24.4.19

Guttuso, il 68 e che Guevara. Omissioni e unilateralismi sul Pci in un malizioso articolo di Marcello Sorgi



Leggo con ritardo i pezzi che ho ritagliato, invogliato dai titoli, dalle immagini o dai sommari; li leggo anche dopo mesi o dopo anni, quando ho tempo e voglia. Questo articolo di Sorgi, pieno di destrismo (comunista e anticomunista insieme – da stalinisti insomma) e di livore antisessantottino, lo leggo solo ora e ne soffro. Contiene notizie interessanti, che in parte non conoscevo e non trovo inutile depositare nel blog, ma la lettura degli eventi è falsata da una manifesta unilateralità e si giova di numerose, colpevoli omissioni. Una di queste omissioni gli serve a costruire un falso: quello di una sorta di generalizzata ostilità del Pci contro Guevara, le sue idee, il suo esempio.
È vero che, senza repliche troppo dure, almeno al vertice del partito, Giorgio Amendola già nel '66 aveva attaccato “gli strateghi da farmacia” che auspicavano molti Vietnam, con una evidente allusione al “pamphlet” Creare due, tre, molti Vietnam, da molti a ragione giudicato il testamento politico del Che; ma è altrettanto vero che reazioni nei dibattiti nei Comitati federali non mancarono e non solo da parte della Fgci, che di ammiratori di Guevara era piena zeppa. Non sempre peraltro la base del partito disponeva di informazioni sull'uomo, la sua storia, la sua battaglia: so di segretari di sezione a cui il nome del grande rivoluzionario latino-americano era ignoto.
È letteralmente falsa la freddezza delle reazioni del Pci, dopo l'assassinio del Che in Bolivia. La reazione fu lenta per l'iniziale incertezza delle notizie, ma non si limitò di certo all'articolo di Petruccioli. Come “l'Unità” di quei giorni documenta, Ernesto Che Guevara venne commemorato in centinaia di riunioni a tutti i livelli e in alcune città furono organizzate dal PCI manifestazioni di massa, riparando così anche ai precedenti difetti di informazione. Come avveniva solo nelle occasioni più solenni un documento ufficiale di cordoglio venne diffuso a firma del Comitato Centrale e venne fatto affiggere anche nei più sperduti paesini – cosa che non veniva fatta dal tempo della morte di Togliatti – un manifesto di lutto che piangeva il rivoluzionario, combattente per la libertà e medico dei lebbrosi (S.L.L.)
Renato Guttuso nel suo studio con Giorgio Amendola

