26.2.17

J'accuse. Nel caso Dreyfus una chiave per capire il nostro presente (Claudio Vercelli)

C'è qualcosa di sinistramente attuale nelle tante pagine vergate da Emile Zola ai tempi dell'Affaire Dreyfus e che ci vengono ora riproposte, in una sistemazione definitiva, dalla casa editrice La Giuntina (L'affaire Dreyfus. La verità in cammino, pp. 230, euro 9,90). La vicenda è nota al punto da non richiedere d’essere richiamata se non per sommi capi. Nel 1894 un capitano d’artiglieria francese, Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi, finisce ai lavori forzati nell’Isola del diavolo, nella Guyana francese. Solo una intensa campagna di stampa, condotta dallo stesso Zola, permette di riabilitarlo, liberandolo dai ceppi e riconsegnandolo alla società civile. La quale, a onor del vero, da subito si era rivelata poco propensa a una pacata discussione, vivacizzando invece una diatriba che spaccò in due la nazione, tra sostenitori della colpevolezza e innocentisti.
L’oggetto del contendere era costituito soprattutto dall’origine ebraica dell’imputato. In un progressivo cortocircuito della comunicazione e del giudizio, la sua radice «etnica» era stata accostata all’accusa di tradimento e di cospirazione, traslando l’una nell’altra e viceversa, in una sorta di reciprocità immediata tra appartenenza di gruppo e propensione all’infedeltà. Le tensioni franco-prussiane, e le frustrazioni maturate dal paese, non da ultima la vicenda sanguinosa della Comune del 1871, non ancora digerita a distanza di una ventina d’anni, erano deflagrate in una miscela esplosiva nel momento in cui alcuni avevano ravvisato nell’identità dell’incolpevole militare il suggello di una colpa tanto antica quanto inemendabile.
La storia, in sé tristemente banale, era così destinata a segnare un solco profondissimo, che arriva fino ad oggi. Non a caso si fa risalire ad essa la radice dell’antisemitismo contemporaneo. Poste queste premesse, in quale modo la vicenda Dreyfus ci parla ancora e, non di meno, perché? In realtà la storia che travolge l’incolpevole militare, indifferente alla sua ascendenza ebraica, è una vera e propria cassetta degli attrezzi della modernità. Ci sono tanti elementi che si sarebbero incontrati successivamente, in molte altre vicende: il ruolo della stampa e della comunicazione nell’enfatizzare e nel guidare le reazioni della collettività; il concorso degli apparati pubblici nella stigmatizzazione razziale del «reprobo», sancendo il nesso tra ebraicità e condotta deviante; l’enfasi sulla dimensione del complotto, di cui Dreyfus sarebbe stato la punta di un ben più ampio iceberg, ancora sommerso; la necessità, sostenuta a pie’ sospinto dalla destra cattolica - alla ricerca di una precisa identità politica -, di provvedere a una pulizia sistematica del «corpo nazionale», infettato dalle troppe presenze straniere; la prassi di continuo depistamento attuata dalle autorità militari e l’acquiescenza di quelle politiche.
Sul versante ideologico, ciò che viene inoculata nell’opinione pubblica è la convinzione che la nazione, in sé «sana», sia minacciata da forze tanto potenti quanto irriconoscibili. Di lì a non molto i «Protocolli dei saggi anziani di Sion», artefatto della polizia politica zarista, sarebbero intervenuti a dare sostanza a questa percezione ondivaga e incerta, trasformandola in una solida teoria, politicamente spendibile: sono gli ebrei a tirare i sottili fili del destino mondiale e la liberazione collettiva passa, obbligatoriamente, attraverso l’identificazione e la neutralizzazione dei parassiti. La storia delle sofferenze dell’umanità si emenda attraverso una nuova forma di giustizia sociale, che non è quella che implica la redistribuzione della ricchezza ma lo smascheramento dei cospiratori che stanno alle spalle della Terza Repubblica.
A una lettura ingenua il dispositivo che la vicenda Dreyfus mette in moto, e le passioni che orchestra, esacerbandole ad arte potevano sembrare appartenere alla trivialità di un passato oramai superato dalla modernità. Quest’ultima, declinata positivisticamente come progressiva evoluzione, avrebbe infatti dovuto garantire l’emancipazione degli spiriti dalla barbarie dell’inconsapevolezza e dell’ignoranza. In realtà il caso del capitano francese è tutto fuorché un vuoto di coscienza, rivelando, nella dialettica delle sue diverse parti, una intrinseca razionalità, che bene si prestava alle esigenze di una società in mutamento accelerato quale quella francese di fine secolo. E di riflesso, di quelle europee e mediterranee, non da ultime le comunità nazionali degli imperi in decadenza, dall’austroungarico all’ottomano.
In questa ottica l’affaire Dreyfuss è parte del più ampio processo di metamorfosi ideologica del nazionalismo successivo all’età romantica, dove alla formulazione dell’idea che una nazione andasse costituendosi, come nel caso dei risorgimenti, attraverso l’inclusione degli individui, si era ora sostituito il principio della definizione dei confini materiali e culturali attraverso la selezione e l’esclusione. Il fantasma dell’ebreo errante, nomade ma sempre uguale a sé, capace di contaminare le società con le quali entra in contatto, che nella pubblicistica di quegli anni prende piede, alimentandosi sia del vecchio antigiudaismo di matrice cristiana che di nuove suggestioni, ridisegna la funzione sociale dell’antisemitismo. Il quale diventa uno dei fattori nella mobilitazione collettiva e nella costruzione di identità politiche. 
Coeva alle vicende che coinvolgono Dreyfus è, ad esempio, la traiettoria di Karl Lueger, carismatico borgomastro di Menna, noto per essere stato l’ispiratore politico di Hitler. Alla questione sociale, posta dal movimento operaio e dal mondo del lavoro, sempre più prossimo al transito verso la produzione di massa, subentrava l’incapsulamento delle istanze di giustizia collettiva all’interno di una logica etnica che avrebbe conosciuto molte fortune nei decenni successivi. Qualcosa ci induce a pensare che la potenza di tale manipolazione non sia tramontata, quanto meno a giudicare dall’«antica ferocia» che si annida dietro i razzismi contemporanei, al confronto con le metamorfosi dell’economia postfordista, in un clima di «eccezione» che livella qualsiasi tentativo mediazione. La storia non si ripete ma il cliché paranoide dimostra di avere una lunga durata.

“il manifesto”, 3 gennaio 2012

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