13.7.19

20 anni dopo. Dimenticare Malcolm X - con un'intervista a Eugene Genovese (Aniello Coppola, 1985)



NEW YORK
Lo ammazzarono sul palcoscenico della Audubon Ballroom di Harlem, il quartiere della sua abiezione e dei suoi trionfi. Lo crivellarono di revolverate il pomeriggio del 21 febbraio 1965, vent'anni fa, tre musulmani neri, appartenenti alla setta dalla quale si era separato, con dolorosa polemica, appena un anno prima. Ancor oggi non è certo che i tre condannati come colpevoli fossero tutti i veri killers e si sospetta che il delitto sia stato ordito in qualche oscuro recesso del potere. Era il secondo dei grandi assassinii politici degli anni turbolenti e terribili scanditi dalle fucilate di Dallas. Poi sarebbe toccato al secondo Kennedy e a Martin Luther King.
Dei quattro simboli, tutti violentemente abbattuti, del cambiamento americano, Malcolm era quello che aveva percorso l’itinerario più accidentato. In meno di quarantanni di esistenza aveva vissuto ì più radicali cambiamenti umani e politici.
A sei anni soli gli fu inferto il primo e più atroce stereotipo che potesse capitare a un reietto di pelle nera: una banda di razzisti bianchi rapì suo padre e lo linciò, a Lansing, uno dei centri automobilistici del Michigan. A dodici anni lasciò la scuola per farsi strada nei bassifondi delle metropoli nel nordest, come racconta in quello straordinario documento esistenziale che è la sua autobiografia, pubblicata dopo la sua morte, come del resto aveva profetizzato: da sciuscià a teppista, da rapinatore a manutengolo di bordelli, da ladro a spacciatore di droghe. Sei anni e mezzo di carcere e l’insegnamento di un fratello più giovane, Reginald, propiziarono il suo riscatto, la conversione religiosa, la milizia nella nazione dell’Islam, cioè nella setta dei musulmani neri.
La rottura col passato adolescenziale fu netta, fino a proiettarsi nel cambiamento del nome. Abbandonò il cognome «da schiavo», inflitto dai padroni a tutta la gente di colore trascinata in catene nelle piantagioni del sud americano. Non si chiamò più «Little» bensì El-Hajj Malik El-Shabazz e successivamente Malcolm X, ché avrebbe acquistato un potere magnetico tra le folle elettrizzate dalla sua oratoria trascinante. Il furore del neofita, il potere di suggestione che era capace di sprigionare come tribuno del popolo nero, un fascino intellettuale stravolgente, il piglio aggressivo di un leader che aveva vissuto le stesse esperienze del propri seguaci gli assicurarono rapidamente una posizione di spicco tra 1 sacerdoti della sua setta. Divenne presto il dirigente della moschea di Harlem, fondò un’altra dozzina di templi, sparsi dalla California al Connecticut, salì al vertice della gerarchia della nazione dell'Islam, generando invidie e gelosie.
Dieci anni dopo l’avvio di questa traiettoria, Elljah Muhammad, il capo della setta, lo radiava prendendo spunto dalla dichiarazione iconoclasta che Malcolm aveva fatto sull’assassinio di John Kennedy («I nodi vengono al pettine»). Tre mesi dopo, nel marzo del 1964, il nero più ribelle d’America lasciava la nazione dell’IsIam. Nei dieci mesi che gli restavano da vivere, bruciò ,le esperienze più originali. Si convertì all’ortodossia islamica, compì un viaggio alla Mecca, si incontrò (ricevendone un trattamento da statista) con i leader del Terzo mondo più autorevoli, denunciò Muhammad come razzista, subì minacce di morte e un tentativo di assassinio a colpi di bombe, maturò la più serrata delle trasformazioni personali, quella che nell’autobiografia ha chiamato «una cronologìa di cambiamenti».
Il rottame umano dei ghetti neri era diventato un leader politico. Il predicatore del separatismo nero aveva allargato il suo orizzonte strategico. L’uomo che aveva tacciato Martin Luther King da zio Tom della non violenza intuì le implicazioni rivoluzionarie di questo sacerdote tolstoiano del profondo sud. Il ribelle, lo spaccatutto, il predicatore della vendetta razziale contro l’oppressione bianca, l’agitatore che aveva proclamato «non ci può essere rivoluzione senza spargimento di sangue», il fanatico predicatore della rivolta; si affinò, divenne meno truculento, più sottile, cominciò ad avvertire la complessità della lotta politico-sociale in un paese come gli Stati Uniti, si avvicinò al troskysti newyorkesi, capì i limiti del nazionalismo e del separatismo nero. Quattro giorni prima del suo assassinio, in un discorso alla Columbia University, delineò una posizione assai distante da quella che aveva segnato il suo debutto sulla scena del radicalismo americano: «È scorretto — disse da questa tribuna accademica prestigiosa — classificare la rivolta del negro come un semplice conflitto razziale del nero contro il bianco. Piuttosto, oggi stiamo puntando a una ribellione globale degli oppressi contro gli oppressori». Era maturato dalla ribellione psicologico-religiosa alla politica. E a questo punto fu stroncato.
La sua figura inquietante grandeggiò oltre i confini della sua gente solo dopo la morte. Nel pantheon del martiri americani il suo nome brilla in contrapposizione con quello di Martin Luther King, in una salomonica divisione delle parti recitate nella convulsa storia degli anni di fuoco dell’America contemporanea. Malcolm, il fiore spuntato e reciso nei ghetti, Martin la pianta cresciuta nel sud campagnuolo e schiavista. Il primo come un rivoluzionario, il secondo da riformista. L’uno l’apostolo dell’odio e della violenza, il simbolo della rabbia e della frustrazione delle metropoli, l’altro il costruttore paziente di un movimento che minò le fondamenta dell’ordine giuridico costituito. Entrambi, comunque, accomunati dal destino di vittime designate.
Oggi Martin Luther King è entrato nel tempio dei padri fondatori, la sua data di nascita è stata consacrata festa nazionale. Malcolm, al contrario, resta un personaggio controverso, un’ombra cupa dei ghetti in fiamme, un brivido della cattiva coscienza americana. È difficile, forse impossibile, santificarlo, mummificarlo anestetizzarne il potere revulsivo, addolcirne la sgradevolezza.
L’America lo ha ricordato male. Quella ufficiale lo ha ignorato. La sinistra, che pure gli deve molto, in parte lo ha dimenticato, in parte si è abbandonata alla nostalgia. A noi il ventesimo anniversario del suo assassinio è sembrata l’occasione opportuna per discutere sull’oggi del movimento nero e, più in generale della sinistra americana. Lo abbiamo fatto con uno studioso, tra i più autorevoli, della problematica dei neri americani: Eugene Genovese, professore di storia all’Università di Rochester e autore tra i tanti volumi, del fondamentale studio From rebellion to revolution (Dalla ribellione alla rivoluzione - La rivolta degli schiavi afro americani nella formazione del mondo moderno).

