2.7.19

Un istinto di stella. Incontro ravvicinato col villano Bertoldo e il suo autore cantimbanco (Alfredo Giuliani)

Un saggio-recensione acuto e brillante, una prosa che dà gusto e stimola curiosità. Vivamente consigliato. (S.L.L.)



Compiango tutti coloro che non hanno conosciuto da ragazzini le astuzie del rustico Bertoldo e le ridicolaggini di suo figlio Bertoldino, più fintotonto che scimunito, alla corte di re Alboino. Quando leggevamo il memorabile libro di Giulio Cesare Croce, in edizioni adattate e accomodate nella lingua, non avevamo la benché minima idea circa l'epoca in cui i due strambi personaggi - il buffone saggio e il balordo lunatico che scombina ogni logica - erano stati concepiti. Li avvolgeva un'aura buffamente remota, di medioevo fiabesco, e tanto bastava per nutrire stupori e divertimento. Con Bertoldo e Bertoldino ci capitavano nella fantasia voci inaudite, entravamo senza saperlo nella mitologia comica, nell'allegoria carnevalesca, nella dimensione della giullarata.
L'opera del Croce è una favola farsesca, un singolare abbecedario di paradossi, pagliacciate e acrobazie verbali, un repertorio di controsensi, equivoci, dialoghi strampalati, scemenze surreali, burle e irriverenze. Fantocci ben congegnati di una intramontata commedia dell'arte, Bertoldo e Bertoldino li si apprezza, è ovvio, anche da adulti. Ma letti quando si è ragazzini lasciano una traccia, aprono uno scenario che non si richiude più del tutto.

I due bislacchi
Rileggendo magari dopo decenni il libro dei due bislacchi, stavolta nel testo integrale corredato di dotte informazioni, ci si rende conto di un debito contratto inconsapevolmente, nell'infanzia. Parlando per me stesso, e lo dico con tranquilla convinzione, devo a loro, a Bertoldo e Bertoldino, in forte anticipo su Rabelais, Jarry o Il buon soldato Sc'vèik, una predilezione per la letteratura che ride di sé e vede il mondo alla rovescia. Si capisce che ho in uggia quei letterati che ancora oggi giudicano rozza e troppo elementare la comicità del Croce. Per convincermi dovrebbero anche spiegarmi ciò che non hanno capito: la forza allegorica del testo, che ne ha fatto la fortuna popolare per quasi quattro secoli, la quale consiste nella insolubile ambiguità tra la morale e lo spirito della favola.
La morale sembra accomodante, ma lo spirito non lo è. Basta pensare all'episodio centrale della disputa sui modi villaneschi di Bertoldo aizzata dal re, che pretende riverenze e inchino, mentre Bertoldo sostiene dignitosamente che l'uomo "non deve inchinarsi all'altr'uomo". Ora, nella disputa, il re perde due volte. Prima, col brutale e arrogante paragone tra i vasi odoriferi e balsamici e i vasi destinati a orina e feci, si mostra lui il vero villano. E la seconda quando ricorre al meschino espediente di far abbassare l'uscio, perché l'indomani Bertoldo sia costretto per passarlo a inchinarsi. Espediente che tutti ricorderanno gli si ritorce contro, giacché l'astuto Bertoldo entrerà piegato all'indietro onorando il re con le natiche.
Se questa immagine ci esilarava da ragazzini, da adulti la interpretiamo. Mostrandogli il deretano, Bertoldo è come dicesse al re: guarda che alla bassezza non si sfugge. Si dirà che questo è lo spirito della buffoneria, che lascia le cose come stanno. Eh, già. Ma i potenti passano e il controsenso resta. Quanto allo spirito del Bertoldino, è del tutto evidente che è assai più libero e filosofico: non si sfugge, ed è un bene, alla "pazzia". Qui morale e spirito della favola sono assai più vicini, quasi si confondono.
Dopo il tempo vissuto a corte, Marcolfa chiede il permesso di tornare col figlio sul suo monte aspro e selvaggio, perché è venuto il momento di "mutare alquanto aria": "Forse che quella di là su lo farà alquanto più svegliato, benché io non lo posso credere..."; ma siccome ogni uccello canta meglio nel suo nido, conviene riportare lo stolto a casa, "e poi facci che verso egli vuole". L'importante non è di riconoscere se la stoltezza di Bertoldino è vera o finta, temporanea o insanabile. Ciò che conta è dubitare che sia conveniente guarirne. Svegliarsi dalla stoltezza, guarire dalla mattocchieria, per diventare più infelici, non sarebbe un bel guadagno.
Queste, dette molto in sommario, le suggestioni allegoriche prodotte alla buona e con felice mestiere da Giulio Cesare Croce nel suo modesto e vispo capolavoro. Chi era dunque costui? Piero Camporesi già tra il ' 76 e il ' 78, con il saggio La maschera di Bertoldo e con l' edizione einaudiana del Bertoldo e Bertoldino, aveva mostrato un interesse intrigato e intrigante per la figura del Croce. Credo che, tra tante altre ricerche, non l'abbia più perduto di vista. Ha perlustrato in lungo e in largo le sue innumerevoli operette e opericciuole, ha frugato nei manoscritti del cantimbanco bolognese, e da storico fantasioso ne è venuto evocando l'esistenza in quel tempo di Controriforma e di primi umori barocchi, che egli conosce così bene. Ora, nell'appassionante ritratto Il palazzo e il cantimbanco (Garzanti, pagg. 152) l'erudizione diventa racconto e la personalità di Giulio Cesare Croce appare quella del più volenteroso, intelligente e onesto istrione che si possa immaginare. È un'immagine assai complessa, mobile, originale. Tanto complessa e mobile che lo stesso Camporesi, affascinato dalle proprie scoperte, oscilla spesso tra l'ammirazione per il talento del Croce e la percezione inevitabile dei suoi limiti. Questa oscillazione è un pregio del disegno di Camporesi, sia chiaro. Il nostro Giulio Cesare è davvero un tipo fuori del comune e dentro il comune, un giullare problematico. Un talento per niente affatto grossolano, speso ininterrottamente in operosità frenetica. Un temperamento prudente, ma non servile, semmai utilitarista a scopo di sopravvivenza. Un carattere che mirava a esercitare e preservare la propria indipendenza fantastica, di artigiano-artista, facendo tanto di cappello agli attori della commedia sociale: "fò di berretta al ricco e al poveretto", è il motto araldico del suo rispetto ammiccante e della sua sorniona accortezza. Non ci sentite un che di oraziano, anzi di manzoniano?

