sedie, dove si insegna gratis l’italiano agli stranieri.
Per statuto i comboniani aiutano i migranti, ma come si fa a mandare via ragazzi o anziani che rischiano di perdere i denti o peggio? “Alcuni di quelli che entrano qui non hanno mai visto un dentista. La prima cosa che facciamo è consegnare uno spazzolino e un dentifricio”. Da qui comincia un’assistenza minima e gigantesca: sulla poltrona del dentista volontario si siedono quindici persone al giorno. Qui si curano persone di ottantadue diverse nazionalità. Per tutte vale la stessa regola e la stessa osservazione, che è di buon senso ma che non è bastata a modellare la sanità pubblica: “La bocca fa parte della persona, è la prima cosa che vedi. Fa male”, racconta Teofili, “vedere un giovane senza denti. Non solo dalla bocca partono tante altre malattie ma da lì comincia anche l’impossibilità di una vita normale: non trovano più lavoro, per cominciare. E aumentano le sofferenze psicologiche, profondissime”.
Anche se sono la prima cosa che si vede, è probabile che i denti siano stati anche il primo capitolo del rinvio delle spese legate alla salute, nei tempi della crisi. Il rinvio più pericoloso, quello legato alla prevenzione. Secondo l’Istat, dal 2005 al 2013 le visite dal dentista delle famiglie italiane sono diminuite del 30 per cento. Nel complesso, la spesa mensile media familiare legata alla sanità è scesa, dal 2008 al 2013, del 9 per cento. Una riduzione che ha colpito tutte le fasce di spesa delle famiglie, dalle più povere alle più ricche. Ma che, ai piani più bassi, è arrivata all’osso.
Nel decile inferiore della spesa familiare, si è passati da 29 a 20 euro al mese (in percentuale, è un calo superiore al 30 per cento); in quello più alto, da 221 a 204 (il 7,6 per cento). E con la spesa si è ridotta l’equità di accesso alle cure: lo sostiene anche l’Istat, sottolineando che nell’anno 2014 – il sesto della crisi, forse l’ultimo – un utente su dieci ha rinunciato alle cure “per motivi economici o per carenze del Servizio sanitario nazionale”.
La disuguaglianza di salute non passa solo per nazionalità, reddito, età. Ha anche un’altra determinante cruciale: il posto in cui si risiede. Molte regioni, infatti, hanno smesso di erogare i livelli minimi di assistenza per i programmi di rientro dal debito. Livelli minimi dentro i quali, nella proposta dell’attuale ministra Lorenzin, il poco che c’è di cure odontoiatriche è adesso messo in discussione.
Così, i poveri di salute sono tali non solo perché non hanno le conoscenze, i soldi e le condizioni per prevenire e per curarsi, ma anche perché restano del tutto fuori da uno stato sociale sanitario che si voleva universale. Anzi, molto spesso negli ambulatori volontari o solidali i pazienti arrivano su indicazione delle Asl o perfino del pronto soccorso, non sapendo come aiutarli altrimenti. La novità è che adesso arrivano tanti italiani. Nell’ambulatorio di medicina solidale di Tor Bella Monaca, la percentuale è 30 a 70: trenta italiani per settanta stranieri. “Da tre-quattro anni le famiglie italiane hanno cominciato a presentarsi anche alla distribuzione dei pacchi-cibo. Vengono le donne, per lo più”, raccontano.
Qui i pacchi viveri non sono solo assistenza alimentare, ma fanno parte anche di un programma sanitario: quello contro la nuova emergenza della povertà, l’eccesso di peso. Mettendo nei pacchi alimenti bilanciati, si cerca di evitare il dilagare dalla malattia americana importata in Italia con la crisi, l’obesità da cibo spazzatura. “Ci raccontano che mangiano la carne, ma comprano i wurstel da 90 centesimi l’uno, è tutto grasso. Il pesce non lo comprano proprio, né prendono frutta e verdura”: Fotini Iordanoglou (è di origine greca), nutrizionista, si occupa di questa nuova emergenza tra i bambini che arrivano nell’ambulatorio.
