Dag Hammarskjòld |
L'Onu è nata da una
scelta ideologica ma è stata poi affidata alla politica e, per la
gestione, a una burocrazia internazionale. Gli anni del segretariato
di Dag Hammarskjòld, fra il 1953 e il 1961, con un idealista alla
testa della macchina, furono il momento della verità sulla
possibilità di far coincidere l’idealità con la pratica. È
probabile che il fallimento dell’opera di Hammarskjòld sancito
brutalmente dalla sua morte in circostanze che hanno sollevato più
di un dubbio, abbia posto fine all’obiettivo di fare delle Nazioni
Unite l’organizzazione dei piccoli paesi in lotta contro i soprusi
dei Grandi perseguendo principi come la neutralità, la non-violenza
e l’impegno.
Il libro di Susanna
Pesenti (Dag Hammarskjold. La pace possibile, Francesco
Brioschi Editore 2011), bello e sentito anche se non realizza a fondo
le sue potenzialità per una carenza di metodo (fonti non sempre
rivelate, nessun indice analitico, niente bibliografia), trova la sua
chiave più efficace proprio nel tentativo di definire come
l’intellettuale e politico svedese si sia caricato sulle spalle un
compito impossibile in un mondo segnato dall’interdipendenza ma
sovrastato dalla minaccia nucleare. Il fatto che tutte le potenze,
per motivi diversi, gli si siano rivoltate contro (anche Kennedy
trovò il modo di far sapere che era fuori di sé per non essere
stato consultato sull’intenzione di muovere decisamente contro la
secessione del Katanga) potrebbe essere una conferma della sua
imparzialità e buona fede ma non nasconde del tutto gli errori
commessi in un eccesso di solitudine e forse di egocentrismo. La
pagina nerissima dell’impotenza dell’Onu davanti
all’approssimarsi della morte di Patrice Lumumba non poteva certo
essere riscattata dal coraggio fisico al limite dell’incoscienza
con cui, preferendo la segretezza alla sicurezza Hammarskjòld si
buttò nell’impresa di convincere Tshombe a rientrare nei ranghi
aggirando i grandi interessi del sistema di potere occidentale
variamente inteso.
Il Congo fu il momento
atteso da Hammarskjold per conferire all’Onu una missione che
andasse oltre il patteggiamento sterile fra le potenze detentrici del
diritto di veto al Consiglio di sicurezza D’altra parte, il veto
era stato l’ancoraggio «realistico» per compensare il troppo
«idealismo» che ci poteva essere nell’idea di un «unico mondo»
cara a Roosevelt. L’equivoco fu di pensare che il Terzo mondo fosse
meno conflittuale dell’Europa, teatro deputato della guerra fredda.
L’Africa rappresentava il domani e proprio nel domani - ormai
lontani al clima pur contrastato della coalizione che aveva vinto la
guerra - c’era da aspettarsi che la rivalità fra Usa e Urss e
ancora di più fra i due diversi modelli di mondo, non più unico né
unito, si evidenziasse senza esclusioni di colpi. Nelle aree
ex-coloniali i punti fissi erano più labili e c’era dunque ampio
spazio di manovra anticipando l’avversario. Dopo tutto l’Africa
usciva dalla sfera di giurisdizione delle potenze coloniali e del
capitalismo e l’Occidente credeva di avere il diritto di
«difenderla».
Nel Congo non ci si fermò
davanti a nulla. L’Urss dovette rinviare di quindici anni (l’Angola
come rivincita della sconfitta in Congo) il suo progetto di metter
piede in Africa. Nell’attivismo di Hammarskjòld non si distingueva
più il personale dal pubblico. Scrive Pesenti: «Dal 30 giugno 1960
al 18 settembre 1961 gli avvenimenti politici si intrecciano con la
biografia privata a un ritmo crescente di complessità e gravità,
fino alla tragedia finale».
Hammarskjòld sapeva che
l’Onu era una sede per la negoziazione e nello stesso tempo un
organo esecutivo con il dovere di agire. Fu per le sue intuizioni che
vennero delineate le prime operazioni di «pace», adottando formule
attente a non scontrarsi con la linea di tensione Est-Ovest. Prima
l’Unef per dividere Egitto e Israele dopo la guerra di Suez e
quindi il Congo per rimediare alla secessione del Katanga. Tutto il
suo impegno fu sempre rivolto a rinforzare il traballante prestigio
dell’Onu. Da questo punto vista il clou fu il viaggio a Pechino nel
1955, senza nessuna rete di protezione, per sbloccare il caso dei
prigionieri americani della guerra di Corea. Il fine supremo dell’Onu
doveva essere: fissare una «presenza».
"il manifesto", 6 gennaio 2012
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