Un ragazzino povero
Camporesi coglie il Croce in età matura e da vecchio, nella parte della sua vita più interessante da ricostruire. Sorvola sulla giovinezza o vi accenna appena perché i dati sono noti e derivano tutti da un'autobiografia in terza rima, scritta per compiacere un "signore" curioso. Nato a San Giovanni in Persiceto, piccolo centro del contado bolognese, nel 1550, ci tiene a rilevare che la sua venuta al mondo fu "in dì di carnevale, - quando più d'esser pazzo ogn'un si vanta". Niente da stupirsi se un'ombra di quella pazzia festosa gli è rimasta attaccata dalla nascita. Il padre, che stentava la vita facendo il fabbro, pensa di avviare Giulio Cesare agli studi e lo manda da un valente precettore. Ma il ragazzino "atto ad imparare" e pieno di fervore, a sette anni deve lasciare la scuola, perché il padre muore e la famiglia cade in miseria. Lo prende con sé uno zio paterno, anche lui fabbro a Castelfranco Emilia, il quale gli fa proseguire gli studi presso un solennissimo pedagogo, che invece di addottrinare i suoi discepoli li fa lavorare nel campo e nell' orto con minacce di bastone. Sicché, visto il profitto nullo, lo zio lo mette in fucina, nel "ginnasio di Vulcano".
Nel 1563 zio e nipote si trasferiscono a Medicina in qualità di fabbri e maniscalchi di ricchi proprietari bolognesi. Qui a Giulio Cesare cominciano a saltar fuori dalla zucca "i grilli, i parpaglioni e le chimere". Quando i signori sono in villa chiamano alla loro mensa il "poeta campestre" e se ne dilettano. Ma poi i signori partono, finisce la vita pasciuta e tranquilla, il ragazzo torna tra l'incudine e il martello, spesso cibandosi di solo pane e "poma crude". Dopo cinque anni, avendo peraltro imparato bene a "martellare", Giulio Cesare non ne può più e se ne va a Bologna. Qui s'impiega da un buon fabbro, che capisce i suoi umori e non lo affatica troppo. Si dà accanitamente alla lettura facendo le ore piccole, e smania di abbandonarsi alla sua "vena naturale" di cantastorie, frottoliere di piazza e burlatore. Non si sa come, impara ad accompagnarsi con la lira, uno strumento a corde da braccio, una specie di protoviolino. Ben presto sceglie questo secondo mestiere, di intrattenitore ambulante, dagli introiti aleatori, ma che lo lascia libero di seguire "un istinto di stella".
La propensione alla libertà arrischiata, da povero cristiano epicureo, giovialone e compagnone d'osteria, girandolone che va vendendo per strade e mercati le sue operette stampate in fascicoletti e fogli volanti (probabilmente ben oltre 500), nasconde un'intensa e affastellata sperimentazione di tecniche espressive, un lavoro incessante. Questo insolito letterato ha l' orecchio fino e una bizzarra capacità di manipolare linguaggi. Dagli studi di Camporesi risulta che il Croce è uno straordinario poligrafo e riscrittore: compone capitoli in versi, canzonette, dialoghi, commedie in lingua e in dialetto, trionfi carnevaleschi, farse di ogni genere (novelle, favole, viaggi immaginari, "testamenti", "avvisi" di mirabili notizie); raccoglie proverbi e "barcellette"; e all'occasione scrive operette e religiose e "versi spirituali" (era un buon cattolico).
In Croce si rivela in età matura e in vecchiaia un abile impresario di se stesso. Sebbene non riuscisse mai a procurarsi il sublime mecenate che sognava, si creò un buon mercato e una diffusa "penetrazione in tutti i ceti". Poeta di servizio e verseggiatore cortigiano "sia per bisogno sia per umano desiderio di salire nella scala sociale", dice Camporesi, con la sua faccia allegra, la voce suadente e modulata, "al suono della lira da braccio maneggiata da gran virtuoso, intratteneva i gentiluomini d'inverno nei loro palazzi, nelle ville durante i 'trastulli' estivi, e la gente comune nelle piazze nei giorni di mercato e durante le lunghe e grandi fiere stagionali attingendo al suo inesauribile repertorio". Infaticabile fabbro del mestiere che s'era scelto, questo "sofisticato cantastorie" sorprende lo storico che ne ha studiato gli autografi, che "attestano un insospettabile lavoro di tornitura, di limatura, di rifacimento, una selva di correzioni e di aggiustamenti".
Letterato, musico e cantore, Croce s'era fatto "specchio e voce della sua città". Camporesi lo descrive nei lunghi anni di carestia che squassarono Bologna (dal 1590 al 97), intento a ingraziarsi con la sua arte le potenti famiglie senatorie, e nello stesso tempo a captare e ritrasmettere i lamenti dei "poverelli", degli sfrattati, della gente senza legna e senza coperte, affamata, falciata dall' influenza perniciosa, assediata dagli usurai.

