Molti medicinali
restano efficaci assai oltre la data di scadenza indicata.
Riconoscerne la reale longevità potrebbe aiutare a ridurre la spesa
sanitaria
In una delle sequenze più
esilaranti di The Wolf of Wall Street, Leonardo DiCaprio
assume delle pillole di metaqualone (Lemmon Quaalude, il nome
commerciale negli Usa) scadute da quindici anni. Il farmaco, usato
con finalità ricreative, impiega un’ora e mezza per fare effetto,
un po’ più di quanto previsto dall’attore, ma si dimostra ancora
potente. La trovata dello sceneggiatore descrive bene un fenomeno a
cui due ricercatori statunitensi – Lee Cantrell, uno dei
responsabili del Centro antiveleni della California, e Roy Gerona,
dell’Università statale di San Francisco – hanno dedicato anni
di studi: la longevità dei farmaci ben oltre la data di scadenza
ufficiale.
Una scoperta
sorprendente
Tutto ebbe inizio il
giorno di cui Cantrell trovò nel deposito di una farmacia alcuni
medicinali scaduti. In media erano passati trent’anni dalla data
riportata in etichetta, con alcuni farmaci che risalivano a prima che
Neil Armstrong posasse piede sulla Luna. Un’occasione imperdibile
per verificare l’attendibilità della longevità dei farmaci
indicata. Cantrell, con l’aiuto di Gerona, li analizzò in
laboratorio. Il risultato fu sorprendente: dodici dei quattordici
farmaci avevano conservato l’efficacia del principio attivo. La
pubblicazione della ricerca suscitò, oltre alle critiche di chi
considerò pericolosa l’inferenza che se ne può trarre, e cioè
che si possano ignorare le scadenze certificate, un grande interesse
da parte della comunità scientifica. Cantrell chiarì che se fosse
stato possibile perfezionare il sistema di datazione della validità
del principio attivo, il risparmio per le finanze pubbliche sarebbe
stato notevole.
Come viene
stabilita la durata
Il processo attraverso
cui viene stabilita la longevità dei farmaci è il risultato di un
dialogo tra le case farmaceutiche e le autorità competenti, nel caso
degli Usa la Food and Drugs Administration, in Italia l’Agenzia
Italiana del Farmaco (Aifa). Il processo segue linee guida identiche
in Europa, Usa e Giappone. Da noi i dati di laboratorio registrati
dalle aziende vengono controllati e validati, o meno, dall’Aifa. Il
problema è che questo processo avviene in fase di lancio sul mercato
di un nuovo medicinale, momento in cui non è possibile fare studi
sulla tenuta effettiva del principio attivo. Con rarissime eccezioni,
i farmaci hanno date di scadenza che vanno dai due ai tre anni, e
nessuno supera il limite di cinque anni, sia che si tratti di
compresse, di soluzioni o di creme. L’industria farmaceutica non ha
il tempo materiale di verificare i dati prima di richiedere
l’autorizzazione per la commercializzazione del medicinale; i
brevetti durano venti anni e dal momento del deposito a quello della
richiesta di messa in commercio ne passano poco meno di dieci. Non si
può chiedere loro di aspettarne altri cinque per accertarsi che il
declino del principio attivo segua le previsioni. Si potrebbe imporre
una verifica successiva, quando il farmaco è già sui bachi del
farmacista, per correggere eventualmente le date. Ma nessuno lo fa e,
da parte loro, le aziende non hanno alcun interesse ad aumentare il
ciclo di vita dei propri prodotti con l’inevitabile conseguenza di
venderne di meno.
Una misura
precauzionale
«È una misura
precauzionale», spiega Silvio Garattini, direttore dell’Istituto
di ricerche farmacologiche Mario Negri, «non si sa come le famiglie
conservano i medicinali». E ben si comprende la precauzione
nell’indicazione della data di scadenza dei farmaci vista
l’impossibilità di controllare se vengano effettivamente
conservati in luogo fresco e asciutto, a una temperatura stabile e
senza subire alterazioni. Discorso diverso sembra però potersi fare
per le farmacie degli ospedali e per quelle sparse sul territorio,
dove la consapevolezza e la professionalità sono garantite dal
curriculum di chi ci lavora.
Il nuovo studio
sull’epinefrina
Cantrell e Gerona hanno
dato seguito alla loro prima ricerca con una nuovo studio pubblicato
sugli “Annals of Internal Medicine”, rivista scientifica con un
impact factor da capogiro, effettuato su un particolare tipo
di medicinali, quelli in forma liquida, considerati i più sensibili
al deterioramento. I due ricercatori sono riusciti a ottenere
quaranta dosi di epinefrina (adrenalina) auto-iniettante da privati
cittadini che le hanno lasciate scadere. Un campione particolarmente
significativo di farmaci nella forma più deteriorabile e conservati
senza garanzie di stabilità ambientale. Le dosi di epinefrina erano
scadute da uno a cinquanta mesi, a seconda dei casi, e la loro
analisi ha comprovato la bontà della prima ricerca: più della metà
aveva mantenuto l’efficacia del principio attivo oltre il 90 per
cento, nessuna di esse aveva perso più del 20 per cento del proprio
effetto, nessuna aveva sviluppato caratteristiche tali da risultare
tossica per il paziente. Ogni dose viene venduta negli Usa a un
prezzo di trecento dollari ed essendo farmaci salvavita di pronto
soccorso molto spesso occupano per venti mesi i kit di emergenza
senza essere utilizzati.
«Un titolo dell’80 per
cento, che potrebbe presupporre un residuo mantenimento di
efficacia», ci dice un portavoce dell’Aifa al riguardo, «comporta
un 20 per cento di prodotti di degradazione che, a seconda della loro
natura, potrebbero essere più o meno tossici». Potrebbero, ma anche
no, come nel caso dell’epinefrina analizzata, sebbene il campione
sia troppo ridotto per poter rendere inattaccabili le conclusioni dei
ricercatori. Di certo, gli importi risparmiati da un più preciso
calcolo della longevità dei farmaci potrebbero essere cospicui. Ad
accorgersene per prima è stata la Difesa statunitense, che da tempo
ha richiesto alla Fda una modalità per estendere la vita dei
farmaci. La richiesta venne accolta con l’istituzione, nel 1986,
del Shelf-Life Extension Program (Slep) e da allora molti sono stati
i farmaci passati per i laboratori governativi, col risultato che
nella maggior parte dei casi la scadenza è stata protratta di
quattro anni. Nel 2016, stando a quanto dichiarato dal dipartimento
della Difesa Usa e riportato da Probublica, i costi per sostenere il
programma sono stati di tre milioni di dollari a fronte di risparmi
per oltre due miliardi. Forse varrebbe la pena di effettuare qualche
analisi in più.
Pagina 99, venerdì 25 agosto 2017
Nessun commento:
Posta un commento