17.7.19

Equilibrio sospeso. Intervista a Jury Chechi (Roberto Mussapi)



In Platone, in Senofonte e in Aristotele è costante la distinzione tra la musica e la ginnastica e le attività produttive svolte a scopo di guadagno. Musica e ginnastica appartengono alla sfera della poesia e del teatro, traverso cui l’uomo si accosta alle alte sfere, mentre le attività produttive e mercantili non sono degne degli uomini liberi. Non a caso nascono in Grecia le Olimpiadi, evento rituale imparentato con le rappresentazioni tragiche, e durante il cui svolgimento si interrompe ogni guerra. Il mito dell’atleta si sposa in Grecia con quello del poeta tragico, l’Odissea vede gare atletiche con protagonista lo stesso Ulisse. La ginnastica che noi conosciamo, quella dei mitici Comaneci, Menichelli, Chechi, è una specialità moderna, che attinge all’archetipo greco. Gli anelli, specialità maschile, è la più spettacolare, nel senso profondo dell’aggettivo. Un uomo sospeso, in poco più di un minuto l’atleta deve raggiungere la posizione, trovare un perfetto assetto statico con fulminei passaggi dinamici. Sospensione assoluta a cui segue la fase finale del salto, l’uscita, che deve essere perfetta come un tuffo. Jury Chechi, cinque ori mondiali e uno olimpico più un’infinità di altre medaglie, è uno degli eroi di questa disciplina.

Che cosa significa praticare gli anelli rispetto alle altre specialità di ginnastica? Mi pare che in tutte le altre, che lei pure ha praticato, ci sia una notevole percentuale di movimento. Negli anelli ho la sensazione che il movimento sia solo una spinta energetica per conseguire una perfetta immobilità. È così?
«In parte è così. Ogni attività della ginnastica ha caratteristiche diverse. Forse negli anelli la loro sintesi è probabilmente più difficile. La prima fase, di slancio, precede quella statica, definitiva, è velocissima, fondamentale. L’insieme delle due consente di cercare la perfezione ».

In che senso la perfezione?
«Io sento perfettamente che esiste una perfezione, una posizione assoluta di equilibrio».

Scusi, la devo interrompere. Quale perfezione?
«C’è una perfezione assoluta, nella realtà. Io, il ginnasta, cerco quella che riguarda la mia sfera. Esiste una posizione agli anelli assoluta. Come ogni perfezione non è raggiungibile da un uomo, ma ci si deve avvicinare al massimo. Mi sono spesso avvicinato al 10, ho avuto 9,87, ma il dieci è la perfezione assoluta, che non è degli uomini. Perché, poi, ricordiamo che sono uomini anche i membri della giuria, coloro che ti danno i voti, e quindi anche il loro sguardo, la loro valutazione, non possono essere perfetti in assoluto. E meno male che a noi umani la perfezione assoluta è preclusa! Ma noi dobbiamo cercare di avvicinarvici, quanto più possiamo. Vale in tutti i campi. Sì, la perfezione esiste, ha dei modelli, astratti, ma reali. Mentre inizio l’esercizio, quando sono nelle condizioni di forma e allenamento ideali, nella mente io raggiungo la perfezione, disegno e immagino esattamente quale sarà la posizione, il rapporto tra la fase dinamica della spinta e quella statica dell’equilibrio. Il corpo non può raggiungere la perfezione, la mente la vede nettamente. Se sei allenato mentalmente. Perché il primo allenamento è spirituale, mentale, e va di pari passo con quello fisico».

Corpo e mente non sono separati?
«Sono realtà diverse, ma devono procedere e agire in accordo. La perfezione che la mia mente vede con assolutezza deve essere seguita dal corpo. Di qui l’importanza del lavoro, della disciplina: mi riferisco a una disciplina che è contemporaneamente mentale e fisica. Il corpo non può rispondere totalmente alla visione della figura perfetta che la mente dell’atleta deve raggiungere. Ma deve sapervi corrispondere».

Scusi, lei parla della perfezione del ginnasta sugli anelli come quello che si potrebbe definire un assoluto platonico, una figura astratta, quindi crede che esistano perfezioni assolute, astrali. E nello stesso tempo afferma che è anche positivo che l’uomo, pur aspirando a quella perfezione, non la possa conseguire. Lei è un campione e a me basta quanto ha dato all’Italia, a me italiano, e in generale all’uomo. Agli anelli. Ma ora mi colpisce anche qualcosa di preesistente ai suoi ori: il suo è un discorso che ha qualcosa di religioso.
«Non sono credente, per un mio percorso che parte da istanze di fede. Ma la maggior parte dei valori su cui si fondano la mia vita, la mia attività, la mia visione, sono valori di fede. Molto vicini ai valori cristiani, anche se non credo in Dio. E in questo c’entra anche il lavoro, il senso di sacrificio, il desiderio di superarsi, di dare sempre il massimo. È fondamentale il sacrificio, il lavoro. La via verso la perfezione è sacrificio, dedizione assoluta».

