1.8.16

Lavori forzati in Germania. La Mercedes low cost prodotta in prigione (Ilaria Sesana)

Riprendo da “Pagina 99” un interessante articolo sul sistema carcerario in Germania e la scheda di confronto con l'Italia che lo correda. (S.L.L.)
Qualità tedesca, prezzi cinesi. Per molte aziende le carceri sono diventate siti produttivi
Hans è l’operaio che tutti gli imprenditori sognano. Ogni mattina arriva puntuale in laboratorio, è preciso, diligente e costa poco: la sua paga oraria è di appena 2,50 euro l’ora. Quindici euro al giorno. In più, non può protestare né scioperare. Perché Hans è un detenuto.
È stato condannato a 12 anni per furto e sta scontando la sua pena nel carcere di Butzbach, nel land tedesco dell’Assia, uno degli 11 länder (su 16) in cui il lavoro per i detenuti è obbligatorio. Complessivamente su 60 mila persone recluse in Germania, circa 40 mila sono impiegate all’interno del sistema produttivo delle carceri tedesche. Gli unici esentati sono gli anziani e le persone malate.
I circa 4.500 detenuti-operai di Butzbach producono un po’ di tutto: sedie per le stazioni di polizia, banchi per le scuole e letti per i centri d’accoglienza dei richiedenti asilo. Ma anche barbecue, attrezzi da giardinaggio e griglie metalliche per aziende private. Inoltre, i detenuti sono impiegati anche nei lavori di manutenzione dell’edificio. Se poi si allarga lo sguardo all’intero Paese, la gamma dei prodotti galeotti realizzati all’interno delle prigioni federali spazia dai componenti per automobili agli elettrodomestici, fino ai pannelli solari. Tutto, orgogliosamente, “made in Germany”. Un vero e proprio sistema economico che si sviluppa fra le mura delle carceri, al cui interno si trovano veri laboratori industriali perfettamente attrezzati per i diversi tipi di produzione richiesta. Di più: ci sono penitenziari che vengono progettati ad hoc per rispondere a questo principio, come il nuovo carcere di Dusseldorf (inaugurato nel 2012) che ha un’area di circa 5 mila metri quadri dedicata alla produzione e al magazzino. Inoltre, buona parte dei penitenziari ha un’apposita sezione sul proprio sito internet in cui illustra i vantaggi per le aziende che desiderassero delocalizzare la produzione fra le mura di un istituto penitenziario. Qualcuno ha persino un e-commerce dove vendere direttamente al pubblico i prodotti “galeotti” realizzati dietro le sbarre.
Le aziende, però, sono recalcitranti nel dire esplicitamente che la loro produzione viene realizzata – in tutto o in parte – da detenuti. «Sappiamo che Volkswagen e Mercedes sono tra le aziende che producono in carcere. Ma ci sono anche Miele ed Enercon. In molti casi si tratta di subappalti con altre compagnie che contrattano direttamente con gli istituti di pena», spiega Jörg Nowak, ricercatore di Politiche sociali presso l’università di Kassel, specializzato sul lavoro penitenziario.
I bassi costi sono una delle principali motivazioni che spinge le aziende private a portare parte della loro produzione in carcere. Ma non c’è solo il fattore economico. «La qualità è decisiva», ha puntualizzato Thomas Krienke, responsabile delle risorse umane di Butzbach, in un’intervista al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung. Qualità tedesca a prezzi cinesi, insomma. Per non parlare poi delle questioni logistiche: rispetto alla delocalizzazione in Asia o nell’est Europa, la produzione in carcere permette un ulteriore risparmio sui costi di trasporto.
E se manca un dato che permetta di valutare il valore complessivo della produzione nelle carceri tedesche, il quotidiano Die Welt ha stimato che nel 2011 il giro d’affari sia stato di 30 milioni di euro nel Baden-Wuttemberg (con una media tra i 5 e i 7 mila lavoratori) e di 43,6 milioni di euro in Baviera (dove i detenuti che “prestano servizio” sono 12 mila). Il piccolo carcere di Ravensburg, che ospita poco più di 450 persone, nel 2011 ha conosciuto un giro d’affari di tre milioni di euro, con un utile netto di 500 mila euro.
