7.4.19

Lorenzo Lotto e la malinconia dell’eterno secondo. Una vita all’ombra di Tiziano e Raffaello (Francesca Bonazzoli)

Lorenzo Lotto, Triplice ritratto di orefice


«Nella età, e solo, senza fidel governo et molto inquieto dela mente». Così il 25 marzo 1546 Lorenzo Lotto si predisponeva a dettare il suo testamento. Poteva avere intorno ai sessantacinque anni (non conosciamo con precisione l’anno di nascita), ma all’epoca Tiziano, che aveva circa la stessa età (nemmeno la sua è certa), dipingeva all’apice della fama i ritratti dei due uomini più potenti al mondo: il papa Paolo III e l'imperatore Carlo V.
L’inquieto Lotto, invece, senza «la dona da ben de governo... e la massara », privo di moglie, figli e persino di un garzone fedele, e «maxime che de l’arte non guadagnava da spesarmi », sta in quegli anni girovagando tra Venezia, sua città natale, dove trova ospitalità presso un nipote, Mario d’Armano, e Treviso. Qui viene accolto dalla famiglia dell’amico Giovanni dal Saon, nella cui casa spera di trovare «fidelissimo governo in tute le comodità honeste al bisogno humano e quiete de l’animo». Ma le cose vanno diversamente e lamentandosi vittima di maldicenze, riprende la strada per Venezia per fermarsi, questa volta, a casa dell’orefice amico Bartolomeo Carpan (di cui esegue il triplice ritratto) che lo assiste durante una malattia. Insomma è sempre in fuga, senza fissa dimora, e a disagio con tutti.
Eppure a Treviso Lotto aveva cominciato una carriera promettente quando, riconosciuto intorno ai venticinque anni già come «pittore famosissimo», il vescovo Bartolomeo de’ Rossi gli commissionava il ritratto. Bravo, dunque, ma non quanto il coetaneo Raffaello (che forse era persino di poco più giovane), chiamato assieme a lui a Roma da Giulio II per affrescare le Stanze dei nuovi appartamenti in Vaticano.
Lorenzo Lotto, Trionfo della castità
Mentre per il bel Raffaello, l’amato dalle donne, andò così bene che il papa gli affidò tutte le Stanze, per Lotto quel prestigioso incarico si rivelò un fiasco perché pochi anni dopo il suo lavoro fu cancellato.
Non andava diversamente nella sua Venezia dove al confronto con Tiziano, la sua pittura appariva, anche lì, mancante di misura classica, di monumentalità nelle figure e di magniloquenza. Così come anche le sue donne dipinte non avevano mai la bellezza sfrontata di quelle di Tiziano, capelli sciolti o vestiti scollati, ma erano tutte addirittura un po’ bruttine perché a Lotto non piaceva idealizzare e detestava le bugie della retorica. Il suo era un sermo humilis e più dei soldi e della gloria, lo interessavano gli studi ermetici e alchemici o dissertare de rebus coelestibus con Battista Suardi, il nobile bergamasco che gli commissionò gli affreschi di una piccola cappella a Trescore nel 1923, quando nell’intera Europa correva il panico per il diluvio di acque previsto a causa della grande congiunzione dei pianeti nel segno dei Pesci e dell’avvento dell’Anticristo Lutero, «diluvio de la Chiexia». Eppure Lotto aveva dipinto anche il ritratto di Lutero e della ex suora diventata sua moglie; aveva avuto rapporti con personaggi poi inquisiti per eresia, ma lavorò tutta la vita per i domenicani, i cani di Dio, ovvero i guardiani dell’ortodossia contro tutte le eresie, specialmente quelle che arrivavano in Italia attraverso i confini a Nord. Aveva anche fatto un primo testamento a favore dell’Ospedale dei derelitti, un istituto di carità annesso alla chiesa domenicana dei Santi Giovanni e Paolo dove chiedeva di venir sepolto, vestito con il saio.
Dunque della sincera religiosità di Lotto non si poteva dubitare. Tanto che quella serpe dell’Aretino, che tirava la volata al successo di Tiziano, riuscì ad affossarlo proprio lodando la sua devozione, superiore all’arte di dipingere.
Vasari fece il resto e scrisse il De profundis dedicando al Lotto una smilza paginetta fra la vita di Palma il Vecchio e quella del Rondinello, oscuro seguace di Bellini. Nessun complimento uscì dalla sua penna, ma ancora una volta solo la sottolineatura che Lotto «era vivuto costumatamente e buon cristiano, così morì, rendendo l’anima al Signore Dio».
Dal 1540 fino alla morte tutti i conti, le peregrinazioni, le spese per i quadri, le date, i nomi dei committenti e anche i soldi pagati per poter spogliare una modella, «solo veder », insomma tutto il grigiore quotidiano della vita del Lotto sono minuziosamente annotati nel «Libro di spese diverse».
Gli ultimi anni trascorsero per lo più nelle Marche dove già da giovane aveva lavorato con successo, ma pur sempre di provincia. Nel 1550, a corto di soldi e clienti, organizzò un’asta ad Ancona di quarantasei dipinti che si era stancato di portare avanti e indietro per l’Italia. La vendita fu un insuccesso e Lotto si dovette accontentare del ricavato di solo sette quadri. Quattro anni dopo «per non andarmi advolgendo più in mia vecchiaia ho voluto quetar la mia vita in questo santo loco» scriveva il 15 agosto 1554 ed entrava come oblato nella comunità religiosa della «Santa casa di Loreto» impegnandosi a dedicare il resto della vita al servizio di quella.
Un documento del 9 luglio 1557 ci informa che quel pittore ansioso, ipersensibile, melanconico e pessimista, era già deceduto.

Corriere della Sera, 2 marzo 2011

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