26.4.19

"Un poeta realista, inconsapevolmente democratico". Josif Brodsky legge Virgilio.

Pubblio Virgilio Marone in un'immagine del V secolo dal Codice Vaticano dell'Eneide

Il guaio di Gesù Cristo era che non aveva letto i poeti latini. D’altra parte neppure Ponzio Pilato aveva letto molta poesia. Se l’avesse fatto e in particolare se avesse letto le egloghe di Virgilio, pubblicate più di sessant’anni prima dei fatti di Gerusalemme, avrebbe sicuramente seguito con maggiore attenzione la storia che Gesù Cristo gli raccontava. Avrebbe potuto riconoscere nell’uomo portato al suo cospetto colui il cui avvento era stato profetizzato nella quarta egloga e forse risparmiargli la vita. D’altronde Gesù stesso, se avesse conosciuto quei versi, avrebbe potuto presentare meglio il proprio caso. Ma così capita: quelli che potrebbero leggere non leggono e quelli che leggono non contano. Nessuno di quei personaggi conosceva la quarta egloga ed è anche per questo che oggi siamo quel che siamo.
Ma se non ha salvato Gesù, è stato lui, Virgilio, col VI libro dell’Eneide ad ispirare la Commedia di Dante. E così in certo qual modo si compensa l’ignoranza di Cristo e di Pilato.
Josif Brodsky
Virgilio nacque nell’anno 70 a.C. a Mantova e morì a Brindisi all’età di 49 anni, esattamente duemila anni fa. Era dunque più vecchio del Cristianesimo. Ottaviano Augusto, benché di sei anni più giovane del poeta, è stato suo compagno di scuola, Orazio e Ovidio sono stati suoi contemporanei. Di lui abbiamo un solo ritratto, quel mosaico su un pavimento a Susa in Tunisia, creato circa un secolo dopo la sua morte. Alto, snello, coi capelli tagliati corti, sembra una combinazione di Anthony Perkins e Max von Sydow.
Di tutti i poeti romani egli è l’autore più fertile di fatti: la massa di azione, rapportata alla media dei versi, è maggiore nell’Eneide che perfino nelle Metamorfosi di Ovidio. E’ un gran piacere leggere Virgilio, se non altro perché un mucchio di cose accadono nei suoi versi e, di conseguenza, nell’immaginazione del lettore. In un certo senso Virgilio è autore più interessante di Omero, da lui ovviamente imitato; Omero è esageratamente descrittivo e qualche volta, i suoi aggettivi composti sono davvero una noia. Naturalmente Virgilio aveva il vantaggio di scrivere sette secoli più tardi, durante i quali le arti visive s’erano sviluppate abbastanza da far risparmiare ai poeti la necessità di descrivere la facciata esistenziale dell’uomo con la stessa precisione del suo paesaggio intimo.
È vero: sia nelle Bucoliche che nelle Georgiche Virgilio si è applicato molto alla descrizione della natura. Tuttavia nel suo caso la natura era un terreno concreto, arabile, non lo sfondo di qualche atto eroico. Il suo modo di trattare il mondo circostante differisce radicalmente non soltanto da quello di Omero, ma anche da quello di Teocrito. I miti pastori e le loro ninfe, entrati con Teocrito nella letteratura mondiale, in Virgilio acquistano i tratti mortali dei contadini italiani. Certamente conversano a lungo di amore e di poesia, ma sono inusitatamente impegnati in questioni di proprietà terriera.
La seconda metà del I secolo avanti Cristo, con cui coincide la carriera poetica di Virgilio, è stato un periodo di tremendi conflitti civili a Roma (devastazioni, guerre, epurazioni, confische di proprietà). La gente agognava alla pace e alla stabilità; è probabilmente per questo che Virgilio scelse uno sfondo pastorale, cioè rurale, per le proprie espressioni poetiche e per abituale dimora. La terra era la sola certezza disponibile e nell’adesione del poeta alla filosofia del "vivere secondo natura”, risuona una nota di quella disperazione, che è madre di saggezza.
In altre parole, la natura è stata per Virgilio un oggetto da osservare, anziché un’entità simbolica, come è stata anche il soggetto della sua personale fatica fisica. È stato il primo "gentiluomo-contadino” di una lunga serie di poeti, che in questo secolo sembra chiudersi con Robert Frost. Le informazioni pratiche su come trattare questa o quella pianta, di cui sono piene le Georgiche, gli sono state probabilmente fornite dai suoi schiavi e dai giardinieri, e talvolta riescono scoordinate e grezze. Ma proprio questo salva Virgilio dal rischio di parlare in prima persona. È un poeta che non usa quasi mai il pronome "io”. Virgilio è il primo poeta "obiettivo", che tratta l’uomo in sé e non come un "alter ego”. È tutto meno che narcisista, è (inconsapevolmente) democratico, estremamente umile. Perciò i suoi versi sono totalmente privi dell’autorità aprioristica del "poeta” e perciò saranno letti per un altro millennio, se un altro millennio ci sarà.
In quello che è ritenuto il suo autoepitaffio, Virgilio afferma di aver «cantato pascoli, campi e governanti». La parola-chiave è "cantato”: a differenza del prosatore, il poeta non viene definito dal contenuto delle sue opere. Un poeta ed il contenuto della sua opera sono definiti dal timbro della sua voce, dalla sua dizione, dalla scelta e dall’uso delle parole. In questo senso Virgilio è davvero uno scrittore imprevedibile. La critica più comune nei suoi riguardi, dopo la sua morte, era: «usava parole solite in modo insolito». È un’osservazione sicuramente, suggerita dalle Georgiche, con la loro dovizia di termini relativi alla tecnica agricola, fino ad allora di rado incontrati in poesia. Egli letteralmente farcisce i propri versi di aratri, vanghe, erpici, rastrelli, finimenti, stanghe, alveari, e così via. E, quel che è peggio, non li usa simbolicamente.
Virgilio è stato soprattutto un realista.
Per lui il migliore — se non l’unico — modo per comprendere il mondo era elencarne i contenuti. Se qualcosa era rimasto fuori dalle "Bucoliche” e dalle "Georgiche”, vi pose rimedio con l’"Eneide”. L’ effetto complessivo della sua poesia sul lettore è un inventario del mondo, e davvero meticoloso. Che parli di piante, pianeti o campi, di pensieri o di sentimenti, dei destini degli uomini o di Roma, le sue inquadrature ravvicinate sono insieme avvincenti e sconvolgenti. Come le cose stesse.
Il suo sforzo di spiegare il mondo è stato tale da indurlo a scendere perfino negli Inferi. La descrizione che ne fa è stranamente convincente, perché non è legata a nessuna dottrina scolastica che miri ad abbellire ciò che non esiste. Certamente la profezia pronunciata da Anchise suona falsa, non trova eco al di là del periodo in cui visse il poeta, Virgilio non fa che rimaneggiare in chiave apologetica il passato conosciuto. Eppure l’orgoglio per il futuro di Roma che risuona nella voce di quel vecchio non è soltanto l’orgoglio del poeta per le conquiste di Roma. Vi si sente la speranza del pagano che — dobbiamo ammetterlo — pare molto meno egocentrica e più tangibile di quella del cristiano:
«Tu regere imperio populos, Romane, memento;
Hae tibi erunt artes; pacique imponere morem,
Parcere subiectis et debellare superbos».
Tutto svanisce, eccetto i sentimenti. 
I sentimenti durano, e rendono riconoscibili i vecchi autori. Il lettore moderno può usare Virgilio allo stesso modo in cui l’usò Dante nel suo viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio: come guida.

L'Espresso, n.17, aprile 1981

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