10.2.17

Colette attrice. Dietro il sipario nascondeva le sue paure (Maria Grazia Gregori)

Colette in "La chair" (1908)
Anche la scelta del teatro è, in Colette, segno di un'ambiguità perché risponde, allo stesso tempo, all'esigenza — che le è propria — di esibirsi e al bisogno, in senso letterale, di sopravvivere. Così Colette è attrice di music hall e mima agli inizi del Novecento, prima di tutto per un atto di ribellione contro il primo marito molto amato — Henry Gauthier-Villars detto Willy — che l'ha brutalizzata in ogni modo anche psicologicamente 'rubandole' addirittura il lavoro e firmando con il suo nome i romanzi scritti da lei; e poi anche per affermare una nuova scelta sessuale che passa, questa volta, non per un uomo, ma per Lesbo.
La scelta del teatro, dunque — come quella dello scrivere, del resto —non è del tutto innocente ed è frutto del suo desiderio di mettersi in mostra. Nello stesso tempo, però, Colette prova un senso di colpa per il suo esibizionismo, malgrado la sua decisione — che è poi la sua concezione del pudore — di non rivelare mai a nessuno i suoi sentimenti più profondi. Scrive infatti: "Passano dei mesi, degli anni, durante i quali, dandomi qua e là allo spettacolo usavo del diritto di non parlare di me stessa”.
Eppure — e questo è il segno della sua creativa contraddizione — nulla come il suo essere attrice parla di lei, del suo narcisismo, della sua voluttà di scandalo.
E scandalo infatti — e narcisismo — l'aver sostituito la calzamaglia, d'obbligo nei primi mimodrammi, con il nudo autentico sotto i drappeggi. D'altra parte, però, la scelta che risponde ai dettami di quel naturalismo un po' perverso che è una delle «chiavi» di Colette non è interamente sua ma si uniforma alle pressioni esercitate dall'ambiente e dagli impresari. Sul suo talento teatrale i critici dell'epoca sono divisi: gli uomini non l'amano “ballava la pantomima — scrive uno di loro — nuda: triste esibizione”. Ma una signora del surrealismo, la grande Rachilde sostiene, al contrario, che Colette “non ballava, ma viveva il suo sogno e tramutava in natura vera la più artefatta delle visioni”.
Colette negli scandalosi abiti maschili che indossava nei primi anni del 900
Suo maestro in questi anni scapigliati vissuti pericolosamente, vicinissima al credo sessuale e al circolo esclusivo di personaggi come Nathalie Barney e Renée Vivien, è il mimo Georges Wague, emulo del grande Debureau; i suoi teatri il Moulin Rouge, la Gatte Rochechouart, il Ba-Ta-Clan; le sue colleghe le tante ragazze che con la valigetta del trucco sottobraccio e un mantello leggero sulle spalle sfidano — un po' proterve, ma generose sempre — la fame, il freddo e l'indifferenza. Ed è pensando a loro e a sé che nella Vagabonda Colette si lascia andare a una riflessione che sarebbe piaciuta anche a Genet: “A testa alta, come dei detenuti superbi, noi sopportiamo il disprezzo e il desiderio della folla in calore”. Quello che importa, allora, sta dietro alle quinte, al di là dello specchio dentro il quale guarda il pubblico e parla di passioni, di dolori e di miserie.
Anche come attrice Colette non viene mai meno alla sua fama di 'scandalosa': il 3 gennaio del 1907, in coppia con la donna che è la sua compagna anche nella vita, la marchesa di Belbeuf nata Morny detta familiarmente Missyche adora i vestiti da uomo, al Moulin Rouge recita in Sogno d'Egitto scritto dall'amica: storia di una mummia che, svegliatasi dal sonno eterno, si scioglie dalle bende e, nuda, danza i passati amori. Ma la vita d'attrice di Colette è solo un momento nella sua storia di donna: un passaggio necessario, segnato dalla trasgressione, prima di affermarsi come scrittrice e giornalista, trovare un secondo marito e trasgredire ancora, magari solo con la penna.
Dopo il secondo matrimonio con Henry de Jouvenel, infatti, il binomio Colette-teatro riguarda solo la sua attività di scrittrice anche se piuttosto marginalmente: è la riscrittura per il palcoscenico a quattro mani di un celebre romanzo, Chéri, cavallo di battaglia di più di una signora della scena europea. Un soggetto in cui c'è — ancora una volta — tutta Colette: la storia di una donna non più giovane, Lea, mondana di professione (e i modelli sono celebri: Liana De Pougy e la Bella Otero) che s'innamora e mantiene un bell'adolescente allo stesso tempo tenero e perverso al quale dà il nome di Chéri, ultimo padrone-giocattolo di una consapevole maturità resa forse meno triste nelle sue rinunce dal fatto ai potere bere la cioccolata stando a letto fra belle lenzuola ricamate. E il tema dell'adolescenza come momento della vita in cui tutto è possibile torna anche in Gigi, ridotto per le scene da Anita Laos e poi diventato un musical cinematografico, ma anche in un altro romanzo poi diventato film (regia di Autant-Lara) Il grano in erba, nato sviluppando il progetto, mai andato in porto, di un atto unico per la Comédie dove, nel buio più fitto, ad alzar di sipario, un uomo e una donna parlano, con molta maturità ed esperienza, d'amore. Salvo poi lasciare il pubblico di stucco quando, alla fine, si rende conto che lui e lei non sono che due ragazzi.
Ma anche questa nostalgia dell'adolescenza, della sua totalità inquietante e aggressiva, della sua indifferenza, della sua noia e della sua amoralità vogliono dire scandalo per Colette. E lo scandalo coinvolge sia Cheri che piace enormemente a Gide, che Il grano in erba, ma non scalfisce minimamente la consapevolezza, ormai matura, della scrittrice e, soprattutto, della donna. Così quando nel 1945 un giovane giornalista le chiede arrossendo se Chéri è esistito davvero Colette replica con assoluta tranquillità: “Ragazzo, potrei rispondervi che, sì, ho conosciuto Chéri, e più di uno, come tante altre tentazioni. A ogni donna i suoi turbamenti e il confronto con turbamenti diversi”. Ancora una volta è tutta Colette a rispondere: la 'scandalosa' come parve a molti, e il 'genio francese' come sembrò ad alcuni.



“l'Unità”, 21 settembre 1986

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