Renato Guttuso s’era preso una sbandata per il ’68. Sembra incredibile, pensando all’austerità del pittore ufficiale del Pci scomparso nel 1987. Guttuso, notoriamente filosovietico, era stato officiato del Premio Lenin, veniva ricevuto a Mosca come un’autorità, considerato un esempio tra i maggiori del «realismo socialista». Eppure, come emerge dai documenti della mostra che si aprirà domani alla Gam di Torino, con alcuni dei suoi più importanti dipinti politici, nella primavera del Maggio francese il pittore visse una sorta di tormento e un completo rivolgimento, personale ed esistenziale, prima che politico. Qualcosa che lo portò in rotta di collisione con uno dei suoi più grandi amici nel partito, il leader storico della destra comunista Giorgio Amendola (immortalato, tra l’altro, in un memorabile ritratto a olio). In uno scritto riservato ma assai esplicito, espresse al «caro Giorgio» dubbi, perplessità e riserve sulla linea di contrapposizione che il Pci aveva assunto verso il Movimento studentesco.
La lettera è datata 14 giugno 1968. Meno di un mese prima, alle elezioni del 19 maggio, il Pci aveva guadagnato quasi un milione di voti. Due mesi prima, il 19 aprile, Luigi Longo, il leggendario comandante partigiano «Gallo» e allora segretario comunista, aveva ricevuto a Botteghe Oscure una delegazione di studenti romani guidata da Oreste Scalzone (poi coinvolto in indagini sui fiancheggiatori del terrorismo e latitante a Parigi con Toni Negri per molti anni). Amendola, fiero oppositore del movimento, di cui contestava quelli che ai suoi occhi apparivano evidenti limiti, come l’approssimazione culturale, il marxismo superficiale e i primi cedimenti alla violenza, per un po’ s’era tenuto, trincerandosi in un silenzio che decise di rompere all’improvviso il 7 giugno, con un fiammeggiante articolo su Rinascita.
Fin dal titolo, «Necessità della lotta su due fronti», il testo si presentava come drastico raddrizzamento di una linea valutata troppo cedevole: dovere del Pci, a suo giudizio, era condurre una battaglia parallela senza esclusione di colpi contro «l’opportunismo socialdemocratico» e «l’estremismo settario». Un estremismo, quello del Movimento, del tutto inaccettabile, dagli attacchi al Pci all’assemblearismo, agli slogan delle manifestazioni inneggianti alla violenza, ai non chiari rapporti economici con la Cina, agli striscioni con la faccia di Che Guevara – repulsione, quest’ultima, condivisa con il resto del partito. 
Si pensi che quando il Che era stato assassinato in Bolivia, il 9 ottobre ‘67, non si trovò un solo dirigente comunista di livello disposto a commemorarlo, e dovendosi pur pubblicare qualcosa sull’Unità, fu precettato l’allora segretario della Fgci Claudio Petruccioli. Che lo criticò garbatamente, come si fa con i morti, ma fu egualmente stigmatizzato con una nota di rammarico dell’ambasciata dell’Avana a Roma.
L’articolo di Amendola aveva sollevato reazioni nella sinistra del partito, da Lucio Lombardo Radice a Rossana Rossanda a Davide Lajolo. Ma una replica di Guttuso, da sempre annoverato tra gli amendoliani e amico personale del compagno Giorgio, non era immaginabile. Invece, a una settimana dall’uscita di Rinascita, la busta vergata a mano con la caratteristica grafia del pittore era stata recapitata a destinazione.
Scusandosi per non poter intervenire al dibattito sulla vittoria elettorale in Comitato centrale, Guttuso contestava subito «la critica nei confronti del Movimento studentesco» perché «non accompagnata da sufficiente autocritica sulle esitazioni, i ritardi, i distinguo» del partito, forse condizionato da «irrigidimenti postumi, specie da parte sovietica», e non in grado di cogliere «i motivi profondi di rivolta» sviluppatisi «senza attivo intervento dei comunisti, ai quali è toccato spesso di far da freno».
Di qui il fendente più vigoroso: «Noi abbiamo discusso sull’opportunità di portare in giro la faccia, ma non sulla sballata ideologia di Guevara, Debré e del loro maestro Althusser. Credi che la faccia di Garibaldi abbia contato poco, ai suoi giorni?». Seguiva una presa in giro di intellettuali come Adorno e Marcuse, del «vecchio Lukács», e delle loro strane teorie, genere «oggi è l’Eros il fantasma che percorre l’Europa», che si affermavano liberamente, perché chi avrebbe dovuto contrastarle, come ad esempio il filosofo Cesare Luporini, le condivideva dichiaratamente. La conclusione era che il Pci si sarebbe dovuto aprire e confrontare con gli studenti. Come appunto per la prima volta Guttuso confessava apertamente di aver fatto.
All’epoca della lettera, infatti, il pittore aveva pienamente maturato la sua sbandata, tra Parigi e Roma. Imbevuto dell’atmosfera del Maggio e della «Rive gauche», sentendosi ringiovanito, era entrato in contatto con il gruppo situazionista degli «Uccelli», in cui militava l’attuale direttore del Tgcom24 Paolo Liguori. Aveva partecipato all’occupazione di Architettura a Valle Giulia, illustrandone con un graffito la facciata, condividendo il progetto di trasformarla in una comune agricola e finanziando personalmente l’acquisto di un gregge di pecore, che vennero messe a pascolare nel parco della facoltà, fino al duro intervento della forza pubblica per liberare l’edificio, che ispirò a Pasolini la famosa poesia a favore dei poliziotti e contro gli studenti.
Amendola, che rispose blandamente alla lettera, forse consapevole del carattere ombroso dei siciliani, la sua rivincita se la prese nel 1978. Celebrando il decennale del ’68 in una lunga intervista sull’Unità, ripropose pari pari le sue posizioni (peraltro oggettivate dall’escalation del terrorismo) e concluse che anche Longo, ormai fuori gioco, sotto sotto era d’accordo con lui: quegli studenti a Botteghe Oscure li aveva ricevuti solo a scopo elettorale.

La Stampa, 22 febbraio 2018

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