Federico Bertoni |
«Realtà è una delle
poche parole che non hanno nessun senso senza le virgolette». Lo
afferma provocatoriamente Nabokov e ce lo ricorda Federico Bertoni in
un libro di alto e convincente profilo teorico: Realismo e
letteratura Una storia possibile (Einaudi «Pbe»). Se «realtà»
è parola polisemica, la valenza semantica di «realismo» lo è a
tal punto da compendiare l'intero arco evolutivo della letteratura
occidentale. «Una parola sfortunata» l'ha definita Thomas Hardy, e
tuttavia indispensabile se con essa in un modo o nell'altro hanno
finito per fare i conti tutti i romanzieri moderni e tutti i critici
che si sono applicati all'identificazione dei meccanismi che
governano il rapporto tra realtà e finzione, tra letteratura e
mondo. Come dire che di letteratura non si può parlare senza
considerare, esplicitamente o sotto traccia, il rapporto che la
scrittura - ma nemmeno l'oralità letteraria si sottrae a questo
destino - intrattiene con la realtà, comunque la si voglia
intendere.
Attento alla portata
critico-letteraria e insieme euristica della nozione di realismo,
Bertoni esplora minuziosamente i differenti campi semantici a essa
correlati a partire dalle due matrici originarie della riflessione
teorica sulla letteratura: quella platonica e quella aristotelica. Se
Platone nella Repubblica ci invita a prendere uno specchio e a farlo
«girare da ogni lato» per riprodurre in pochi istanti il mondo che
ci circonda, «il sole e gli astri celesti» e poi la Terra e noi
stessi e gli altri esseri viventi - e mostrarci così che si tratta
di «oggetti apparenti, ma senza effettiva realtà», Aristotele ci
dice che le imitazioni del poeta soni, rispetto alle narrazioni degli
storici, «di maggiore fondamento teorico». In questa polarità fra
effimera apparenza e verità filosofica sta già tutta iscritta la
natura ossimorica del realismo: il cui progenitore semantico è il
concetto di verosimiglianza, nella lunga filogenesi che si diparte
dalla Poetica di Aristotele, passa attraverso l'Ars poetica
oraziana, per poi riemergere con forza tra Umanesimo e Rinascimento e
occupare saldamente da lì in avanti la scena delle discussioni
teorico-poetiche fino alla fine del Settecento.
Ma, come dimostra assai
bene Bertoni, la morte del precetto dell'imitatio naturae e
della sua declinazione classicistica - l'imitatio antiquorum
-, se segna la fine di un'epoca non per questo decreta la scomparsa
dell'antica disputa circa lo statuto di verità della letteratura. Al
contrario, la comparsa dei nuovi generi letterari, in primo luogo il
'romanzo moderno', non farà che rinfocolare la discussione intorno
al rapporto tra scrittura letteraria e realtà. Sarà proprio quella
che Henry James chiamava «favola senza regole» a riportare in primo
piano l'eterna questione se la finzione poetica sia verità o
menzogna. Se cioè il mimetismo esasperato del dettaglio,
l'esplorazione del quotidiano, la lunga galleria di antieroi che
popolano le narrazioni moderne a partire da quel campione
insoddisfatto della «classe media» che è Robinson Crusoe
fino all'Uomo senza qualità di Musil, debbano essere
considerati una resa senza condizioni del «poeta» allo «storico»
o non siano viceversa metamorfosi dell'eterna finzione poetica. In
breve: se mimesis e poiesis siano due facce della
stessa medaglia, come riteneva Aristotele, e come, ancora
recentemente è stato ribadito da Ricoeur, o viceversa due attività
antitetiche.
«Aggrappato alla realtà»
(Gide) o invenzione di un mondo possibile (Leibniz), il romanzo ha
avuto certamente il merito di illuminare l'ambiguità costitutiva di
ogni creazione letteraria, quella di essere a un tempo artificio
poetico e traduzione linguistica del mondo in cui viviamo.
