15.4.19

Malattia e superstizione. Il colera del 1867 e “la stravolta fantasia del popolo” (Edmondo De Amicis)

Edmondo De Amicis

Sullo scorcio del mille ottocento sessantasei si sperava m Italia che il colera, da cui molte province erano state invase in quell’anno, non sarebbe ritornato nell'anno successivo. Ritornò invece, come tutti sanno, e più fiero c più ostinato di prima, e fra tutte le provincie italiane quella che ne patì più gravi danni fu la Sicilia, della quale scriverò quasi esclusivamente, per riuscire più ordinato e più breve.
Nei mesi di gennaio e febbraio del sessantasette il colèra mietè qualche vittima nelle vicinanze di Girgenti, e specialmente in Porto Empedocle; donde, nel mese di marzo, si sparse per tutta la provincia, e da questa, nell’aprile, in quella di Caltanisetta, e crebbe poi fierissimamente in entrambe durante il mese di maggio, favorito dai calori estivi che si fecero sentire un mese prima a cagione della lunga siccità. Nè scemò punto nel giugno, eccetto che nella città di Caltanisetta, in cui decrebbe rapidamente; chè anzi, nei primi giorni di quell’istesso mese, invase la provincia di Trapani, quella di Catania, quella di Siracusa, e sul cominciar di luglio Palermo, e sul cominciar d’agosto Messina. Intanto si era propagato per quasi tutte le altre provincie d’Italia, e particolarmente in quelle del mezzogiorno, e più che in ogni altra in quella di Reggio, dove menò la sua ultima e più spaventevole strage sul cadere dell’anno.
Fin dai primi indizi che si manifestarono nelle provincie di Girgenti e di Caltanisetta, il generale Medici, comandante della divisione di Palermo, quasi antivedendo il terribile corso dell’epidemia, rimise in vigore tutte le cautele igieniche prescritte dal Ministero della guerra nel sessantacinque; divise i corpi in un numero maggiore di distaccamenti perché nessuna città e nessun villaggio ne rimanessero privi; ordinò che dappertutto si aprissero ospedali militari pei colerosi, infermerie pei sospetti e case di convalescenza nei punti più appartati e salubri; istituì in ogni presìdio una commissione di sorveglianza sanitaria; prescrisse nettezza rigorosa e accurate e frequenti disinfezioni in tutte le caserme; sospese ogni movimento di truppa dai luoghi infetti agli immuni; impose ad ogni corpo e ad ogni distaccamento di prestarsi prontamente e largamente a qualunque richiesta delle autorità civili per il servizio dei cordoni sanitari e per sussidiare le guardie nazionali nella tutela della pubblica sicurezza; ingiunse che si cercassero e si preparassero nelle vicinanze delle città principali i luoghi più adatti ad accamparvi le truppe nel caso che se ne fosse presentata la necessità; migliorò il vitto dei soldati con distribuzioni quotidiane di vino e di caffè; infine esortò gli ufficiali a preparare gli animi dei soldati a quella vita di sacrifizi, di perìcoli e di stenti che ciascuno in cuor suo già presentiva ed aspettava coll’animo rassegnato e fortificato dall’esperienza dell’anno precedente. Altrettali provvedimenti prendevano nello stesso tempo la più parte dei comandanti divisionali dell’altre provincie italiane, e dappertutto si allestivano ospedali, si disinfettavano caserme, ed era un affaccendarsi continuo di medici e d’ufficiali, un continuo dare e ricever ordini, un insolito rimescolìo d’uomini e di cose come all’aprirsi d’una guerra; in una parola, quella viva agitazione degli animi che suol precedere i grandi avvenimenti, e che ognuno esprime così bene a sè stesso colle parole: — Ci siamo!
Ma per quanto fossero disposti a fare pel bene del paese l’esercito e i cittadini animosi ed onesti, tre grandi forze nemiche dovevano rendere per molta parte e per lungo tempo inefficace l’opera loro; la superstizione, la paura, la miseria, assidue compagne della morìa presso tutti i popoli e in tutti i tempi.
Nel maggior numero dei paesi, e particolarmente nei più piccoli, i sindaci e molti altri pubblici officiali abbandonavano il proprio posto al primo apparir del colèra, e da qualche paese disertavano tutti ad un tempo colle famiglie e gli averi. I ricchi, gli agiati, tutti coloro che avrebbero potuto soccorrere più efficacemente le plebi, fuggivano dalla città e si rifugiavano nelle ville. In pochi giorni tutte le case della campagna erano ingombre di cittadini fuggiaschi, e non solo di ricchi, ma di chiunque possedesse tanto da poter vivere qualche giorno senza lavorare, e prendere a pigione, anche a costo di gravissimi sacrifici, un abituro, una capanna, un qualunque bugigattolo, pur che fosse lontano dalla città e appartato, quanto era possibile, da ogni abitazione.
