1.7.18

Finché c'è morte c'è speranza. Ricordo di Renato Caccioppoli (Lucio Lombardo Radice)

Renato Caccioppoli  in un'aula dell'Università di Napoli con studenti e ricercatori.
Accanto a lui il prete Savino Coronato, collaboratore all'Istituto di Matematica

Lo vidi per la prima volta a Roma nell'agosto del 1939. All'indomani della morto di Gaetano Scorza ero nella casa in lutto. La porta si aprì ed entrò nella stanza un uomo che affascinò la mia attenzione pur nel turbamento. Alto, di una magrezza eccezionale quasi terrificante, appoggiato ad un bastoncino dritto di antica foggia, giovane il volto ma emaciatissimo, due occhi fondi intelligenti e buoni sotto un ciuffo di rari capelli che ogni poco scostava con mano sensibile. Una figura (mi sembrò in quell'attimo) d'altro paese d'altro tempo, un uomo che viveva in un altra regione dello spirito, più elevata e più dolente della nostra.
Lo ritrovai amico vicino qualche anno dopo (ma quali anni), attorno al 1946 a Napoli. Che in lui vi fosse altro, anche allora percepivo, ma indubbiamente quella della repubblica delle prime battaglie nella libertà riconquistata, non senza un suo personale contributo e sacrificio fu una delle stagioni più piene nella vita di Renato Caccioppoii e forse la più felice o meno tormentata. Il piccolo bellissimo suo appartamento a palazzo Cellammare, dove in ogni cosa vi era traccia di una creatura eccezionalmente sensibile e intelligente era uno dei punti di ritrovo, di sosta e di preparazione degli uomini più notevoli del movimento rivoluzionario operaio, dei comunisti in particolare.
Renato Caccioppoli era senza dubbio un genio. La testimonianza più duratura della sua genialità resta consegnata ai suoi scritti di matematica che hanno fatto di lui uno dei più grandi analisti della nostra epoca, la testimonianza invece nella sua genialità in tanti e tanti altri campi — musica, letteratura, storia, filosofia, penetrazione dell'animo umano — resta affidata al ricordo degli amici che gli furono compagni nelle passeggiate napoletane.
Genio” abbiamo detto, “genio romantico” vorremmo aggiungere. In Renato c'è sembrato infatti troppo spesso di scorgere non già l'uomo che adopera il suo ingegno ma un pensiero (un «genio») che domina e possiede un uomo. Egli parla a parlava instancabile per ore ed ore ma sempre inquieto sempre «posseduto», quasi che da un momento all'altro il ricamo sottile delle connessioni dovesse spezzarsi e sfilacciarsi. E invece no, Renato riusciva sempre a far scorrere e intrecciare armonicamente le idee in corsa veloce ma non in fuga.
Quando tratteneva lamico per un ultimo problema, per un ultima escursione intellettuale prima di salutarlo a tarda notte chiedeva tacitamente di non essere lasciato a terminare solo il viaggio attraverso la notte, solo nella sua stanza a palazzo Cellammare ad ascoltare al termine di ogni notte, tra l'ombra e la luce il ritmico scavare dell'altro al di là del muro o forse dentro di sé.
Perché chiedere a Renato, quando ce lo diceva, che nome dare all'altro? Lo chiediamo forse a Kafka, al poeta dell'angoscia quando leggiamo La tana? Forse l'ombra che scende piano su ogni vita, forse il logoramento, la tristezza eguale di una vecchiaia solitaria, il sapere che è tardi, troppo tardi per vivere «nel solo» come gli amici più modesti ma più amati e più invidiati affettuosamente invidiati. Perché doveva dircelo Renato quando ce lo aveva detto da sempre ogni volta che ci parlava con amore e invidia del suo Evaristo Galois il genio romantico dolente e solitario che gli Dei amarono perché vollero che morisse giovane?
Se Renato per tante sere ha avuto la forza di affrontare il lungo viaggio attraverso la notte l'ha trovata forse perché sapeva che poteva morire, se lo voleva. Finché c'è morte ci speranza.

"l'Unità", 12 maggio 1959

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