23.2.17

I giochi dello zar. Pietro il Grande: mito, tragedia, carnevalata (Cesare G. De Michelis)

Il monumento a Pietro il Grande a San Pietroburgo
Figlio di secondo letto dello zar Aleksèj Michàjlovic (il "mansuetissimo", che aveva però stroncato la rivolta capeggiata dal cosacco Sten'ka Razin), Pjotr Aleksèevic era salito al trono appena decenne, nel 1682, assieme al fratellastro Ioann, dopo una terribile sommossa di palazzo (la famosa Chovànscina, cui Modèst Mùsorgskij dedicherà una delle sue opere più famose), in cui aveva visto massacrati alcuni dei familiari più prossimi per mano degli Strelzi, le turbolente guardie di Palazzo della vecchia Moscovia. Ma il potere effettivo stava saldamente nelle mani della reggente, cioè della più anziana sorellastra di Pjotr, Sofija. Una situazione del tutto anomala nella stessa Russia secentesca, che dopo il regno dei primi tre zar della casata Romanov rischiava di precipitare in un nuovo periodo di torbidi. E giusto tre secoli or sono - tra il 1685 e il 1686 - il giovane Zar se ne stava appartato, assieme alla madre, nella tenuta di Preobrazhènskoe, tutto preso dai suoi giochi "dei soldati", assieme ad un male assortito gruppo di coetanei, che la reggente assecondava deliberatamente, rifornendoli anche di materiale bellico (il fratello giocasse pure, e se ne stesse fuori dai piedi).
Quanto poco innocui fossero quei giochi militari, se ne doveva accorgere di lì a poco la stessa Sofija, quando nell' agosto del 1689 tentò di insediarsi definitivamente sul trono, e invece - grazie anche ai reggimenti "da gioco" (costituiti non più da adolescenti, ma da giovani sui vent'anni) - si ritrovò in convento. Dopo la morte del fratellastro minorato, nel 1696, Pjotr Aleksèevic fu - e per quasi trent'anni - l'unico vero autocrate di Russia. E da una situazione prossima al tracollo istituzionale, tutta intessuta delle trame del lungo Medioevo russo, stava per sorgere la Russia moderna.
Credo che ancor oggi l'occidentale medio non si renda ben conto della profondità e della qualità della frattura provocata da Pietro il Grande nella storia russa. A ciò può aiutarlo certamente la lettura del volume di Robert K. Massie, Pietro il Grande (traduzione di Vittorio Benini, Rizzoli). Non si tratta solo del fatto che, a partire dalla vittoria di Poltava sugli svedesi (1709), la Russia entra da protagonista nella storia mondiale; o che, con l'apertura dell'algarottiana "finestra sull' Europa" - rappresentata dalla fondazione di Pietroburgo, e ancor più dall'esautoramento di Mosca come capitale - la Rus' (poi Moscovia) si sia trasformata in Rossìja; e nemmeno, ancora, del fatto che nel giro d'un decennio la vecchia nobiltà russa si sia trasformata - tra barbe tagliate e vestiti "alla tedesca" - in moderna "classe dirigente". Per dare un'idea delle trasformazioni avvenute col regno di Pietro il Grande, può essere più giusto (sebbene solo metaforico) dire che lo Stato russo abbattuto dalla rivoluzione del 1917 non era quello che affondava le sue origini nel lontano passato semiasiatico dei Gran Principi, poi Zar, di Moscovia; era invece lo Stato imperiale, "pietroburghese", delle riforme petrine.
"Devo raccogliere una grande quantità di grano", sembra dicesse Pietro, "ma non ho il mulino; e non c'è neppure abbastanza acqua per costruire un mulino ad acqua. Ma costruirò un mulino anche senza acqua, e lascerò ordini perché sia intrapresa la costruzione del canale. Questo obbligherà i miei successori a portare acqua al mulino".
Riforme di Pietro, rivoluzione d'Ottobre. In questi duecento anni s'è giocato il destino della Russia moderna, e dunque in larga misura quello del mondo moderno. C'è un episodio della biografia di Pietro che - sia pure per via di enfatizzazioni leggendarie - sembra ricollegare direttamente questi due momenti decisivi della storia russa. Il 26 giugno 1718 moriva drammaticamente, dopo una penosa reclusione inquisitoriale, il primogenito di Pietro ed erede "naturale" al trono, Aleksèj Petrovic. Debole, bigotto (e non meno alcolizzato del padre), di fronte alla scelta impostagli da Pietro (o imperiale successore - nello spirito delle riforme petrine, naturalmente -, o monaco) aveva preferito battersela ricercando protezione dagli Asburgo, prima a Vienna, poi a Napoli.
Deluso dall'atteggiamento del figlio, offeso dall'ingerenza di potenze straniere nel "suo" progetto, e soprattutto preoccupato che attorno alla figura di Alessio (pavido quanto si vuole, ma destinato a salire sul trono) si coagulassero le forze tradizionaliste ostili alla sua impresa innovativa, vale a dire il clero e la vecchia nobiltà, Pietro riuscì a costringere lo Zarevic a tornare in Russia. Interrogatori, perdoni e confessioni più o meno sincere, la camera di tortura, la condanna a morte. Poi, la fine improvvisa del figlio degenere.
