Riprendo qui un articolo dal dossier pubblicato da "narcomafie" sulle mafie in Umbria a marzo dello scorso anno. Per l'inchiesta a cui soprattutto ci si riferisce, Quarto passo, si sta celebrando a Perugia un processo con la vigile attenzione di Libera Umbria, che si è costituita parte civile. (S.L.L.)
Teste d’agnello,
ricatti, uccisioni e sparatorie.
Camorra e ’ndrangheta non hanno
portato in Umbria
solo il fiuto per gli affari,
ma anche quei metodi
violenti
e quelle azioni eclatanti che incutono timore
Le teste mozzate di agnello lasciate davanti a casa o ai luoghi di
lavoro non sono forme di intimidazione che avvengono solo in
Calabria. Anche la “’ndrangheta 2.0”, quella imprenditoriale e
affaristica, ricorre alle minacce più cruente anche nella tranquilla
Umbria.
Gli
avvertimenti del clan. Nell’ordinanza
Quarto Passo
si trova la vicenda di Maria Grazia Monfreda, amministratrice unica
della finanziaria Loan srl. A lei si sarebbero rivolti i boss Cataldo
Ceravolo e Mario Campiso, entrambi originari di Cirò (Catanzaro),
per un prestito di 125mila euro, che sarebbero serviti per lavori
edili mai realizzati. Ma quando la Monfreda pensa di rivolgersi a un
avvocato, partono le minacce, sempre più pesanti, sempre più
incalzanti. Campiso, sempre in base a quanto riportato nelle carte,
le ricorda che «aveva dei parenti mafiosi in Calabria» o che
l’avrebbe «sotterrata»; Ceravolo, per tramite di un suo sodale,
Salvatore Facente (anche lui indagato), le fa un discorso ancora più
esplicito: «Ricordati bene che se piangono i figli miei piangeranno
anche i figli degli altri perché dal carcere prima o poi si esce».
Monfreda è poi vittima anche di pesanti intimidazioni: un giorno
trova davanti la porta del suo ufficio una testa mozzata di agnello.
Un chiaro segnale lanciato a lei e alla sua famiglia, ribadito dallo
stesso Ceravolo in un’altra intercettazione del 2013: «Che cazzo
me ne frega di loro a me. Adesso ammazzo tutti!».
Il modus operandi è esattamente quello della tradizione
mafiosa, anche a Perugia. Così, se decidi di non accettare la
protezione malavitosa, se provi a resistere, la ’ndrangheta alza il
livello dello scontro. Per esempio dando alle fiamme il tuo
capannone, come accaduto all’imprenditore edile Salvatore Virecci.
È il 9 settembre 2012, quando il suo deposito in Via Alessandro
Volta, a Ponte San Giovanni, viene incendiato. Come si legge ancora
negli atti processuali, «le attività intercettive già in corso nei
confronti degli appartenenti al sodalizio, consentivano di
evidenziare che Campiso Mario, Ceravolo Cataldo, Paletta Natalino e
Lombardo Antonio stavano recapitando a imprenditori perugini» vere e
proprie «imbasciate, anche per il tramite di terze persone». Ma qui
la vicenda è ancora più complessa: l’incendio, secondo quanto
ricostruito dagli inquirenti, non segue una richiesta di estorsione,
ma la anticipa. Un avvertimento preventivo. Puntuale, infatti, tre
giorni dopo, il 12 settembre, ancora loro, Salvatore Facente e
Cataldo Ceravolo, mandano a Virecci un’imbasciata. E a parlargli va
ancora lei, Maria Grazia Monfreda, costretta dal sodalizio mafioso.
Il discorso della Monfreda è chiaro: «Devi stare attento perché
potrebbero venire anche nel cantiere di Balanzano (un altro cantiere,
più grande, di proprietà di Virecci, ndr) e provocarti qualcosa di
più grosso», le sue parole. Ma non solo. La Monfreda fa anche un
nome per la protezione. Quello di Ceravolo. Non stupisce, allora, che
secondo quanto emerso dalle ultime operazioni delle forze
dell’ordine, esista anche un vero e proprio listino prezzi per gli
atti intimidatori: spezzare le gambe o appiccare un incendio può
arrivare a costare anche 7 o 8 mila euro.
Morire di mafia. È il 28 maggio 2005 quando Roberto
Provenzano, piccolo imprenditore edile del perugino, viene freddato.
