1.7.18

Genova, 30 giugno '60. I bastoni di Tambroni, la parata dei carabinieri (Annibale Paloscia)


Quella mattina sono le donne genovesi a fare la prima mossa. Arrivano in migliaia al sacrario dei caduti della Resistenza portando mazzi di fiori. “Tonnellate di fiori” scrive con enfasi un cronista. Alle 12 comincia lo sciopero generale. Si sospende il lavoro nelle fabbriche, negli uffici, al porto. Alle 15,30 si forma il corteo in piazza della Nunziata. La folla riempie la lunga via XX Settembre. Secondo la polizia i manifestanti sono trentamila. I cronisti li valutano tra cinquantamila e centomila. La marcia si conclude in piazza della Vittoria, dove la folla ascolta in silenzio il discorso del segretario della Camera del Lavoro Bruno Pigna. Un folto gruppo di ragazzi con le magliette a strisce si ferma in piazza De Ferrari e occupa lo spazio intorno alla grande vasca di bronzo eretta nel 1934 per celebrare le guerre coloniali italiane. Vicino alla fontana era schierato da ore un reparto di polizia col compito di sorvegliare gli accessi alla zona recintata con i cavalli di Frisia. All’improvviso la mischia, gli scontri, il fuggi-fuggi, gli inseguimenti. Vengono date diverse versioni. La questura di Genova sostiene che i poliziotti hanno reagito a un’aggressione. Giordano Bruschi, partigiano e capo del sindacato dei marittimi, smentisce l’aggressione contro la polizia. “Al massimo un lancio di monetine”.
L’impiego dell’idrante sicuramente è l’errore iniziale della forza pubblica. La polizia che, per proteggere il congresso missino, aveva imprigionato il centro di Genova con reticolati e mezzi blindati, avrebbe dovuto tollerare i fischi e gli slogan di quei ragazzi stanchi di tutti i divieti. Al primo errore ne segue uno più grave: quello di lanciare i poliziotti all’inseguimento dei ragazzi per completare la punizione a colpi di manganello. Lì intorno c’è il gran labirinto dei caruggi, che offre ai manifestanti il terreno adatto per respingere le cariche e fare assalti di sorpresa. Nei vicoli le magliette a strisce ricevono solidarietà e il loro numero si moltiplica. Arrivano anche rinforzi di portuali che, venendo dal luogo di lavoro, si sono portati gli uncini usati per agganciare le balle.
Le cariche alla cieca e i lanci di lacrimogeni coinvolgono migliaia di persone di ritorno dalla manifestazione, con la conseguenza che tutto il centro diventa area di scontri. I reparti che presidiavano piazza De Ferrari sono ormai frammentati, sotto una pioggia di pietre, gambe di tavolini, materiale edilizio di ogni tipo. I celerini lottano corpo a corpo, ma quando i loro avversari diventano cinquemila sono costretti a fuggire. Nei vicoli sono bombardati di oggetti lanciati dai tetti e dalle finestre. Non hanno mascherine di protezione contro i loro stessi fumogeni. Alcune jeep sono incendiate, un capitano della celere viene gettato nella vasca di piazza De Ferrari. [...] Alle 18,30 succede un episodio che fa infuriare gli ufficiali del secondo reparto Celere di Padova, temuto per la brutalità. Mentre gli uomini di questo reparto sono bombardati con sassi e tegole, un reparto dei carabinieri, che segue la situazione senza muoversi dalla sua posizione, viene applaudito dalle “magliette a strisce”. Alcuni carabinieri si lasciano prendere sottobraccio dai ragazzi usciti dai caruggi, si parla, si scherza. L’ispettore del corpo degli agenti di PS scrive al capo della polizia: “Vedemmo con sbalordimento prima e con indignazione poi, alcuni carabinieri avanzare sulla piazza, in mezzo ai dimostranti, come in una parata”. L’ufficiale denuncia “l’arcinoto atteggiamento dei carabinieri”. Avverte che se perdurasse, “le nostre valorose, pazienti ed educate guardie, nell’espletamento dei loro duri istantanei interventi, potrebbero coinvolgere, contro volontà, i carabinieri nello stesso trattamento riservato ai facinorosi”.
La maggior parte dei manifestanti scesi in piazza durante lo sciopero generale erano lavoratori e impiegati, uomini e donne, che da settimane, appena usciti dalle fabbriche e dagli uffici, andavano alle riunioni in cui si decidevano le iniziative contro il congresso missino. Per questa massa di cittadini, che non si aspettavano le violenze, né erano preparati a difendersi, fu più difficile evitare le manganellate, gli idranti e i lacrimogeni. [...] Dopo tre ore e mezzo di scontri, verso le 19,30, il presidente dell’Anpi Gimelli sale su una camionetta della polizia, gira per i quartieri, e con un megafono lancia appelli a cessare gli scontri. Poco dopo si torna a camminare nelle strade di Genova senza caroselli di jeep, senza idranti e lacrimogeni, senza ragazzi che tirano pietre. Centonove agenti ricorrono a cure in ospedale. In serata la Camera del Lavoro proclama un nuovo sciopero generale di 24 ore nella provincia per il 2 luglio, in concomitanza con l’apertura del congresso missino. Nel comunicato si dà la colpa degli incidenti alla polizia per il “brutale intervento a manifestazione sciolta”. A Roma si convoca subito il Senato. Il ministro dell’Interno Spataro rovescia sui comunisti tutta la responsabilità dei disordini di Genova. Il senatore Gaetano Barbareschi, segretario della Federazione socialista genovese, gli risponde: “Lei ci spaventa per la mancanza assoluta di conoscenza dei fatti”. Ricorda che la protesta contro il congresso missino unisce tutti i partiti antifascisti “compresa una parte notevole della Democrazia cristiana”. Denuncia la irresponsabilità del governo “perché non si convoca il congresso del Movimento sociale a dieci metri di distanza dal sacrario dei caduti partigiani”.

Da Al tempo di Tambroni, Mursia, 2010, in “Il Fatto”, 1 luglio 2010.

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