Maria Corti |
Ogni buona indagine
filologica ha l’andamento di una indagine poliziesca: si tratta,
per un gioco di congetture, di costruire una storia che dia ragione
di tanti indizi sparsi, altrimenti inspiegabili. In questi ultimi
anni si stanno infittendo gli studi che pongono in rapporto le
diagnosi mediche, le ricerche filologiche e storiografiche, le
attribuzioni degli esperti d’arte, le teorie filosofiche del sapere
ipotetico-deduttivo, e i metodi di Sherlook Holmes (ed è anzi in
preparazione in America una antologia di questi studi). Ora le cento
pagine di questo Dante a un nuovo crocevia di Maria Corti
potrebbero essere lette proprio come una indagine svolta da questa
Miss Marple della semiologia letteraria. Ci vuole ovviamente un
lettore non distratto, capace di seguire il suo gioco erudito, che
per l’appunto viene a inaugurare una nuova collana di studi della
Società Dantesca Italiana.
La storia incomincia nel
paradiso terrestre, e ne parla Dante nel suo De vulgari
eloquentia, trattatello letto da moltissimi, ma che a quanto pare
riserva ancora delle sorprese a chi voglia leggerlo ancora alla luce
degli studi più recenti di storia della linguistica. In verità non
è mai stato chiaro, in tutta la tradizione scritturale, se Dio abbia
consegnato ad Adamo una lingua bella e fatta (l’ebraico, che poi ai
tempi della torre di Babele si frantuma nella pluralità delle lingue
umane), o se sia Adamo di sua iniziativa a dare nomi alle cose
(inventando l’ebraico).
Ma se fosse così, e
visto che per inventare una lingua, come osservavano i padri della
Chiesa, ci vuole un bel po’ di tempo, come parlava intanto Dio ad
Adamo?
Ricordiamo che, dopo
Dante, e almeno sino al Seicento e oltre, molti studiosi si
interrogano sulla lingua ’’adamica”, e propongono lingue
artificiali che ne ricostruiscano di modello universale. E in fin dei
conti, gli utopisti dei vari esperanti, gli studiosi di semantiche
formali, i logici di tradizione leibniziana, i grammatici generativi
alla Chomsky, e persino gli operatori di linguaggi per computer,
inseguono ancora lo stesso sogno. E lo stesso sogno inseguivano i
’’modisti” medievali, i quali avevano scelto il latino (mentre
ormai già trionfavano i volgari) come modello per una grammatica
universale che (essi pensavano) doveva funzionare in modo uguale, in
profondo, in tutte e per tutte le lingue.
Rileggendo il testo
dantesco, la Corti mostra che Dio nel paradiso terrestre non dà ad
Adamo una lingua bella e fatta, ma le forme innate e universali che
presiedono al funzionamento di ogni lingua, e una capacità di
stabilire nomi in accordo con le cose. Capacità che si perde con la
confusione babelica. Ora, il progetto di ricuperare queste forme
universali era proprio dei ’’modisti” i quali, ci ricorda Maria
Corti, erano tutti legati alla tradizione averroistica, e la ragione
è semplice: per pensare una forma universale di tutte le lingue (e
cercare di ricostruirla) occorre ritenere che l’intelletto
’'possibile” non sia individuale ma comune a tutti gli uomini.
Eresia averroistica, appunto, o aristotelismo radicale, condannato
ferocemente alla fine del Duecento, e di cui si rende colpevole quel
Sigieri di Brabante che, perseguitato dalle autorità ecclesiastiche
e morto malamente, viene da Dante (guarda caso) messo in Paradiso.
Maria Corti mostra,
documenti alla mano, che a Bologna, dove Dante presumibilmente scrive
il De vulgari, fioriva una scuola di modisti averroisti, e che
il De vulgari cita ad ogni passo, con evidentissimi calchi
linguistici, i testi dei modisti. Ma a questo punto l'inchiesta va al
di là del De vulgari e investe le altre opere di Dante. Dio
non parla ad Adamo nella lingua ebraica, che Adamo deve ancora
inventare: gli parla attraverso gli eventi naturali. Salvo che i
mistici vittorini vedono in questo parlare per sostanze concrete una
allegoria di quel linguaggio ’’estatico” mediante il quale la
divinità comunica col mistico. Dante, gran lettore dei vittorini,
cerca di ricuperare col suo ’’volgare illustre” un linguaggio
poetico che «liberi la lingua dai grumi contingenti e ricuperi il
fantasma di una purezza poetica universale, dove rinasce il rapporto
di necessità e ’’consequentia” tra le ”res” e i ’’nomina”
che c’era alla creazione del mondo». Ma nel far questo Dante si
incontra con un’altra tradizione bolognese, questa volta quella
giuridica dei glossatori; i quali da un lato sono tra i primi a
parlare di quelli che chiameremmo oggi i ’’codici” linguistici,
come produzione sociale variabile nel tempo e nello spazio (di cui
parla a lungo anche il De vulgari), ma dall’altro insistono
su un concetto che Dante cita a più riprese, quello che le parole
debbono essere la conseguenza delle cose. Dante coglie questa idea e
la porta molto al di là delle intenzioni dei glossatori, in armonia
con le suggestioni che riceveva dai mistici della scuola di San
Vittore. E Maria Corti la ricostruisce, come scheletro occulto del
lungo viaggio dantesco attraverso i problemi del linguaggio: nel
paradiso terrestre Dio parlava ad Adamo in una lingua naturale e
universale; con la confusione posi-babelica le lingue naturali non
sono più universali; i modisti lavorano a ricostruire una lingua di
nuovo universale ma non naturale; infine, i poeti del volgare
illustre debbono tendere a ricreare una lingua, capace di significate
ciò che Amore detta dentro, di nuovo naturale (come ogni volgare) ma
universale, retta, da leggi di necessità poetica, in armonia con le
cose, ritrovando una situazione di armonia edenica.
Così gli elementi
apparentemente sconnessi di una serie di storie culturali si
compongono, in questa come in ogni indagine riuscita, in un’unica
storia che restituisce un senso al tutto. Con eleganza e facilità,
quasi che Agatha Conan Corti ci dicesse, con un bel sorriso:
«Elementare, caro Watson».
"L'Espresso", ritaglio senza data, ma 1981
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