Professor Genovese, chi è stato Malcolm X per i neri d’America?
È molto difficile rispondere. All’inizio, Malcolm, sembrò essere il portavoce di una setta ristretta e piuttosto conservatrice, i musulmani neri. In quanto tale, la sola cosa di lui che mi sembrò interessante fu il suo talento individuale. Indubbiamente, egli fu una personalità molto affascinante. A parte questo, non lo presi molto sul serio.

Da quando cominciò a interessarlo?
Da quando ruppe con la Eplkjol dell’Islam, con i musulmani neri. Le dicevo che era un uomo Interessante. Ma, francamente, non credevo che avesse una grande influenza politica e non pensavo che potesse avere un grande avvenire politico.

E dopo la rottura?
Allora diventò chiaramente il portavoce di quei neri radicali che pensavano a una sorta di unità panafricana e terzomondista.

Malcolm X fece una serie di viaggi importanti in Africa e nel Terzo mondo.
Sì, diventò un leader di rilievo intemazionale. Insisto: Malcolm aveva un enorme, straordinario... non mi piace la parola carisma, preferisco dire capacità di attrazione, anche come musulmano nero. Il suo punto di vista non era largamente accettato dalla gente nera. Ma egli esercitò ugualmente una grande influenza, semplicemente in forza della sua personalità, della sua capacità di criticare a fondo il sistema americano. Quando poi, rotti i rapporti con i musulmani neri, cominciò a sviluppare una strategia politica assai più promettente, diventò una forza molto patente negli Stati Uniti.