Abbandonata a se stessa e impaurita dall’altrui paura e dalla solitudine in cui veniva lasciata, la povera gente fuggiva anch’essa ed errava a frotte per la campagna, traendo miseramente la vita fra i languori dela fame. Il generale terrore veniva accresciuto dal ricordo delle grandi sventure patite negli anni andati; se ne predicevano, come sempre accade, delle peggiori; si reputavano già tali fin dal loro cominciamento; in ciascuna provincia si esageravano favolosamente le stragi delle altre; in campagna si narravano orrori della morìa delle città; in città altrettanto della campagna.
Come si trovasse ridotta la popolazione che rimaneva ne’paesi è facile immaginarlo. Tranne poche città, essendo dappertutto abbandonate o disordinate le amministrazioni comunali, si trascuravano i provvedimenti igienici di più imperiosa necessità. Talora le popolazioni, reputando fermamente che quei provvedimenti fossero inutili, ricusavano di prestarvi l’opera propria, senza la quale essi riuscivano inefficaci, per quanto fosse il buon volere delle Autorità e lo zelo dei pochi cittadini che pensavano ed operavano dirittamente. S’aggiunga che molti paesi erano rimasti senza medici, senza farmacisti, e tutti poi, anche i più grandi, erano desolati dalla miseria che la carestìa dell’anno precedente aveva prodotto, e lo scarso ricolto di quell’anno, e l’enorme mortalità avvenuta negli armenti, accresciuto. Falliti gran parte dei negozianti; interrotta la costruzione delle strade ferrate; lasciate a mezzo molte opere pubbliche provinciali e comunali; molti opifici chiusi; gli operai senza lavoro; serrate dapprima le botteghe di oggetti di lusso, da ultimo moltissime delle più necessarie; le officine abbandonate; centinaia di famiglie ridotte a non vivere d’altro che d’erbe e di fichi d’India; in ogni parte la fame, lo scoraggiamento e lo squallore.
Per colmo di sventura si propagava ogni dì più e metteva radici profonde nel popolo l’antica superstizione che il colèra fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo, che il volgo di gran parte dei paesi del mezzogiorno , per uso contratto sotto l’oppressione del governo cessato, tiene in conto d’un nemico continuamente e nascostamente inteso a fargli danno per necessità di sua conservazione. In Sicilia, questa superstizione era avvalorata dal convincimento che il governo si volesse vendicare della ribellione del settembre, e però una gran parte dei provvedimenti sanitari presi dalle Autorità governative incontravano nella plebe un’opposizione accanita, ogni atto aveva il colore d’un attentato , in ogni ordine si sospettava una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento a conferma del veneficio, in ogni nonnulla se ne vedeva una prova. Gli ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di abborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi trasportare negli spedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal volgo che le medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Non credevano al contagio, e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi, famiglie numerose in angusti e immondi abituri, terribili focolari di pestilenza. Occultavano i cadaveri per non esser posti in isolamento, o perché ripugnavano dal vederli seppelliti nei campisanti, invece che nelle chiese, come è uso in molti di quei paesi; o per la stolta opinione che sovente gli attaccati dal colèra paiano, ma non siano morti davvero, e rinvengano dopo qualche tempo. Si poneva ogni cura a deludere le ricerche delle Autorità. Spesso si resisteva colla forza agli agenti pubblici che venivano per trarre dalle case i cadaveri corrotti; si gettavano questi cadaveri nei pozzi, si sotterravano segretamente nell’ interno delle case. In alcuni paesi, per trascuranza delle Autorità o per difetto di gente che si volesse prestare al pietoso ufficio, i cadaveri, comunque non contesi dai parenti, si lasciavano più giorni abbandonati nelle case, o venivano gettati e lasciati scoperti nei cimiteri, o si ricoprivano di poche palate di terra, così che intorno intorno ne riusciva ammorbata 1’aria, e non si trovava più chi volesse avvicinarsi a que’ luoghi, e bisognava scegliere altri terreni alle sepolture.
