2.4.19

Ricerca scientifica. Frodi, truffe e manipolazioni (Franco Carlini)

Gregor Johann Mendel

Il libro Falsi profeti di Alexander Kohn (Zanichelli, 1991) è stato pubblicato per la prima volta, in inglese, nel 1986. Ma già l’anno successivo l’autore, virologo all’università di Tel Aviv, era costretto ad aggiungervi precipitosamente un altro capitolo di aggiornamenti. E oggi, a quattro anni di distanza, si sentirebbe addirittura il bisogno di raddoppiare il numero delle pagine. Non è colpa di Alexander Kohn il cui saggio mantiene intatto il suo interesse, ma del fatto che il fenomeno che egli illustra, con ricchezza di esempi e un analisi meticolosa, ha conosciuto un’accelerazione improvvisa. Falsi profeti tratta infatti di «inganni e errori nella scienza», come recita il sottotitolo. O, a essere più crudi, le frodi, le truffe, i comportamenti scorretti e le manipolazioni dei risultati scientifici, a opera dei ricercatori. Così oggi al libro di Kohn si dovrebbe aggiungere, almeno: 1) il caso della dottoressa Teresa Imanishi Kari e del professor Baltimore, già premio Nobel per la medicina; 2) la presunta «memoria dell’acqua» del professor Benveniste; 3) il caso dei professori Pons e Fleischman e dei loro esperimenti sulla cosidetta «fusione nucleare fredda»; 4) i falsi fossili del paleontologo indiano professor Gupta; 5) gli ultimi sviluppi, tuttora in corso, della penosa storia del professor Gallo e del professor Montagnier a proposito della scoperta del virus dell’Aids. L’elenco è incompleto per difetto e giusto per non tediare il lettore: le riviste scientifiche degli ultimi tre anni sono piene di altri episodi del genere.
Il fenomeno, va detto, è sempre esistito. Anzi, molte delle storie ricostruite con puntiglio da Kohn affondano le radici ben indietro nel tempo. Come i dati sperimentali del monaco Mendel, lo scopritore delle legge dell'ereditarietà, che esaminati con più attenzione, risultarono troppo belli per essere veri. L'ipotesi è che fosse stato il suo assistente di laboratorio, anzi di giardino, ad aggiustarli un po’, di modo che la trasmissione ereditaria dei caratteri genetici dei piselli risultasse ben provata. Ma si può classificare come frode, truffa, violazione dell'etica scientifica un caso del genere in cui i dati scorretti sostengono una teoria poi dimostratisi vera? Oppure i casi, assai più frequenti di quanto sembri, in cui un ricercatore, convinto a priori della bontà della sua teoria o del suo modello, inconsapevolmente aggiusta i risultati di un esperimento, senza nemmeno rendersene conto?
Il dolo, ovvero l’intenzione esplicita e consapevole di barare, è uno degli elementi distintivi delle frodi scientifiche propriamente dette. Molti casi, anche apparentemente minori, li racconta lo stesso Kohn, che ha attinto a una bibliografia enorme. Altri fanno parte della cronaca scientifica più recente. Quasi sempre la spinta a violare consapevolmente le regole non scritte dell’etica scientifica viene dall’abbinamento ambizione-pressione ambientale. L’ambizione del ricercatore non è un male in sé; si può anzi pensare che senza una certa dose di essa, molte scoperte non sarebbero mai avvenute. La pressione ambientale deriva da quell’insieme di meccanismi interni alla macchina della ricerca scientifica che collegano la carriera con il numero delle pubblicazioni scientifiche. È l’unico criterio «oggettivo» di cui la comunità scientifica si è dotata per valutare il merito (la comunità scientifica seria, naturalmente, non quella italiana che nei concorsi a cattedra sorvola con disinvoltura i meriti e fa valere invece le parentele, i legami di cordata o politici; le ultime scandalose bocciature nei concorsi italiani, raccolte anche dai quotidiani, sono lì a testimoniarlo). Ma è un meccanismo assai pericoloso, tuttavia: lì infatti stanno le ragioni pratiche di molti articoli scientifici a firma multipla, dove l’autore vero (e magari anche l’autore degli aggiustamenti fraudolenti) è il giovane ricercatore che deve sfondare a tutti i costi, e le altre firme sono di colleghi più anziani che lo coprono, magari avendo discusso con lui solo la filosofia generale dell’esperimento e nulla più. Se tutto va bene, nessuno se ne accorge e tutti i firmatari riscuotono il loro vantaggio. Se invece qualche collega si accorge della frode, allora ci si imbatte in penose lettere di scuse alla comunità della scienza, come quella scritta dal Nobel David Baltimore sul numero di Nature del 9 maggio scorso.
L’atteggiamento di Kohn rispetto al fenomeno non è moralista a oltranza: realisticamente egli dà per scontato che i casi di manipolazione o di alterazione dei risultati sperimentali siano più diffusi di quanto si pensi. Specialmente nelle scienze biologiche o in quelle psicologiche dove la riproducibilità degli esperimenti non è così semplice. Non nasconde tuttavia un certo ottimismo, basato sulla convinzione che in fondo, se la truffa riguarda una scoperta veramente importante, essa verrà inevitabilmente smascherata, dato che molti altri «colleghi» si butteranno su quella tecnica o su quel fenomeno, per ripeterli o migliorarli. Si può dare per scontato invece che nel caso di pubblicazioni marginali, o di scarso interesse, nessuno mai tenterà di nuovo la prova, e gli autori del falso (o della manipolazione) potranno vivere tranquilli: quel loro lavoro infatti è un tassello del tutto secondario, e cadrà assai rapidamente nel dimenticatoio; il suo unico effetto sarà di aiutare la carriera degli autori, senza produrre un danno sociale particolarmente alto (se non quello di portare finanziamenti e carriera a chi non se lo merita).
È un atteggiamento realistico, anche se poco allegro: i quattro cardini dell’etica della ricerca, dettati a suo tempo da Robert Merton, uno dei pionieri della sociologia della scienza, appaiono davvero in disuso. Essi erano universalismo, disinteresse, scettiscismo e comunanza. Tutti sono stati intaccati anche profondamente, dall’intreccio tra scienza e mercato e dal mercato delle carriere. Non c’è forse da strapparsi i capelli, né da condannare in blocco tutta la scienza moderna. Ma occorre saperlo, per non attribuire agli uomini e alle istituzioni di scienza delle virtù che non si meritano più di tanto.

"il manifesto", 6 dicembre 1991

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