La paga media oscilla attorno ai 2-2,50 euro l’ora. I detenuti hanno l’assicurazione contro gli infortuni e quella di disoccupazione, pagate dal governo. Ma nessuno versa loro i contributi previdenziali. «Negli ultimi vent’anni le carceri tedesche sono diventate veri siti produttivi che vengono gestiti secondo criteri manageriali. I tempi in cui si assemblavano biro e si incollavano insieme borse sono passati: molte attività sono basate sul cottimo e su obiettivi di produzione. Le persone producono plusvalore, non oggetti alla buona». Oliver Rast, classe 1973, ha scontato tre anni di detenzione nel carcere di Tegel a Berlino. Ed è qui, che nel 2014 ha dato vita al GG/BO (Gefangenengewerkschaft/Bundesweite Organisation), ovvero il sindacato nazionale dei lavoratori-detenuti tedeschi.
Perché, tra loro, sono sempre più numerosi quelli che hanno iniziato a protestare contro le condizioni di lavoro “cinesi” nelle carceri teutoniche. La paga oraria è infatti quattro volte inferiore rispetto al salario minimo in vigore nel Paese di Angela Merkel (8,50 euro l’ora). E, oltre alla mancanza di contributi pensionistici e previdenziali, non godono neanche del diritto di sciopero, né potrebbero organizzarsi sindacalmente, perché non sono considerati “prestatori d’opera”. Una situazione che Jörg Nowak non esita a paragonare al lavoro forzato: «Questi detenuti sono obbligati alle prestazioni lavorative per legge, a meno che non siano troppo anziani o malati. Sul piano giuridico, il rifiuto al lavoro viene considerato come un ammutinamento e come tale viene punito in maniera piuttosto severa».
Diverso il punto di vista del ministero della Giustizia. Secondo cui l’obiettivo della “piena occupazione” nelle carceri non è il profitto, quanto piuttosto offrire ai detenuti la possibilità di imparare un mestiere. In modo da agevolare il loro ritorno nella società una volta che avranno finito di scontare la pena. Ma i detenuti non sembrano essere d’accordo. Non è un caso che (dopo anni di malumori) nel maggio 2014 Oliver Rast e un altro carcerato siano riusciti a dare vita al GG/BO, che ora conta circa 800 membri in più di 40 prigioni tedesche. E dalla fine del 2015 conta anche una “succursale” in Austria. Un sindacato illegale, non riconosciuto, ma che in questi mesi ha provato ad animare diverse iniziative di protesta. E che può contare sul sostegno esterno di attivisti e ricercatori universitari. Le loro richieste sono semplici e chiare: salario minimo, versamento dei contributi previdenziali, riconoscimento formale del sindacato e diritto di riunirsi.
La prima protesta è scoppiata nel dicembre 2015 nel carcere di Butzbach. Una ventina di detenuti ha messo in atto uno sciopero della fame protrattosi per 11 giorni. Con il supporto di un altro centinaio di persone, che hanno rifiutato i pasti nel primo giorno della protesta. «Durante uno sciopero della fame il lavoro deve essere obbligatoriamente sospeso per ragioni mediche», spiega Nowak. «Qualsiasi altro tipo di astensione dal lavoro sarebbe equivalso a una rivolta e avrebbe provocato dure misure repressive». Nel marzo 2016, un secondo sciopero della fame.
Organizzare queste proteste, però, non è facile né indolore. I portavoce del GG/BO denunciano come i primi mesi di attività siano stati caratterizzati da diverse forme di repressione e ritorsione da parte delle amministrazioni penitenziarie ai danni dei leader sindacali: blocco della corrispondenza, isolamento, impossibilità di distribuire volantini e altro materiale informativo. Il segretario del sindacato, Mehmet Aykol, è stato messo di fronte a una scelta: continuare con l’attività sindacale oppure rinunciare alle misure alternative. «Jürgen Rössner, uno degli animatori della protesta dello scorso marzo a Butzbach, era stato trasferito in un altro penitenziario il 29 febbraio, il giorno precedente all’inizio della protesta, proprio perché identificato come uno dei leader», prosegue Nowak. Che aggiunge un dettaglio di non poco conto: «Il primo marzo la polizia ha compiuto un raid a casa della moglie di Rössner. Questo fatto rappresenta un’escalation delle repressione, che per la prima volta si è estesa al di fuori delle mura della prigione». C’è poi un’altra forma di pressione, molto più sottile: «Chi non lavora deve pagare le spese di mantenimento, che sono piuttosto elevate: 16 euro al giorno», spiega Marco Bras dos Santos, membro “esterno” del GG/BO.
