20.2.17

Tintoretto. L’arte veloce del maestro della luce (Cesare De Seta)

Firenze, Galleria degli Uffizi, Tintoretto, Ritratto di Jacopo Sansovino
ROMA
Pietro Aretino, insigne scrittore e amico di pittori, ebbe rapporti difficili con Tintoretto e scrisse della "tristizia e follia" di Jacopo Robusti (1518-1594): nato a Venezia aveva preso nome dal padre tintore, nella cui bottega imparò a maneggiare tessuti preziosi, a valutare i pigmenti dei velluti, carezzando sotto la luce la tessitura marezzata delle sete. E in quella bottega cominciò a disegnare sulle pareti col carboncino. Il padre lo mandò da Tiziano e per qualche tempo ci rimase. A soli diciotto anni fu ammesso nella Fraglia dei pittori.
Così la leggenda nasce e Tintoretto, passo dopo passo, diviene, alla morte di Tiziano nel 1567, il più celebre pittore di Venezia. Ne prese il posto con il piglio, il talento, l´anticonformismo plastico e illusionistico che ne segnarono l'opera: ebbe per committenti la chiesa, la Serenissima, il patriziato veneto, i Gonzaga, i Fugger, l'imperatore Rodolfo II e Filippo II di Spagna, ma fu anche devoto delle confraternite a cominciare da quella di San Rocco di cui fu membro, e per la quale dipinse uno spettacoloso ciclo di teleri.
La mostra Tintoretto alle Scuderie del Quirinale fino al 10 giugno, (a cura di Vittorio Sgarbi), offre una rassegna in cui suonano tutti i tasti di un prodigioso talento: pittura di storia e mitologica, religiosa e profana, ritratti. Fanno corona tele di Tiziano, Schiavone, Parmigianino, Sustris, El Greco, i Veronese, i Bassano e lo scultore Vittoria.
«Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano», scrisse Carlo Ridolfi suo primo biografo, e, nella sua icasticità, l´immagine è felice: perché a Tintoretto riuscì di coniugare le scuola tosco-romana con quella veneziana. Il Miracolo dello schiavo (1547-8) che ci accoglie al primo piano, con le sue monumentali dimensioni, 4 metri per oltre 5, squaderna teatralità e drammaticità: il telero è il primo che dipinse per la Scuola Grande di San Marco. Il santo, circonfuso di luce, piomba dal cielo sullo schiavo destinato al martirio, circondato dai carnefici e da una folla di astanti in abiti sfarzosi o nudi. Le brusche torsioni dei corpi, gli avvitamenti e gli scorci sono come amalgamati nella scena in unità plastica, dove la luce gioca un ruolo essenziale nel modellare la scena, e in cui la "maniera" convive con un accentuato michelangiolismo ben evidente nel nudo in primo piano sulla destra. "La prestezza del fatto", cioè la velocità del suo pennello, stigmatizzata da Aretino, qui diventa qualità stilistica.
In Susanna e i vecchioni (1555 c.) l'eco tizianesco rintocca, l'artificio dello specchio dilata lo spazio, mentre la luce carezza le morbide forme della bionda fanciulla immersa in un paesaggio incantato: la storia, tratta dall'Antico Testamento, assume sapore profano per l´insistita sensualità della scena disseminata di mirabili dettagli in primo piano: altro che "prestezza del fatto". Un tono felicemente favolistico ha la Creazione degli animali (1550-3). Assai più numerose le storie della vita di Cristo: Jacopo, concluso il Concilio di Trento, riuscì a mediare nel suo programma iconografico tra Riforma e Controriforma, fu accorto e non incappò nell'Inquisizione, che non risparmiò invece colleghi come Paolo Veronese. In San Giorgio e il drago (1553-5) il paesaggio assume un rilievo particolare, così in Santa Maria egiziaca e Santa Maria leggente (1582-83), tele verticali.
Jacopo compone avvalendosi di maquette da scena teatrale, con le figure modellate in cera o creta. In studio si serve di modelli maschili e femminili e li mette in posa, poi li veste perché assumano le forme desiderate che gli consentano d'approdare al suo "realismo" plastico. A volte viene di pensare quanto Delacroix abbia attinto a lui e Jean-Paul Sartre, la cui monografia sul nostro è stata edita da Marinotti, l'aveva intuito.
L´influenza che Jacopo Sansovino scultore e architetto eserciterà sulle sue composizioni, è evidente nel Trafugamento del corpo di San Marco (1562-6) in cui la scena architettonica ha una valenza essenziale, e contiene il gruppo che regge il corpo inanimato del santo, ma vigoroso nelle membra michelangiolesche. A Sansovino rese omaggio nel ritratto (1565) che qui si vede. Altre volte attinge liberamente e senza inibizioni alle incisioni del trattato di Serlio, testo che faceva parte della sua biblioteca. L'Ultima cena proveniente dalla chiesa di San Polo (1574-5) restaurata, e la successiva di un decennio, di San Trovaso, sono un momento altamente significativo della mostra, per la straordinaria dinamicità delle composizioni e per il diretto confronto. È assente, hélas, quella di San Giorgio Maggiore: così come bello sarebbe stato avere accanto all'Annunciazione (1558) di Tiziano, così composta, quella di Tintoretto così drammatica, in cui l´angelo irrompe con una schiera di angeli su Maria ed essa ne è spaventata.
Tintoretto dipinse direttamente sulla tela, di qui molti pentimenti, e usa un´imprimitura scura che diviene parte della cromia della tele. Fu sommo ritrattista: malgrado il grande veggente Roberto Longhi lo sbeffeggi – anche Omero sonnecchia – i suoi autoritratti da giovane (1547) e da vecchio (1587), quello a figura intera del Venier, quelli di tre quarti di numerosi membri del patriziato veneto lo confermano. A chi gli chiedeva quali fossero i più bei colori disse: «Il bianco e il nero, perché l'uno dà forza alle figure profondando le ombre, l'altro il rilievo» (Ridolfi). Un risposta alla Malevic.


“la Repubblica” 25 febbraio 2012

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