Quella mattina sono le
donne genovesi a fare la prima mossa. Arrivano in migliaia al
sacrario dei caduti della Resistenza portando mazzi di fiori.
“Tonnellate di fiori” scrive con enfasi un cronista. Alle 12
comincia lo sciopero generale. Si sospende il lavoro nelle fabbriche,
negli uffici, al porto. Alle 15,30 si forma il corteo in piazza della
Nunziata. La folla riempie la lunga via XX Settembre. Secondo la
polizia i manifestanti sono trentamila. I cronisti li valutano tra
cinquantamila e centomila. La marcia si conclude in piazza della
Vittoria, dove la folla ascolta in silenzio il discorso del
segretario della Camera del Lavoro Bruno Pigna. Un folto gruppo di
ragazzi con le magliette a strisce si ferma in piazza De Ferrari e
occupa lo spazio intorno alla grande vasca di bronzo eretta nel 1934
per celebrare le guerre coloniali italiane. Vicino alla fontana era
schierato da ore un reparto di polizia col compito di sorvegliare gli
accessi alla zona recintata con i cavalli di Frisia. All’improvviso
la mischia, gli scontri, il fuggi-fuggi, gli inseguimenti. Vengono
date diverse versioni. La questura di Genova sostiene che i
poliziotti hanno reagito a un’aggressione. Giordano Bruschi,
partigiano e capo del sindacato dei marittimi, smentisce
l’aggressione contro la polizia. “Al massimo un lancio di
monetine”.
L’impiego dell’idrante
sicuramente è l’errore iniziale della forza pubblica. La polizia
che, per proteggere il congresso missino, aveva imprigionato il
centro di Genova con reticolati e mezzi blindati, avrebbe dovuto
tollerare i fischi e gli slogan di quei ragazzi stanchi di tutti i
divieti. Al primo errore ne segue uno più grave: quello di lanciare
i poliziotti all’inseguimento dei ragazzi per completare la
punizione a colpi di manganello. Lì intorno c’è il gran labirinto
dei caruggi, che offre ai manifestanti il terreno adatto per
respingere le cariche e fare assalti di sorpresa. Nei vicoli le
magliette a strisce ricevono solidarietà e il loro numero si
moltiplica. Arrivano anche rinforzi di portuali che, venendo dal
luogo di lavoro, si sono portati gli uncini usati per agganciare le
balle.
Le cariche alla cieca e i
lanci di lacrimogeni coinvolgono migliaia di persone di ritorno dalla
manifestazione, con la conseguenza che tutto il centro diventa area
di scontri. I reparti che presidiavano piazza De Ferrari sono ormai
frammentati, sotto una pioggia di pietre, gambe di tavolini,
materiale edilizio di ogni tipo. I celerini lottano corpo a corpo, ma
quando i loro avversari diventano cinquemila sono costretti a
fuggire. Nei vicoli sono bombardati di oggetti lanciati dai tetti e
dalle finestre. Non hanno mascherine di protezione contro i loro
stessi fumogeni. Alcune jeep sono incendiate, un capitano della
celere viene gettato nella vasca di piazza De Ferrari. [...] Alle
18,30 succede un episodio che fa infuriare gli ufficiali del secondo
reparto Celere di Padova, temuto per la brutalità. Mentre gli uomini
di questo reparto sono bombardati con sassi e tegole, un reparto dei
carabinieri, che segue la situazione senza muoversi dalla sua
posizione, viene applaudito dalle “magliette a strisce”. Alcuni
carabinieri si lasciano prendere sottobraccio dai ragazzi usciti dai
caruggi, si parla, si scherza. L’ispettore del corpo degli agenti
di PS scrive al capo della polizia: “Vedemmo con sbalordimento
prima e con indignazione poi, alcuni carabinieri avanzare sulla
piazza, in mezzo ai dimostranti, come in una parata”. L’ufficiale
denuncia “l’arcinoto atteggiamento dei carabinieri”. Avverte
che se perdurasse, “le nostre valorose, pazienti ed educate
guardie, nell’espletamento dei loro duri istantanei interventi,
potrebbero coinvolgere, contro volontà, i carabinieri nello stesso
trattamento riservato ai facinorosi”.
La maggior parte dei
manifestanti scesi in piazza durante lo sciopero generale erano
lavoratori e impiegati, uomini e donne, che da settimane, appena
usciti dalle fabbriche e dagli uffici, andavano alle riunioni in cui
si decidevano le iniziative contro il congresso missino. Per questa
massa di cittadini, che non si aspettavano le violenze, né erano
preparati a difendersi, fu più difficile evitare le manganellate,
gli idranti e i lacrimogeni. [...] Dopo tre ore e mezzo di scontri,
verso le 19,30, il presidente dell’Anpi Gimelli sale su una
camionetta della polizia, gira per i quartieri, e con un megafono
lancia appelli a cessare gli scontri. Poco dopo si torna a camminare
nelle strade di Genova senza caroselli di jeep, senza idranti e
lacrimogeni, senza ragazzi che tirano pietre. Centonove agenti
ricorrono a cure in ospedale. In serata la Camera del Lavoro proclama
un nuovo sciopero generale di 24 ore nella provincia per il 2 luglio,
in concomitanza con l’apertura del congresso missino. Nel
comunicato si dà la colpa degli incidenti alla polizia per il
“brutale intervento a manifestazione sciolta”. A Roma si convoca
subito il Senato. Il ministro dell’Interno Spataro rovescia sui
comunisti tutta la responsabilità dei disordini di Genova. Il
senatore Gaetano Barbareschi, segretario della Federazione socialista
genovese, gli risponde: “Lei ci spaventa per la mancanza assoluta
di conoscenza dei fatti”. Ricorda che la protesta contro il
congresso missino unisce tutti i partiti antifascisti “compresa una
parte notevole della Democrazia cristiana”. Denuncia la
irresponsabilità del governo “perché non si convoca il congresso
del Movimento sociale a dieci metri di distanza dal sacrario dei
caduti partigiani”.
Da Al tempo di
Tambroni, Mursia, 2010, in “Il
Fatto”, 1 luglio 2010.
Nessun commento:
Posta un commento