Quella sera compra un dolce in una pasticceria di Ponte Felcino,
rientra in casa intorno alle 19 e lo mette in frigo. Per cena prepara
un piatto di pasta al sugo, non esce di casa. Forse qualcuno bussa
alla sua porta, lui apre. Va in bagno a sciacquarsi il viso. Il suo
assassino a quel punto gli spara un solo colpo alla tempia, mentre
l’acqua del rubinetto ancora scorre. Provenzano muore così. Per
debiti di droga, si dirà. Per la morte dell’uomo originario di
Maida, della provincia di Catanzaro - il quale, secondo gli
inquirenti, era anche invischiato nel reclutamento di manodopera in
nero per alcune aziende del perugino - non è mai stato trovato
l’esecutore materiale. Ma oggi, dalle ultime indagini portate
avanti dal Ros, scopriamo qualche tassello in più. Un tassello
determinante, che individua i mandanti in Salvatore Papaianni e
Vincenzo Bartolo, boss calabresi, originari anch’essi di Cirò,
appartenenti alla famiglia dei Farao-Marincola, che agli inizi del
2000 comandavano il commercio di droga. Secondo quanto ricostruito
dagli inquirenti, Provenzano avrebbe commesso uno “sgarro” nei
confronti di un altro boss della mala, Giuseppe Affatato. «L’omicidio
- si legge nelle dichiarazioni - era stato necessario per dei
problemi legati ad una partita di stupefacente». L’imprenditore
sarebbe stato punito per essersi impossessato di una partita di
droga, senza poi restituire il ricavato. Affatato, a quel punto, si
sarebbe rivolto a Papaianni e a Bartolo che avrebbero deciso per la
morte dell’imprenditore, pedinato per intere settimane da un altro
affiliato, Platon Guasi. Proprio Guasi, come rivela
un’intercettazione ambientale, qualche giorno prima dell’omicidio,
parla con Gregorio Procopio, ritenuto per anni l’esecutore
materiale dell’assassinio, prima dell’assoluzione definitiva in
Cassazione. Ebbene, Procopio dice a Platon: «Basta che vieni tu
però. Tu solo vieni perché se mi dice certe cose mi dispiace
spararlo. Ci sei tu sparo, ma se non vieni tu no».
Il
“clan degli ex pentiti". Quello
di Provenzano, però, non è l’unico omicidio dai contorni poco
chiari avvenuto in territorio umbro. Passano due anni e il 28
settembre
2007, è la volta di Salvatore Conte, pregiudicato napoletano. L’uomo
è a cena con amici e l’ex compagna. «La sera prima della
scomparsa di Salvatore presso la nostra abitazione di San Sisto (un
quartiere di Perugia, ndr) -racconterà la donna davanti agli
inquirenti qualche mese dopo - abbiamo avuto a cena degli amici di
Salvatore: tale Fausto (Lipari, esponente del clan di Casal di
Principe, finito in manette nel 1998 nell’ambito dell’operazione
Spartacus, ndr), i suoi figli e la loro baby sitter [...] Durante la
cena arrivava un poliziotto vestito in borghese che consegnava a
Salvatore un foglio relativo a un processo che lui aveva a Caserta il
2 ottobre». Perché un poliziotto era andato a casa di Conte?
Salvatore era un pentito, ex affiliato al clan camorristico dei
Torre. O, meglio, un falso pentito. Conte, insieme ad altri ex
(falsi) collaboratori di giustizia, aveva creato un nuovo sodalizio
criminale attivo in quegli anni in Umbria e noto come il “clan
degli ex pentiti”, molto vicino ai casalesi. Parliamo di Salvatore
Roberto Menzo, Paolo Carpisassi, Marcello Russo. Sono stati proprio
loro - Menzo, Carpisassi e Russo - a organizzare il rapimento e
l’uccisione di Conte. Ma lo si saprà solo mesi dopo, quando il
corpo verrà ritrovato, nel novembre 2007, in un terreno dei boschi
eugubini. Menzo, sostiene la magistratura, fu il mandante
dell’assassinio eseguito materialmente da Paolo Carpisassi
(condannato in via definitiva alla pena di 15 anni e 8 mesi) e
Marcello Russo (trovato cadavere nel carcere lombardo di Voghera nel
2010) con la complicità di Silvano Benemio (2 anni e 4 mesi) e Luigi
Ceccarelli (2 anni e 8 mesi).
Da quanto emerso, Conte sarebbe stato attirato in un terreno nella
zona di Castel del Piano, dove il clan aveva manifestato l’intenzione
di aprire una clinica privata con l’appoggio di un medico perugino.
Qui fu ucciso e sepolto nei boschi di Gubbio, dove venne ritrovato,
come detto, due mesi dopo. Perché i suoi ex sodali avevano deciso di
eliminarlo? La risposta l’ha data il gip del Tribunale di Perugia,
Carla Giangamboni, nell’ordinanza di custodia cautelare del giugno
2010: «L’omicidio di Salvatore Conte [...] ispirato da Salvatore
Menzo e materialmente commesso da Marcello Russo, a sua volta
deceduto era stato deciso allorché il Conte, forte consumatore di
cocaina, era divenuto inaffidabile e conseguentemente pericoloso».
