7.7.19

Crescita economica e “climate change”: una questione di paradigma? (Antonio Ughi)

La dico breve. All'interrogativa finale non si può che rispondere no. E ciò perché è sbagliata l'identificazione tra aumento del benessere e crescita economica ed è fuorviante credere e far credere che la crescita economica si identifichi con le opportunità di valorizzazione del capitale, con la crescita delle attività “profittabili”. Articoli così, pertanto, utili nella parte di denuncia, non servono a niente se non si mette in discussione a fondo il vero paradigma in vigore, quello per cui il capitale deve trovare occasioni di incremento anche quando si tratta di rimediare ai danni che produce. (S.L.L.)

Parlare di cambiamento climatico è complesso. Non solo perché il tema coinvolge una pluralità di problematiche interconnesse, e difficili da districare, ma soprattutto perché ha una dimensione marcatamente sociale ed economica: tutto ciò che ruota intorno al tema del cambiamento climatico - e quindi dell’impatto dell’uomo sull’ambiente - coinvolge direttamente i modi produzione, le modalità di consumo e lo stile di vita delle persone. Un insieme, cioè, di processi, micro-comportamenti e azioni - dalla fabbricazione dei prodotti, al loro smaltimento; dalla dieta alimentare ai mezzi di trasporto - che, a livello aggregato, non sono affatto neutri in termini di impatto ambientale.
Nonostante il recente Nobel attribuito a Nordhaus abbia posto con più forza l’attenzione (non solo) degli economisti sulle questioni ambientali - dopo che per decenni il tema è stato considerato come marcatamente marginale e, a tratti, naïf - colpisce come in realtà le manifestazioni e scioperi per il clima degli ultimi mesi siano in realtà gli ultimi di una lunga serie, e che l’inerzia sembri essere uno degli attributi principali del tema cambiamenti climatici. Lo dimostra ad esempio il report del Club of Rome, un think thank dell’MIT che cercò di stimare l’impatto dell’aumento della produzione, della popolazione e dell’inquinamento ambientale in termini di crescita economica di lungo periodo. Il lavoro, intitolato The Limits to Growth (I limiti delo sviluppo), metteva per la prima volta in evidenza l’impatto estremamente negativo delle emissioni e del cambiamento climatico sulla crescita economica di lungo periodo. Ebbene, il lavoro venne pubblicato nel 1972: e nonostante sia stato più volte aggiornato, se si riflette oggi sul “quando” sia stato concepito si riconosce subito l’attualità “inattuale” del tema “cambiamenti climatici”.
L’impatto dell’uomo sull’ambiente ha comunque radici più lontane nel tempo: è sulla scia della prima rivoluzione industriale e in particolare dalla seconda, infatti, che si è avuta una crescita esponenziale delle emissioni di CO2 e conseguentemente un graduale aumento delle temperature. Se si osservano i tre grafici di seguito - dal primo al terzo - colpisce come, nel periodo 1870-2016, la crescita del reddito pro capite, quella delle emissioni e la crescita delle temperature seguano la stessa tendenza.

