31.7.16

Hemingway. Il nostro scrittore all'Avana (Gabriel García Márquez)


Ernest Miller Hemingway arrivò per la prima volta all'Avana nell' aprile del 1928, a bordo del piroscafo francese «Onta» che io portò da Le Havre a Cayo Hueso con una traversata di due settimane. Lo accompagnava la sua seconda moglie, Pauline Pfeiffer, che Hemingway aveva sposato solo dieci mesi prima; e né lui né lei, probabilmente, avevano altro interesse per quella città dei Caraibi che non fosse quello per uno scalo tropicale di due giorni, dopo il vasto oceano e il duro inverno di Francia. Hemingway aveva trent'anni, era stato corrispondente di giornali in Europa e autista di ambulanze durante la prima guerra mondiale, e aveva pubblicato, con un certo successo, il suo primo romanzo. Ma era ancora lontano dall'essere uno scrittore celebre; continuava ad aver bisogno di un'occupazione secondaria per mangiare e non aveva fissa dimora in nessun posto. Pauline, invece, era quel che allora si diceva una donna del bel mondo. Suo zio era un magnate nordamericano dei cosmetici, che la vezzeggiava come fosse stato suo nonno, e lei dalla vita aveva avuto tutto, compresa la bellezza siderale e l'umore instabile da moglie di Francis Macomber. Quello, però, non era il suo miglior aprile. Era incinta, annoiata dal mare, e solo desiderio, per entrambi, era arrivare al più presto a Cayo Hueso, dove avevano deciso di stabilirsi affinché Hemingway potesse terminare il suo secondo romanzo: Addio alle armi.