Ma anche quando giunse al culmine della propria maturazione politica, cioè nel suo ultimo anno di vita, fu semplicemente un leader del radicalismo nero o anche, più in generale, un leader della sinistra americana? C’era in lui la potenzialità di unificare la sinistra americana? In altri termini, che cosa fu Malcolm per la sinistra americana?
Nell’ultima fase della sua esistenza Malcolm stava dimostrando le potenzialità di leader non soltanto del movimento nero, ma della sinistra nel suo complesso. Però fu ucciso prima che riuscisse a sviluppare queste potenzialità. Per questo è difficile rispondere alla sua domanda. Oggi, a sinistra, molta gente reclama l’eredità di Malcolm. Ma quella in cui Malcolm visse la sua esperienza più intensa era una fase di transizione. Le politiche di molti gruppi di sinistra, ad esempio i trotskysti, erano in evoluzione. Anche per questo non è possibile collocare Malcolm in un settore particolare della sinistra, né tanto meno ipotizzare dove avrebbe potuto collocarsi.

C’è qualcosa di vivo nell’eredità di Malcolm? Fu solo un uomo del suo tempo, oppure parla ancora oggi ai militanti della sinistra?
Penso che Malcolm potrebbe dire qualcosa di vivo alla sinistra bianca americana, ma essa è in una situazione di tale scompiglio che questa mia dichiarazione non ha molto senso. Per la gente nera la questione è diversa, ma non sono io la persona adatta a rispondere a questo problema. Posso solo dirle una mia supposizione: nel futuro Malcolm sarà ricordato e la sua vita sarà studiata come una esperienza importante. In altre parole, Malcolm ha lasciato una eredità che sarà riscoperta. Ma questa domanda bisognerebbe rivolgerla al neri. Non sono io che posso rispondere. Non so, ad esempio, quanti giovani neri nei campus universitari sanno chi sia stato Malcolm X.

Ha ancora un senso la contrapposizione tra il Malcolm X rivoluzionario e il Martin Luther King riformista?
Mi sembra che nell’ultimo anno di vita di Malcolm la distanza tra lui e King si stesse restrigendo. Io credo che se fossero sopravvissuti, nel giro di qualche anno entrambi questi due leader neri sarebbero stati capaci di collaborare per costruire insieme un nuovo movimento nero. Se questo fosse avvenuto, sarebbe stato molto pericoloso per il capitalismo americano. Perché entrambi avevano una visione internazionale. Malcolm si stava spostando verso le posizioni che King aveva già raggiunto. Malcolm stava sensibilmente modificando il suo separatismo, il suo integralismo nero. Anche se King fu un integrazionista, cioè un oppositore del separatismo nero, bisognerebbe sempre ricordare che egli costruì un grande movimento nero, un movimento che cooperava coi bianchi, che aveva alcuni “vetrinisti” bianchi, ma che era formato soprattutto da masse nere, che usciva dalle chiese nere...

E la sua presa di posizione contro la guerra del Vietnam gli diede un respiro internazionale che ferì l’establishment moderato bianco.
Certo. Mi sembra che il problema di come mettere insieme questi diversi elementi, gli integrazionisti e i nazionalisti neri, resti un grande problema aperto. Se guardo alla leadership nera di oggi, ad esempio al reverendo Jesse Jackson, se analizzo la loro strategia, vedo che cercano di saldare la vecchia frattura tra separatismo e integrazionismo, tentano di combinare insieme le due strategie. Il che sarebbe oggi la cosa più vantaggiosa. Ma non c’è dubbio che nessun leader nero è riuscito a stabilire una egemonia sul processo politico.

Neanche Jesse Jackson?
Neanche lui. È influente, certo. E importante più di ogni altro, ma rappresenta una singola tendenza. Uno dei grandi problemi di oggi è la mancanza di un movimento, è la mancanza di una strategia e di una leadership come quella che Martin Luther King fu capace di costruire attraverso il movimento dei diritti civili. Ma il problema non è solo dei neri. Tutta la sinistra è in disordine. I neri stanno un po’ meglio dei bianchi, ma penso ci vorranno degli anni prima che un grande movimento popolare, analogo a quello degli anni sessanta, riesca ad affermarsi.

“l'Unità”, 26 febbraio 1985

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