5.4.19

Ping pong e metafisica. Quella pallina a effetto che illumina la via (Luigi Cruciani)



Inghilterra, seconda metà dell’Ottocento. L’epoca vittoriana si incammina verso la decadenza, ma i suoi aristocratici ancora vogliono divertirsi: troppo poco inclini al dramma borghese, troppo poco autocritici per leggere Conrad o Hardy, troppo aristocratici per giocare a tennis durante la brutta stagione. Proprio a imitazione di questo, allora, concepiscono il tennistavolo. Una fila di libri a mo’ di rete, i coperchi delle scatole (spesso di sigari) come racchette, un tappo di sughero o una matassa di filo al posto della pallina. Fra quel passatempo e la disciplina che oggi conosciamo si trovano l’invenzione della sfera di celluloide e, soprattutto, la geniale intuizione di Hiroji Sato, pongista giapponese che ricoprì nel 1952 la sua hardbat in legno con due strati di gommapiuma. Entra in scena lo spin, la rotazione impressa alla pallina; ed entra in scena l’Asia. Da questo momento, il tennistavolo assume il valore trascendentale di motore verso la pura forma. Diventa mistica.
O almeno questa è l’intuizione che ha portato Guido Mina di Sospiro a scrivere La metafisica del ping pong, appena uscito in Italia per Ponte alle Grazie. Secondo lo scrittore – nato a Buenos Aires, cresciuto a Milano e residente da molti anni negli Usa – questo sport, attraverso un cammino iniziatico, può condurre l’adepto a scoprire se stesso e la dimensione metafisica della realtà. Proprio a partire dallo spin.
«La rotazione interviene in tutti gli sport che abbiano una palla, ma nel tennistavolo agisce in maniera massiccia perché questa è piccola e leggera. Si possono imprimere fino a 150 rotazioni al secondo, una cosa mostruosa a cui non si avvicina nessun’altra disciplina», dice Mina di Sospiro a pagina99. «Il ping pong ha cambiato la sua natura negli anni ’50 con la cosiddetta racchetta sandwich. Le racchette precedenti producevano un gioco piatto e prevedibile. In una parola, euclideo. Con lo spin è intervenuta la geometria non euclidea, dato che la rotazione può esercitarsi in quattro direzioni. La pallina reagisce nei modi più diversi a causa dell’effetto Magnus, ed è ingannevole per l’avversario che riceve capire quale tipo di effetto abbia. Il tutto rende questo sport molto cervellotico, almeno all’inizio».
La capacità del ping pong di forzare le leggi della fisica è l’aspetto decisivo che ha illuminato lo scrittore, studioso di forme alternative di conoscenza quali il sufismo e il taoismo, percorsi di evasione dalle prigioni del pensiero lineare. Anche il tennistavolo sarebbe una disciplina capace di aprire vie di fuga dal determinismo; una possibilità che non tutti colgono. Per l’autore, infatti, i pongisti si dividono in due categorie: i metafisici e gli empiristi. Mentre i primi si sforzano di padroneggiare l’arte dello spin per ritrovarsi proiettati platonicamente fuori dalla caverna, i secondi – quelli provvisti di gomme antispin o i cosiddetti “re degli scantinati” – sono paghi di rimanere nel mondo del loro gioco piatto, dominato dal nesso di causalità.
«Gli empiristi rinunciano allo stile corretto del tennistavolo e a volare in un’altra dimensione», afferma Mina di Sospiro. «I metafisici invece spesso riescono in delle cose di cui si stupiscono per primi. C’è uno squarcio di un mondo della forma che riescono a intravedere. Una metafora quindi anche per altre esplorazioni filosofiche, normalmente non percorse in Occidente».
Questa è la ragione principale che rende i cinesi i più forti giocatori al mondo.
«I cinesi hanno un atteggiamento molto diverso dal nostro. Se un occidentale fa un bel punto, lo pensa come colpo di bravura; mentre l’orientale lo considera un colpo di fortuna, dato che è a bassa probabilità di riuscita. Loro sono molto interessati all’accidentalità e non alla causalità, come invece è l’Occidente da Aristotele in poi. L’I Ching (il primo dei testi classici cinesi, considerato da Confucio libro di saggezza e a livello popolare testo divinatorio, ndr) ci dice che i cinesi da 5000 anni sono affascinati dagli aspetti accidentali degli avvenimenti. Per questa mentalità il nesso causa-effetto è una cosa troppo ovvia per essere trattata filosoficamente. A differenza di quanto si pensi, sono un popolo molto spirituale, che intravede in questo sport, da loro praticato ai massimi livelli, qualcosa che va al di là dello sport stesso e ha a che fare con le arti marziali e la calligrafia».