Cronista di piccola storia
Con tutto ciò Camporesi lo vede allineato col moralismo dei predicatori, che invece di indagare e denunciare le cause sociali del disastro, lo attribuivano alla collera divina. Certo, non fu il Giulio Cesare uomo di protesta e di denuncia; piuttosto un cronista di "piccola storia", pronto a cogliere e trasformare, da "funambolico acrobata della parola", il colore di eventi privati e pubblici. È tuttavia difficile, a mio parere, pensare che il "cinismo" e la doppiezza di Bertoldo siano soltanto una maschera. L'opera che scrisse da vecchio, il Bertoldo nel 1604 e il Bertoldino nei due-tre anni successivi, non è soltanto un copione per far ridere, è forse anche una interrogazione sul perché di tanti lazzi e lunaticherie. Nella seconda parte del suo libro, davvero bellissima, Camporesi restituisce con grande acutezza e dottrina la figura del cantore pubblico, dell'aedo sociale identificato anche nella cultura alta della sua città: vedi i rapporti non casuali con i fratelli Carracci, soprattutto il versatile Agostino, col grande naturalista Ulisse Aldovrandi e con il maestro di Cappella Orazio Vecchi, tutti suoi estimatori. La stella di Giulio Cesare si spense a Bologna il 17 gennaio del 1609, era come alla nascita una giornata di Carnevale.
"Per Bologna, per i suoi lettori, per i suoi ascoltatori, ma soprattutto per il suo tipografo, la perdita fu irreparabile".

"la Repubblica", 8 gennaio 1995

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