Peraltro Menzo, condannato a riguardo in primo grado a 18 anni e sei
mesi di carcere, soltanto pochi mesi fa è tornato agli onori della
cronaca: uscito per decorrenza dei termini di custodia cautelare in
attesa del processo d’appello, si era trasferito in provincia di
Siena. In realtà stava pianificando la fuga in Belize, prima che
venisse scoperto e rinchiuso in carcere.
Armati fino ai denti. Il quadro delineato finora vede camorra
e ’ndrangheta godere di una presenza stabile in territorio umbro,
sia come “filiali" (nel caso della camorra) sia come gruppo
autoctono (come nel caso ’ndranghetistico). Certo è che in regione
hanno importato non solo affari, ma anche metodi. Non è un caso che
un altro capitolo importante del giro d’affari illecito è
costituito dal traffico d’armi. Restiamo ancora sul clan degli ex
pentiti. Dalle carte dell’inchiesta, colpisce la tranquillità con
cui si andava in giro armati: «Eh, Carlo! Io ho le cose addosso...
Forse non hai capito? C’ho kalashnikov... pistole... Che devo
venire al ristorante così?». A parlare sono Marcello Russo e Carlo
Contini. I due devono vedersi in una pizzeria di Ponte San Giovanni.
Contini, però, suggerisce a Russo di posare le armi. «Allora sto
lasciando a lui (qualcuno che era nella sua macchina, ndr) per venire
pulito da te... No, ma non.. tutto a posto, già lasciato tutto
fuori... hai capito? E che so scemo... al ristorante? Che vengo da te
vestito?». A rendere l’idea di quanto il clima fosse costantemente
caldo, è un altro episodio, raccontato in un interrogatorio del 2008
da Paolo Carpisassi: «Ricordo che una sera alla fine di giugno -
inizi di luglio 2007 avevo appuntamento al distributore Ip di via
Piccolpasso a Perugia con Fausto Lipari (di cui già abbiamo parlato,
ndr) in quanto dovevamo parlare di affari. Nell’occasione notai che
il Lipari era in compagnia di due persone che parlavano con accento
campano. Dai discorsi e dalle telefonate effettuate dai tre capii che
i due campani vantavano un credito nei confronti di un conoscente del
Lipari e che quest’ultimo si doveva attivare per il pagamento».
Questa persona era proprio Salvatore Conte e i debiti contratti erano
per una partita di cocaina non onorata. Tanto che, racconta ancora
Carpisassi, «il Conte mi chiese di trovare un posto idoneo
all’aperto dove poter incontrare i signori che io avevo casualmente
conosciuto. Il luogo doveva essere abbastanza isolato qualora vi
fosse stata necessità di un conflitto a fuoco. Non trovai alcun
luogo e l’incontro avvenne a casa di Conte. Nella circostanza,
Conte fece armare sia me che Marcello Russo. Io avevo una pisola
calibro 22, mentre il Russo aveva una pistola calibro 7,65». E fu,
probabilmente, solo un caso che l’incontro non si trasformò in
tragedia. Grande disponibilità di armi, dunque. Tanto per la camorra
quanto (e forse più) per la ’ndrangheta. Con la conseguenza
paradossale che il traffico di armi perugino è utile anche per
rifornire la Calabria. A gestire il commercio sono soprattutto gli
albanesi. Nell’inchiesta Quarto Passo c’è un intero
capitolo sulla disponibilità di armi in mano ai clan. In
un’intercettazione è il cirotano Vincenzo Martino ad affermare di
avere nella sua disponibilità (e in quella dell’organizzazione)
numerose armi da fuoco e munizioni. E la trattativa di acquisto
veniva intavolata sempre con il “capo” degli albanesi, Ervis
Lyte, per l’enorme possibilità di acquisto che offriva («...se tu
vieni a casa mia...vieni a casa mia..., tu non sai...tutte
armi...cioè... pistole così...armi dal...dalla... dalla penna, alle
pistole...e fino ammitragliera quella che c’hanno...»). Non solo
pistole o fucili. Ma anche lo sniper o la TT-33 Tokarev, arma da
guerra prodotta nell’ex Unione Sovietica e oggi disponibile solo in
Albania e Russia. Tutte armi utili e indispensabili per la
’ndrangheta. Soprattutto in Calabria, come detto. Martino lo dice
chiaramente: «servono veramente giù, giù mi servono veramente».
“narcomafie”, marzo/aprile 2016
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