9.7.19

Razionalità e irrazionalità della politica. Non ci resta che Machiavelli (Carlo Galli)


Che sia stato il consigliere del Male (Old Nick, il vecchio Nicolò, era il diavolo), oppure l’eroico suscitatore di energie politiche nazionali o sociali (da De Sanctis a Gramsci), Machiavelli ha scoperto il campo della politica moderna come un magma ribollente di energie e di sfide, di crisi e di catastrofi. Dopo la sua morte, nel 1527, che coincide con il tracollo del sistema politico italiano, il conflitto per l’egemonia europea tra Francia, Spagna e Impero diviene un susseguirsi di guerre di religione da cui l’Europa inizierà a uscire solo alla metà del XVII secolo. La via dell’ordine sarà allora il razionalismo individualistico, la teoria del contratto, la politica dei diritti e della rappresentanza, la sovranità dello Stato nazionale. Sarà il liberalismo, la democrazia, il socialismo. E il pensiero adeguato a questo sforzo di ordine sarà, oltre alla filosofia costruttiva dell’illuminismo, quella progressiva e rivoluzionaria del marxismo, e, più vicino a noi, la scienza politica, capace di misurare e catalogare le istituzioni, i partiti, i sindacati, la partecipazione; di decifrare il funzionamento dei rapporti tra pubblico, sociale, privato; di studiare i nessi fra economia, psicologia di massa, politica.
È questo ordine liberale del mondo a essere oggi in crisi, con le sue certezze, le sue ideologie, le sue previsioni. Tramontata la filosofia dialettica della rivoluzione e del progresso, anche il pensiero liberale e democratico ha sempre meno presa sugli sviluppi reali della contemporaneità. La scienza politica, poi, è più a suo agio davanti ai normali processi delle istituzioni democratiche che non nella fase della loro crisi.
Sta qui il vero significato dell’attenzione a Machiavelli, oggi. Con lui e attraverso di lui si retrocede al momento magmatico in cui la politica moderna si è presentata in tutta la sua potenza, prima che prendessero forma le soluzioni ordinative che hanno costituito l’ossatura della storia degli ultimi trecento anni, e che oggi vacillano.
Nelle recenti interpretazioni di Machiavelli – a titolo esemplificativo, quelle di Ciliberto, Asor Rosa, Ginzberg, Marchesi –, è evidente l’interesse a confrontarsi con un pensiero che si genera dalla crisi, che non la inserisce in una rassicurante narrazione. L’interesse, cioè, non a misurare lo Stato e il suo funzionamento a regime, ma di fondare un ordine ex novo; non a maneggiare norme e regole, ma di fronteggiare l’eccezione, di constatare come la libertà umana, l’umana capacità di dare forma ordinata al mondo (la “virtù”), sia insidiata e smentita dalla contingenza, dal caos imprevedibile degli avvenimenti (la “fortuna”); come il “riscontro” fra ragione e realtà – il successo dell’agire umano – non sia garantito da alcun algoritmo, né da alcuna provvidenza, da alcuna tattica (sia questa l’ “impeto” o al contrario il “rispetto”).
Ciò che è al centro degli studi machiavelliani, oggi, al di là del loro valore storiografico, è il recupero dell’insegnamento più radicale di Machiavelli: che la politica è l’espressione più alta e più tragica dell’instabilità del reale, e che se ne devono fronteggiare animosamente e accortamente gli aspetti inquietanti, le dinamiche sfuggenti, con un pensiero non astratto, non precostituito, non semplificatorio: non una teoria generale da applicare alla realtà, ma un pensiero nervoso, acuto, in chiaroscuro, aperto al confronto continuo con le pieghe e le insidie del reale. Davanti all’evidenza che il reale non è né razionale né interamente razionalizzabile, Machiavelli è il pensatore non della forma ma della metamorfosi; non della netta separazione fra ordine e disordine, fra “lupo” (l’uomo in natura) e “cittadino” (l’uomo dentro lo Stato), ma della loro commistione. Per lui, ogni circostanza politica reale si presenta spaccata in due, come un dilemma che va minuziosamente analizzato per coglierne le contrapposte potenzialità; per lui, ogni regola esiste solo nel momento in cui è attraversata da eccezioni; e la ragione, la valutazione delle forze in campo e dei loro rapporti, il calcolo lungimirante delle conseguenze, coesiste con la consapevolezza che le situazioni possono essere forzate da un’azione spiazzante, “pazza”, nella disperata speranza di controllare, almeno per un po’, il corso della fortuna.
Machiavelli pensa la irrazionalità della politica, la sua drammatica contraddittorietà, ma senza essere un irrazionalista; pensa il destino delle umane costruzioni di “ruinare”, ma senza rassegnarsi alla sconfitta e all’inerzia; pensa non per teorie, ma dall’interno delle situazioni di crisi, per capirle e per risolverle. Non è un filosofo politico, ma un politico filosofo, un uomo d’azione che riflette sull’azione e che modifica la propria riflessione dentro le contingenze in cui si imbatte.
Eppure non è un opportunista: ha combattuto per un’idea repubblicana contro il potere mediceo, e sempre ha avuto in mente la salvezza dello Stato, di quello fiorentino e di quello italiano che non si è formato, come sarebbe stato necessario, con la conseguente rovina del nostro Paese. E non è neppure un decisionista nel senso di Carl Schmitt – che infatti non lo ebbe tra i suoi autori preferiti –: il decisionismo è il rovescio irrazionale del razionalismo della macchina statale moderna, mentre in Machiavelli vibra sempre la concretezza umana della politica.
Enigmatico come la politica in cui è immerso, a questa ha dedicato la vita, nello sforzo di pensarla fino in fondo e di darle un ordine: uno sforzo che egli sapeva destinato a non avere successo e che tuttavia era l’unica cosa per la quale valesse la pena vivere. Umanista – la sua scrittura audace e immaginosa è uno dei più alti godimenti che offra la lingua italiana – non fu un “letterato” che si rifugia nelle frivolezze e nelle fiabe: fu umanista perché esperto delle cose umane, quindi pessimista ed energico al contempo. Concreto, intelligente, appassionato, scettico, potente e ironico, il suo ingegno è analogo per certi versi a quello di Leonardo, impaziente e minuzioso, geniale e artigianale al contempo.
Non è quindi necessario che di Machiavelli si faccia un totem; che si ripeta, in forme nuove, la sua storica lezione – che l’Italia ha bisogno di un capo e di un popolo che si sostengano a vicenda per rifondare uno Stato corrotto e snervato dalla religione cristiana –; non sta nell’invocarlo a ogni crisi della nostra Italia il significato più profondo del ritorno di Machiavelli. Quel significato sta piuttosto nell’esigenza, che attraverso di lui si manifesta, di ripensare radicalmente la politica, di prenderla sul serio, di non lasciarne il senso al diritto, all’economia, alla morale. L’esigenza – che anch’egli provò, ma che è da calibrare sulle crisi dei nostri giorni, che non coincidono con quella che egli conobbe – di farsi coinvolgere nella politica, come in un destino che si riaffaccia perentorio ed elusivo, non più trattenuto da schemi e istituzioni ormai scricchiolanti. Ritorna la politica, insomma, e quindi ritorna Machiavelli, come possibile alternativa agli esiti di quella modernità che egli ha grandiosamente aperto.

«Corriere della Sera – La Lettura», 9 giugno 2019

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