Per essere Chechi o Stefania Belmondo ci vuole qualcosa di più dell’abnegazione. Come per un poeta.
«Certo, il dono. Quello è tutto, se non c’è non c’è. Ma agisce al trenta per cento. Quanti ne ho visti, dotati, non giungere a nulla. Il dono va onorato con il sacrificio, e con l’applicazione della mente».

Lei sta parlando di qualcosa che credo di conoscere… Scusi, ma l’atleta che raggiunge la perfezione agli anelli, e lei è uno dei pochi che vi sono riusciti, non incontra, nella sospensione assoluta, una sorta di estasi? Insomma quando consegue la perfetta immobilità, è fuori di sé o sta lavorando mentalmente per mantenere il controllo?
«Fino a quando mi aggrappo c’è la tensione assoluta, lo sforzo fisico e una bruciante volontà. Nel momento in cui mi fermo – parlo delle situazioni vincenti, in quelle diverse percepisco subito, in pieno, l’imperfezione, l’errore – mi sento fuori. Non vorrei esagerare, parlando di stato di trance…».

Io, vedendo lei, Dibiasi, in certi momenti epici, ho pensato a uno stato di trance, letteralmente…
«Preferisco limitarmi a dire che è qualcosa di meno alto, ma imparentato. Certo di quel minuto, intendo il minuto dei cinque mondiali, ancor più l’oro olimpico, non ricordo, più nulla. Mai più. Qualche bagliore. Ricordo perfettamente il prima…».

Il prima di aggrapparsi, la spinta e il il balzo…
«Esattamente. E il dopo. Dopo mi pare di scendere. Ma in quel minuto di cui non ricordo nulla ho la certezza di essere giunto alla meta, vicino alla perfezione».

In cui si annulla.
«Lei mi fa domande diverse dal solito. Questa conversazione è differente. Dalle solite. Mi accorgo che è proprio così. Lei mi ha capito. Che mentre sento che sto vincendo, mi annullo. Un attimo dopo, appena tocco terra, soddisfazione, fierezza, gioia. Ma soprattutto, soprattutto un senso di liberazione».

Liberazione?
«Sì, liberazione».

Nessuno la obbligava…
«Qualcosa mi obbligava. E nel momento in cui lo conseguo la meta, mi libero di un vincolo».

Mantiene il patto. E poi, di nuovo a terra, primo nel mondo, eroe delle Olimpiadi, non prova la sensazione della gloria?
«Sì, e credo che se qualche campione nega di provare questa sensazione non sia sincero fino in fondo. O non sia normale… Sì, la gloria, la fierezza di essere quello che sono per quanto ho fatto, con passione e sofferenza ».

E talento, scusi, dono divino. O di natura, per ricorrere a una terminologia più consona al suo sentire.
«Quello c’è, ripeto, e conta il trenta per cento. Ma proprio perché c’è deve essere onorato, mai sprecato, onorato con fatica e impegno. E dedizione assoluta».

Ha provato l’ebbrezza della gloria? Intendo la pura, assoluta felicità del campione olimpico della Grecia antica, che sente l’eco che il suo nome avrà nel mondo? Il brivido di avere compiuto un’impresa nobile, non violenta, pacificante, e anche gloriosa?
«Sì, non lo nego assolutamente. Liberazione, felicità, e un senso di onore quando qualcuno mi riconosce, ancora. Pensi, c’è addirittura chi mi incontra, e mi ringrazia».

Mi inserisco nella lista degli eletti…
«Lo ammetto senza esitazioni, mi fa piacere. E non nego anche la soddisfazione per i guadagni pratici, economici, che le medaglie d’oro comportano. Fa parte della ricompensa della vita. Guai ad anteporre queste cose al puro esercizio di un compito. Devono stare al loro posto, ma ci sono. D’altronde, per un atleta, la prima, la vera spinta è superare se stesso. Dobbiamo vincere per migliorare noi stessi e dare felicità agli altri. In questo nulla è paragonabile a un oro olimpico. Il mio vale di più dei cinque Mondiali, e alla pari il bronzo olimpico, quando, dopo l’infortunio, dissero che avevo finito e dovevo ritirarmi. Quello è il mio secondo oro alle Olimpiadi. Che culturalmente, spiritualmente, sono un’altra cosa. Come se durassero tutto il tempo della civiltà, oltre il tempo».

Avvenire, 25 luglio 2015

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