Nell’ultima misurazione che hanno fatto dei loro pazienti, hanno registrato quasi un terzo di bambini obesi. “Va un po’ meglio finché sono piccoli e hanno la mensa a scuola, poi però con il passare degli anni si perdono, mangiano male”. Soprattutto nell’età delle scuole medie, dove le mense sono rarissime, nella capitale d’Italia. E i grandi numeri confermano quello che risulta anche alle piccole statistiche fatte dai medici dell’ambulatorio solidale, con tutti i rapporti nazionali e internazionali che lanciano l’allarme dell’obesità dei bambini in Italia.
Ma non ci sono solo gli effetti della crisi sulla sanità e sulle sue grandezze economiche: i tagli, la riduzione della spesa fai-da-te, la scarsa informazione, le regioni sprofondate negli abissi dei debiti sanitari, le discriminazioni specifiche e odiose (impossibile per uno straniero senza permesso di soggiorno e senza contratto di lavoro avere il pediatra di base per i figli). Ci sono anche, e probabilmente sono destinati a durare di più, gli effetti della crisi sulle stesse malattie. Che fanno crescere il peso di alcune patologie, in particolare quelle psicologiche, e mettono alla prova un sistema che se ne è sempre occupato poco e male.
L’elenco dei problemi strettamente connessi con la crisi economica è sconfinato. Prima di tutto quella che comunemente si etichetta come depressione
A metà 2014 l’Istat ha pubblicato un rapporto sulla “tutela della salute e accesso alle cure”, che traccia un bilancio delle grandi tendenze dal 2005 al 2013. Viene fuori che il peggioramento relativo delle fasce più povere della popolazione non ha impedito che, in quegli anni, migliorasse nella media la salute fisica, anche grazie ai progressi nella ricerca e nelle cure. Mentre è netto il peggioramento della salute mentale: quest’ultimo diminuisce in media di 1,6 punti, si legge in quel rapporto. In particolare sono a rischio i giovani fino ai 34 anni (-2,7 punti), soprattutto maschi, e gli adulti di 45-54 anni (-2,6). E sono molto colpiti dal peggioramento degli indici di salute psicologica gli stranieri, donne e uomini.
Qui, l’elenco dei problemi strettamente connessi con la crisi economica è sconfinato. Prima di tutto quella che comunemente si etichetta come depressione, “il problema di salute mentale più diffuso e più sensibile alla crisi”. Poi nella rilevazione degli “eventi dolorosi”, i traumi esterni che spesso sono all’origine di una malattia mentale grave: sempre più spesso tra questi c’è la perdita del lavoro. E l’insicurezza, l’ansia, la paura legate a un’incertezza “cronica” sul futuro del lavoro, anche quando c’è. Nonché l’impossibilità di pagarsi le cure: con la quale fanno i conti gli stessi psicoanalisti e psicoterapeuti, che attraverso le loro associazioni o per scelte singole individuali cercano di andare incontro alle vittime della crisi (soprattutto i più giovani) ma che restano sempre fuori dalla portata dei più.
È vero che, per la generazione di “surfisti” che si è affacciata sul mercato del lavoro con il nuovo millennio, anche prima della crisi, l’insicurezza del lavoro e del reddito è una costante dell’orizzonte di vita, e rapidissimo è stato lo sviluppo delle relative abilità, per sopravvivere o anche per vivere bene. Ma sostituire un’identità e un percorso professionale individuale che svolga il ruolo del vecchio “posto di lavoro”, anche nel sostegno e suggello della propria identità sociale, non è operazione facile e alla portata di tutti: ancora una volta, divide tra i più forti e i più deboli, i più equipaggiati e i più esposti. Senza contare la mancanza della copertura per le malattie, che caratterizza la gran parte dei contratti precari.


“internazionale”, 7 LUGLIO 2015

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