L’ultimo capitolo del libro vede il suo autore entrare nella Città Proibita di Pechino e meravigliarsi di fronte all’arte millenaria di un esperto calligrafo. Qui Mina di Sospiro ha trovato la conferma decisiva alla sua idea: «Tanto per la calligrafia quanto per il ping pong, ci vogliono una pratica infinita e la ripetizione di movimenti precisi che devono diventare istintivi, fino ad arrivare alla forma perfetta. Ora, nel nostro vocabolario questa parola è stata svilita (pro forma, formalità). In realtà la forma è l’essenza. I cinesi raggiungono la forma perfetta e un gioco ineccepibile, e a questo punto la vittoria diventa un suo corollario».
Ma il tennistavolo non è soltanto una metafora della vita o di una via di ricerca spirituale. Leggere La metafisica del ping pong è anche scoprire un’infinità di storie, di personaggi venuti da ogni parte del mondo per radunarsi intorno a un tavolo con racchette e pallina. C’è Joe, che accoglie i neofiti al circolo di Arlington ed è un ottimo giocatore nonostante la perdita di un occhio: «Smise di giocare a ping pong perché non credeva fosse possibile continuare, normale dato che non si ha più il senso della profondità», racconta lo scrittore. «Comunque Joe non si è fatto abbattere, è riuscito a sistemare tante cose nella sua vita e alla fine ha deciso di ricominciare a giocare; a tutt’oggi lo fa abbastanza bene, fatto miracoloso, e ha un atteggiamento sempre allegro». C’è Hien, il vietnamita torturato per 8 anni in prigione e che gioca come fosse un bambino, col sorriso sulle labbra; oppure Alex il russo, malmenato ripetutamente in Siberia dai soldati sovietici perché ebreo e fuggito prima in Israele e poi negli Usa, un orso capace di trasformarsi in gentiluomo di fronte alle signorine del club. «Il ping pong è uno sport che attira gli eccentrici».
E poi si fa la conoscenza di Jaime, dominicano che tra i ’70 e gli ’80 partecipò a Olimpiadi e Mondiali, arrivando tra i primi 20 giocatori al mondo. «Jaime è ancora il mio maestro, ma il nostro è un rapporto particolare. Lui ha un modo di giocare altamente atletico e un po’ datato, con uno stile che predilige il dritto e considera il rovescio un’armita (armetta). Oggi i giocatori professionisti non fanno differenza di colpi. Questo ci diversifica. Comunque, ancora non l’ho battuto».
Ping pong e metafisica. Una corrispondenza che ricorda in qualche modo quella tra bowling e dudeismo, la religione ispirata a Jeffrey “Drugo” Lebowski che non a caso si nutre di elementi platonici, buddhisti e taoisti. The Dude sa che il mondo non è euclideo, che bisogna fare i conti con l’imponderabile; lui la prende come viene, non lavora, pratica il tai chi, fuma e fa il bagno mettendo in sottofondo i versi delle balene; il caos, l’accidente lo va a cercare, ma il Drugo conosce una dimensione superiore. Uno stato di grazia raggiunto, ad esempio, quando si stende per terra e manda nelle cuffiette la registrazione delle giocate di bowling – solo i suoni dei lanci e dei birilli colpiti – col sorriso beato del mistico che si allarga sulla faccia. Una suggestione troppo ardita?
«Niente affatto», ribatte Mina di Sospiro ridendo. «Ho scritto due saggi su The big Lebowski e lo ritengo il miglior film della storia del cinema. Il bowling, poi, ha un po’ di spin anche lui. Un giorno stavo salendo le scale del mio club e ho sentito il rumore delle palline sui tavoli da gioco, e anche a me questa sensazione sonora ha messo il sorriso sulle labbra. Quello di chi tocca un’altra dimensione».

Pagina 99, 16 aprile 2016

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