Come siano andate in realtà le cose, non lo sa nessuno. Tutto sommato, si può concordare con Massie sul fatto che "quaranta colpi di nerbo sono sufficienti a uccidere un uomo robusto e sano; Alessio non era robusto, e lo shock e le ferite possono benissimo avergli causato la morte". Ma, per dirla ancora con le parole dell' autore, "in qualunque modo fosse morto Alessio, i contemporanei ritennero Pietro responsabile di questo assassinio".
Già nel secolo XVIII si diffuse in Russia una rappresentazione teatrale, anonima e popolare, nella cui trama - il terribile imperatore Massimiliano viene a sapere che suo figlio Adolfo si rifiuta di abiurare la fede cristiana e gli fa tagliare la testa - molti videro il rispecchiamento della vicenda di Pietro con Alessio. Man mano che la figura di Pietro il Grande assumeva (in poesia e nella letteratura orale) i contorni del mito, anche la vicenda dello Zarevic acquistava una sua precisa valenza mitologica, finché, nel romanzo L'Anticristo di Dmìtrij Merezhkòvskij (1905), è il padre che uccide di propria mano Alessio; il quale, durante l'interrogatorio, pronuncia una terribile profezia. "Tu sarai il primo a spargere sul patibolo il sangue di tuo figlio, il sangue degli Zar russi!", riprese lo Zarevic; e pareva che non parlasse più di sua propria volontà, le parole avevano assunto un accento profetico: "Questo sangue ricadrà di capo in capo sino all'ultimo degli Zar e tutto il nostro lignaggio perirà nel sangue. Per causa tua, Dio punirà la Russia!".
Queste parole del romanzo di Merezhkòvskij suscitarono certamente qualche fremito nella schiena dei lettori, dopo il 1905 russo: ma dopo il 1917, e ancora più dopo il massacro della famiglia imperiale a Ekaterinburg del 17 luglio 1918, esse assunsero un sapore veramente "da Cassandra". Certo, nei terribili giorni dell' arresto, dell'interrogatorio, della tortura, è ben difficile che il povero Alessio fosse in grado di pronunciare le parole che gli mette in bocca Merezhkòvskij, ma questo non toglie che la frattura provocata da Pietro nella storia russa fosse tale da ispirare situazioni fantasmatiche degne della tragedia greca.
Mito, tragedia, storia. Per certi versi, anche carnevalata. Il regno di Pietro fu tutto questo (e probabilmente anche altro). Per esempio, il lato infantile, ludico (i giochi militari) dal quale abbiamo preso le mosse, è una componente tutt'altro che secondaria nella storica impresa dello Zar. Non mi riferisco soltanto agli elementi carnevaleschi del "Concilio panubriaco", che Pietro coltivò sino ai suoi ultimi anni, con le rozze mascherate del Principe-papa, insomma con l'elemento buffonesco che nelle ore d'allegria egli sapeva sempre utilizzare ai fini del suo progetto di svecchiamento della santa Russia.
Una innovazione così radicale dei costumi (imposta con decreti seriosissimi, anche quando riprendevano aspetti fatui della vita sociale come i balli, i ricevimenti, la moda, gli spettacoli), non era possibile inventarla senza una forte motivazione, accompagnata a una carica giocosa e creativa. Ma anche dura e coercitiva. Spietata, quando era il caso, secondo i modelli della dignità dello Zar, tratti dalla tradizione moscovita.
Ora, sul piano della ricostruzione e interpretazione storiografica della figura e dell' opera di Pietro il Grande, ci si trova in una situazione difficile: da un lato, la centralità dello Zar nella storia non solo russa, ma europea e mondiale, ha generato alcune linee interpretative ormai "classiche" (che possono essere ricondotte agli estremi rappresentati, già nel XVIII secolo, dall'atteggiamento apologetico di Voltaire e da quello critico di Rousseau); dall'altro lato, il lavoro filologico di accertamento delle fonti è lungi dall'essere a tutt'oggi esaurito. L' edizione delle Carte e lettere di Pietro, iniziata nel lontano 1887, non è ancora terminata; e l'unica biografia "scientifica", quella di M.M. Bogoslavskij, si ferma al 1701. Hanno così potuto prosperare non solo i "romanzi" su Pietro il Grande (da quello di Merezhkòvskij a quello di Aleksej Tolstoj), ma le stesse biografie "storiche" (per non citare che le più note, ricorderò quelle di Waliszewski, di Oudard e di Troyat). Anche la monografia di Robert K. Massie si pone sullo stesso piano, col corollario di citazioni di secondo grado e di aneddoti difficilmente verificabili: una "storia", insomma, che consiste nella descrizione di campagne militari più frammenti di vita e di costume colti episodicamente. Tra quelle che conosciamo, questa biografia è la più "moderna", e fors'anche la più raccomandabile. Ma la storia di Pietro il Grande, e della svolta decisiva che egli seppe imporre alla Russia, attende ancora il suo storiografo.


"la Repubblica", 27 dicembre 1985  

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