Malgrado le difficoltà, però, il sindacato dei detenuti sta ottenendo i primi riconoscimenti istituzionali. A febbraio, lo ha fatto per primo il ministero della Giustizia della Sassonia. «Anche in altri lander la situazione sta migliorando. Mentre in altre zone abbiamo ancora molti problemi: è una situazione a macchia di leopardo», conclude dos Santos.
Hünfeld - Il carcere e le sue fabbriche
Scheda - Confronti
Come funziona in Italia. Meno occupati, più tutele.
Non lavorare stanca. Se per i detenuti tedeschi prestare un’attività lavorativa è obbligatorio in buona parte dei lander, in Italia invece è un privilegio per pochi: su un totale di 52.164 reclusi solo 15.524 (il 29,4% del totale) hanno la possibilità di non trascorrere l’intera giornata fissando le pareti della cella (dati del ministero della Giustizia al 31 dicembre 2015, ndr).
Ma cosa si fa, esattamente, nelle carceri italiane? La stragrande maggioranza è impiegata alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: 13.140 persone (l’84% del totale dei lavoranti) sono “spesini” o “scopini”, porta vitto o addetti alla manutenzione dei fabbricati dell’istituto carcerario. Mansioni semplici, poco qualificate, che spesso durano solo pochi mesi perché sottoposti a turnazione. «Un lavoro dequalificato e poco formativo, vissuto più come welfare, pur prezioso, che non come esperienza utile», spiega Alessio Scandurra dell’associazione Antigone, «Sebbene le paghe siano basse, sono impieghi ambiti, soprattutto da chi non ha nulla». Le cosiddette “mercedi” per legge non dovrebbero essere inferiori ai due terzi della retribuzione stabilita per gli altri lavoratori della stessa categoria dal contratto collettivo nazionale in vigore. Ma sono ferme alla contrattazione del 1994, anno in cui la banconota corrente era ancora la lira. Da 22 anni la commissione ministeriale incaricata non dispone adeguamenti. I lavoranti interni al carcere vengono pagati 2,50 euro l’ora: più nel dettaglio – come ricostruisce la rivista Carte Bollate – un addetto alle pulizie riceve 2,23 euro nette l’ora, un addetto alla distribuzione del vitto 2,12 euro, mentre gli “scrivani” (fortunati loro) arrivano a 2,74 euro. Un misero guadagno: le buste paga dei lavoratori a mercede non arrivano a 300 euro al mese. Di cui circa 100 vengono trattenuti dall’amministrazione per ripagare le spese di mantenimento che, per di più, dallo scorso agosto sono raddoppiate. I detenuti tedeschi, invece, sono tenuti a pagare per il proprio mantenimento (circa 16 euro al giorno) solo se non lavorano. Stanno un po’ meglio quei 2.384 italiani assunti alle dipendenze di cooperative sociali o di aziende esterne (il 15%). Le produzioni sono varie e spesso anche di alta qualità: dalla birra della cooperativa “Pausa caffè” di Torino, agli abiti e le toghe per magistrati della “Sartoria San Vittore”, passando per i panettoni della cooperativa “Giotto” di Padova al caffè delle “Lazzarelle” di Napoli. E poi i call center all’interno delle carceri di Bollate, Rebibbia e Padova cui molte amministrazioni locali hanno affidato la gestione di alcuni servizi. In questi casi «si tende a garantire ai detenuti diritti simili a quelli che hanno tutti i lavoratori nel mondo esterno», spiega Scandurra. Mentre tutti i detenuti italiani che lavorano, sia dentro che fuori dal carcere, hanno comunque diritto alla pensione e agli assegni familiari, anche quando sono impegnati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.
A separare Italia e Germania, dunque, sono due filosofie molto diverse. Da un lato un sistema (paradossalmente) garantista che equipara in larga parte i diritti dei lavoratori detenuti a quelli di tutti gli altri. Ma che non offre a tutti la possibilità di lavorare. Dall’altro il modello “separato” tedesco, in cui tutti lavorano ma dove, osserva Scandurra, «lo sforzo rieducativo è perdente: se si prende una comunità e la si isola, dando regole diverse da quello che succede nella realtà, non c’è da essere molto ottimisti sull’esito della rieducazione».


“Pagina 99”, 23 aprile 2016

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