I pregiudizi volgari venivano segretamente fomentati dai borbonici e dai clericali. Eran sospetti di veneficio tutti gli agenti della forza pubblica, i carabinieri, i soldati, i percettori delle dogane, gli officiali governativi. In alcuni paesi della Sicilia era sospetto di avvelenamento qualunque italiano del continente; in qualche luogo tutti indistintamente gli stranieri erano sospetti. Si spargevano e si affiggevano per le vie proclami sediziosi, eccitanti alla vendetta ed al sangue. Tratto tratto le popolazioni armate di falci, di picche, di fucili, si assembravano, percorrevano tumultuosamente le vie dei paesi cercando a morte gli avvelenatori; minacciavano o assalivano le caserme dei carabinieri e dei soldati; irrompevano nelle case dei medici, e le mettevano a sacco; si gettavano nelle farmacie e vi distruggevano e disperdevano ogni cosa; invadevano l’ufficio del comune, laceravano la bandiera nazionale, abbruciavano i registri e le carte; costringevano le guardie nazionali a batter con loro la campagna in traccia degli avvelenatori; andavano a cercarli nelle case; credevano d’averli rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare e confessare dei complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e li abbruciavano nelle vie e nelle piazze. Intere famiglie, accusate di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni a piedi degli altri senza aver tempo di scolparsi o di supplicare; e si ardevano le case e se ne disperdevano lerovine. A Via Grande, a Belpasso, a Gangi, a Menfi. a Monreale, a Rossano, a Morano, a Frassineto, a Porcile, nel Potentino, nell’Avellinese, in cento altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e delitti orrendi di sangue.
Ogni giorno il popolo trovava una pietra, un cencio, un oggetto qualsiasi, che credeva intriso di veleno. Si recava in folla dal sindaco portando l’oggetto avvelenato, faceva venir medici e farmacisti a sperimentarlo, e voleva che i resultati dell’esperimento fossero com’ei riteneva che dovessero essere, o dava in minaccie e in violenze. In alcuni paesi la forsennatezza del volgo era giunta a tal segno, che gran parte dei cittadini, dal continuo pericolo di venir accusati come avvelenatori ed uccisi, s’eran trovati costretti a barricarsi in casa con qualche provvisione di cibo, vivendo così nascosti e rinchiusi come prigionieri. Ciò destava più forti i sospetti, si assalivan le case, ne seguiva una lotta. Nei luoghi e ne’ giorni in cui per la mitezza del morbo il volgo era meno brutalmente feroce, gli accusati di veneficio eran soltanto vituperati e percossi, e poi trascinati, lordi di sangue, al cospetto del sindaco. Alle volte i funzionari municipali, impauriti dall’esasperazione della folla, non ardivano tentar di distorla dai suoi propositi di sangue ed esortarla a risparmiare quegli infelici, e rispondevano, come fecero nel villaggio di San Nicola, che «se ne facesse ciò che pareva più opportuno.» E la risposta non era ancor detta intera, che quegli sventurati giacevano a terra immersi nel sangue, e non serbavano più traccia di sembianza umana. I municipi, dove se ne eccettuino quei delle città principali, minacciati com’erano e violentati ogni giorno, avevan perduto ogni autorità, e riuscivano impotenti a mettere in atto i provvedimenti più rigorosamente necessari alla pubblica sanità; chè anzi erano costretti a prevenire e compiere ogni desiderio o volere della plebe a fine di evitare più deplorabili danni. Dapprima il popolo imponeva che non si lasciasse entrare in paese anima viva, e il municipio stabiliva un rigoroso cordone attorno al paese, e ogni commercio cessava; ma appena si cominciavano a risentire i danni di questa cessazione di commercio, il popolo voleva che il cordone fosse tolto; rincrudiva il morbo e un’ altra volta si doveva porre il cordone. E lo stesso accadeva per tutti gli altri provvedimenti, ora voluti, ora disvoluti, secondo che la morìa cresceva o decresceva, secondo che la stravolta fantasia del volgo, per il vario manifestarsi di qualche indizio supposto, li reputava salutari o funesti.
Insomma ogni cosa era sossopra; in ogni luogo un desolante spettacolo di miseria e di spavento; le campagne corse da turbe d’accattoni e sparse d’infermi abbandonati e di cadaveri; i villaggi mezzo spopolati; nelle città cessata ogni frequenza di popolo, deserto ogni luogo di ritrovo pubblico, spento in ogni parte lo strepito allegro della vita operaia, le strade quasi deserte, le porte e le finestre in lunghissimi tratti sbarrate, 1’aria impregnata del puzzo nauseabondo delle materie disinfettanti di cui le strade erano sparse; da per tutto un silenzio cupo, o un interrotto rammarichìo di poveri e d’infermi, o guai di moribondi o grida di popolo sedizioso. A tale si trovaron ridotte le popolazioni di molte provincie della Sicilia e del basso Napoletano, e fors’anco il quadro ch’io n’ho fatto non ritrae ch'assai pallidamente i terribili colori della verità.

da La vita militare, Fratelli Treves, Milano 1888

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