Quella stanza d'albergo
Di quelle quarantott'ore di Hemingway all'Avana non è rimasta traccia nella sua opera. È ben vero che nei suoi articoli giornalistici era solito fare rivelazioni molto acute sui luoghi che visitava e sulla gente che conosceva; ma, in quell' occasione, s'era imposto una vacanza dal giornalismo per consacrarsi completamente alla narrativa. Comunque, sei anni dopo, scrisse il suo primo articolo di giornalista recidivo: e si trattava di un tema cubano. Da allora in poi, sul suo soggiorno a Cuba di articoli ne scrisse una mezza dozzina, ma in nessuno ha mai fatto rivelazioni utili alla ricostruzione della sua vita privata, giacché si riferivano tutti, in generale, alla sua passione dominante di quegli anni: la pesca d'alto mare. «Questo tipo di pesca», scriveva nel 1956, «era, in passato, quel che ci portava a Cuba». La frase suggerisce che, al momento in cui fu scritta — quando ormai Hemingway viveva all'Avana da vent'anni — le ragioni della sua permanenza dovevano essere più profonde, o almeno più varie, rispetto al puro e semplice piacere di pescare.
In prossimità del bar «El Floridita» c'è l'hotel «Due mondi», dove Hemingway, ogni volta che dormiva a terra, prendeva una stanza; quando tornò dalla guerra civile spagnola finì col farne il luogo in cui scriveva stabilmente. Anni dopo, nella storica intervista con Georges Plimpton, disse: «L'hotel "Due mondi" era un buon posto per scrivere». Se si pensa alla meticolosità con cui Hemingway si sceglieva i luoghi in cui scriveva, la sua preferenza per quell'albergo può avere una sola spiegazione: senza proporselo, forse senza saperlo, si stava arrendendo ad altri incanti di Cuba, diversi, e ben più difficilmente decifrabili, che non i grossi pesci di settembre; e più importanti, per la sua anima in pena, delle quattro mura della sua stanza.
Hemingway alla Floridita con un gruppo di amici
Ciò nonostante, qualsiasi donna avesse dovuto aspettare la fine della sua giornata di scrittore per tornare ad essere la moglie di Hemingway, non avrebbe potuto sopportare quella stanza senza vita. La bella Pauline Pfeiffer lo aveva abbandonato nei suoi momenti più difficili. Ma Martha Gellhorn, che egli sposò poco dopo, trovò una soluzione intelligente: cercare una casa in cui il marito potesse scrivere quanto voleva e, nello stesso tempo, farla felice. Fu così che, sfogliando gli annunci sui giornali, trovò il bel rifugio campestre di Finca Vigìa, a poche leghe dall'Avana, che da principio prese in affitto per cento dollari al mese e che Hemingway comprò in seguito per diciottomila dollari in contanti. A molti scrittori che possiedono case in diverse parti del mondo si suole chiedere quale sia quella che considerano la loro principale residenza; e quasi tutti rispondono che è la casa in cui tengono i libri. A Finca Vigìa, Hemingway ne aveva novemila; e vi teneva anche quattro cani e trentaquattro gatti.
Visse all'Avana, complessivamente, ventidue anni. Vi passò quasi la metà della sua vita di scrittore; fu là che compose le sue opere maggiori: parte di Avere e non avere, Per chi suona la campana, Di là dal fiume e tra gli alberi, Festa mobile e Isole nella corrente; e tentò anche, innumerevoli volte, il bizzarro romanzo proustiano sull'aria, la terra e l'acqua che ebbe sempre in mente di scrivere. Sono questi, tuttavia, gli anni meno conosciuti della sua vita, e non solo perché furono quelli di maggior riserbo, ma anche perché i suoi biografi sono stati concordi nel sorvolare di essi con sospetta frettolosità.
Come fosse quell 'Hemingway segreto, fu la demanda che si fece il giovane giornalista cubano Norberto Fuentes nel giugno del 1961, quando il suo redattore capo lo mandò a Finca Vigìa per scrivere un articolo sull'uomo che la settimana prima s'era fatto saltare le cervella con un colpo di fucile al palato. La sola cosa che, in quel momento, Norberto Fuentes sapesse di Hemingway era quel poco che gli aveva raccontato suo padre, un pomeriggio che avevano incontrato lo scrittore, per caso, nell'ascensore di un albergo. In qualche occasione — quando non aveva più di dieci anni — lo aveva visto passare sul sedile posteriore di una lunga Plymouth nera e gli aveva fatto la fantastica impressione che lo stessero portando al cimitero, seduto nel carro funebre più noto nelle osterie della città. Partendo da quelle fugaci apparizioni, Norberto Fuentes si impegnò a fondo nell'immane compito di appurare come fosse l'Hemingway di Cuba, che alcuni biografi postumi sembravano interessati non solo ad occultare, ma anche a travisare. Gli sono stati necessari venti anni di meticolose indagini, di difficili interviste, di ricostruzioni apparentemente impossibili, per far riemergere Hemingway dalla memoria di cubani anonimi che ne avevano condiviso le ansie d'ogni giorno: il suo medico personale, gli equipaggi delle barche da pesca, gli amici dei combattimenti di galli, i cuochi e gli inservienti di taverne, i bevitori di rum nelle notti di baldoria a San Francisco de Paula.
Fuentes è rimasto mesi interi a setacciare i resti della vita di Hemingway a Finca Vigìa, ed è riuscito a scoprire l'impronta del suo spirito nelle lettere mai spedite, nelle minute fitte di cancellature, negli appunti a metà stesura, nel magnifico diario di navigazione in cui rrifulge tutta la luminosità del suo stile. Ha stabilito, con intuizione personale, che Hemingway s'era radicato nell'anima di Cuba molto più profondamente di quanto non supponessero i cubani del suo tempo, e che pochissimi scrittori avevano lasciato tante impronte digitali a rivelare il loro passaggio nei luoghi più impensati dell'isola.

Un invitato per volta
Il risultato finale è questo reportage sanguigno e illuminante, di circa 700 pagine, che ho appena finito di leggere nell'originale, e che ci restituisce l'Hemingway vivo e un po' fanciullesco che abbiamo creduto in molti d'intravedere fra le righe dei suoi magistrali racconti. Il nostro Herningway: un uomo turbato dall'incertezza e dalla brevità della vita, che alla sua tavola non ebbe mai più di un invitato per volta, e che riuscì, come pochi nella storia umana, a decifrare i misteri pratici dell'occupazione più solitaria del mondo.
Traduzione di Letizia Bianchi La Rocca


“la Repubblica”, 30 ottobre 1982

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