Un'ambiguità già insita nella nozione stessa di segno che, come
spiega Bertoni, «per sua natura sprigiona ... due istanze opposte e
compresenti (centrifuga e centripeta, transitiva e intransitiva,
estensionale e intenzionale)», determinando la duplicità semantica
del termine rappresentare, che significa tanto rappresentare qualcosa
quanto rappresentarsi, mostrare l'atto della rappresentazione. La
«conquista letteraria del quotidiano», come l'ha definita Auerbach,
ha rimesso radicalmente in gioco l'equilibrio faticosamente raggiunto
tra mimesis e poiesis sancito dalle poetiche normative
del classicismo. Dal momento in cui il tema profano dell'amore ha
sostituito l'altezza eroica della poesia epica, e i «nuovi
cavalieri» di cui parla Hegel nell'Estetica hanno iniziato «a
scontrarsi con il corso del mondo», il connubio s'è sciolto per
sempre e all'esemplarità ideale dell'eroe si è sostituito un homo
fictus spesso enigmatico e indecifrabile, indifeso e precario,
assillato dal dubbi e preoccupato di dare un senso alla sua vita. È
certo tuttavia che la missione innovativa del romanzo, rivendicata
spesso con enfasi dai romanzieri del Settecento - si pensi alla «new
province of writing» di Fielding - si appoggiava sulla convinzione
che imitare la natura significasse non tanto riprodurre minutamente
gli elementi del reale ma saper leggere le «connessioni nascoste»
su cui si regge l'edificio del mondo. Il cambiamento di rotta operato
dal novel e in particolare da quella sua declinazione tedesca
che è il Bildungsroman, comporterà una cruciale trasformazione
semantica del principio dell'imitatio in letteratura, ma
certamente non il suo congedo. «Se il tanto celebrato principio
mimetico - raccomanderà nel 1774 von Blanckenburg ai nuovi
romanzieri - ha qualche significato non può che essere questo: nella
connessione e nella disposizione delle vostre opere procedete così
come procede la natura nell'istituire ordine e connessioni».
È difficile non essere
d'accordo con Bertoni quando dichiara che «il problema del realismo
è destinato a rimanere insoluto finché viene impostato in termini
dicotomici (soggetto vs oggetto, autore vs mondo,
linguaggio vs realtà)»; però è discutibile l'idea che
dall'impasse si sia usciti grazie alla leibniziana «ontologia dei
mondi possibili», che avrebbe reso possibile «una concezione
dell'opera letteraria come alter mundus, non più 'specchio
della natura' ma 'seconda
natura' creata
dall'artista». Semmai la vera sfida, incorporata nella galleria di
narrazioni romanzesche che si dirama a partire dal secolo dei lumi,
sarà quella di vedere il possibile nella natura, nella storia, nella
società e nella precaria costituzione dei tanti soggetti empirici,
eroi loro malgrado di una comédie humaine sideralmente distante da
quella «stirpe di titani» che popolava secondo Schelling le
tragedie greche.
La «storia possibile»
del rapporto tra realismo e letteratura brillantemente tracciata da
Bertoni dimostra come le prove narrative più convincenti e durature
- dal Don Chisciotte agli Elisir del diavolo
(Hoffmann), fino alle Città
invisibili di Calvino e a Underworld di
DeLillo - siano tutte, con gradazioni diverse, costruzioni insieme
realistiche e antirealistiche, ossia dispositivi in grado di condurre
«al punto di rottura tutte le contraddizioni racchiuse in questa
sfuggente, polimorfa, accanitamente fraintesa categoria critica, il
cui significato sembra diluirsi con velocità pari alla sua
travolgente espansione». Nel gioco delle prospettive incrociate in
cui il reale viene osservato dalla distanza ironica della finzione, e
la finzione nell'ottica della socratica «sostanza delle cose», si
libera quell'energia che illumina la contingenza ambigua del mondo
della vita.
Da ultimo un'osservazione
sulla logica costruttiva del saggio. L'autore lo definisce un
«viaggio articolato in tre tappe»: se la prima disegna la mappa
teorica della questione, la seconda è una traiettoria diacronica
attraverso la storia letteraria passata, del romanzo europeo in
particolare, arricchita di campioni esegetici esemplificativi degli
assunti teorici, mentre la terza è un tentativo di lettura del
contemporaneo. Ne risulta un lavoro storico-sistematico, come si
sarebbe detto un tempo, felicemente affrancato da ipoteche
storicistiche e proprio perciò in grado di intensificare lo sguardo
sul presente e sul futuro della letteratura.
“alias il manifesto”, 24 febbraio 2007
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