Emissioni cumulative di CO₂, 1870-2014



Da questi grafici emerge chiaramente la dimensione sociale ed economica dei cambiamenti climatici: l’aumento delle emissioni è l’altra faccia della medaglia dell’aumento del benessere. Infatti, le società (occidentali in primis) hanno visto crescere considerevolmente, nel periodo che va dal 1800 oggi - coincidente con quello di aumento esponenziale delle emissioni - il proprio reddito pro capite, con un incremento nell’aspettativa di vita e una incredibile espansione delle possibilità e dei livelli di consumo. È quindi forse da imputare alla stretta connessione tra la crescita economica (e quindi la crescita del benessere) e l’aumento dell’impatto ambientale la difficoltà latente nel ripensare certi modelli di produzione e consumo, e cioè a sradicare la convinzione che non si possa agire sul secondo aspetto - le emissioni - senza intaccare negativamente il primo - la crescita economica. E non deve ingannare la tesi secondo cui le economie in via di sviluppo siano le principali responsabili dell’inquinamento: se infatti il ruolo di queste - Cina in particolare - viene visto in una prospettiva diacronica (dal 1870 al 2014) rispetto a quello dei paesi occidentali, confrontando i livelli di emissioni cumulate emerge chiaramente come ad esempio gli Stati Uniti abbiano una responsabilità molto maggiore in termini di emissioni (si veda il terzo grafico), e senza considerare i livelli pro-capite. Per non toccare, poi, la questione per cui le emissioni della Cina - diventata “manifattura del mondo” - non sono solo connesse al miglioramento delle condizioni di vita dei cinesi, ma anche allo stile di vita dei paesi occidentali, che importano i suoi prodotti.
Questo per dire che, oggi, dato per certo il ruolo della società umana sul cambiamento climatico, e al netto delle possibili dispute sulle responsabilità e su chi debba essere “first mover” rispetto a una incisiva riconversione economico-produttiva, la vera sfida sembri essere il vedere tale riconversione, e più generalmente una transizione verso modelli sostenibili, come un’occasione di sviluppo, e non più come una inevitabile “decrescita”. Essere in grado, cioè, di intendere il problema come un’opportunità. Un primo passo in questo senso è rappresentato dalle possibilità offerte dalla circular economy. Se generalmente il sistema economico-produttivo è infatti basato su un modello lineare cosiddetto take-make-dispose, che comporta - dal lato produzione e consumo - un ciclo di vita dei beni di consumo a senso unico (dalla fabbrica alla discarica), alla base della economia circolare sta l’idea del recupero e del riutilizzo degli scarti che si producono durante il ciclo produttivo e alla fine del ciclo di vita dei prodotti. In altre parole, se il modello classico comporta un utilizzo inefficiente delle risorse, poiché produce scarti che corrispondono a uno spreco economico e a delle esternalità negative per la società nel suo complesso, il modello circolare opera nel senso opposto. Questo ha degli effetti rilevanti in termini di riduzione dell’impatto ambientale, poiché tutto ciò che riguarda una riduzione degli scarti e un riutilizzo di materiali implica minori emissioni connesse al loro smaltimento e alla nuova produzione. Un recente lavoro stima come un utilizzo consistente del modello circolare potrebbe ridurre di oltre il 50% le emissioni di CO2 dei paesi europei entro il 2050. Così facilitando il raggiungimento del target dei 2° C aumento delle temperature impostato dalla COP21, che prevede di ridurre le emissioni dagli attuali 32 miliardi a 24 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2030.
Sebbene sia comprovato come l’utilizzo degli schemi della circular economy possano generare notevoli opportunità economiche, nonché benefici in termini di benessere sociale, meno immediato è il favorire la transizione verso questi tipi di modelli, considerando i costi - iniziali - che possono riversarsi sulle imprese (e sui consumatori) e le problematiche per i settori industriali che da questi nuovi modelli verrebbero sostituiti. E da qui la difficoltà di accettare e implementare generalmente un nuovo paradigma di crescita economica. Ad esempio, è stata recentemente approvata la Direttiva Europea che mette al bando la plastica monouso a partire dal 2021: nonostante le ovvie implicazioni in termini di tutela ambientale (il WWF stima che ogni minuto si disperdano nel mar Mediterraneo 33mila bottiglie di plastica monouso), le implicazioni economiche sono tutt’altro che positive. L’Italia è leader in Europa per la produzione di plastica monouso, e si stima che nel settore lavorino circa 3000 persone: le quali, entro il 2021, senza un piano di riconversione, si ritroverebbero disoccupate. Mutatis mutandis, se c’è qualcosa che il movimento dei gilets jaunes insegna, è come dichiararsi contro il cambiamento climatico possa essere facile, ma che le conseguenze di certe misure tese al suo contrasto (in questo caso l’aumento dei prezzi dei carburanti) non siano affatto di semplice gestione, soprattuto se a essere colpite sono fasce sociali già deboli. Qui si apre ancora una volta la dimensione strettamente sociale del tema, e la difficoltà per i decisori politici di implementare soluzioni efficaci e accettabili. Un ruolo fondamentale in questo frangente è giocato - e potrebbe esserlo sempre di più - dall’Europa. Se già misure importanti sono state adottate - ad esempio con l’adozione, nel 2015, del pacchetto europeo sulla economia circolare - uno schema efficace al contrasto dei cambiamenti climatici potrebbe essere ancor più coordinato a livello centrale per evitare schemi di dumping ambientale - il trasferimento di imprese in paesi con meno costi connessi a regolamentazioni ambientale - e sociale, garantendo al tempo stesso supporto per le fasi di riconversione e transizione. Sarà quindi il risultato delle recenti elezioni in grado di assicurare un Green New Deal per l’Europa, un piano per assicurare che le esigenze sociali vadano di pari passo con nuove opportunità di crescita sostenibile, senza colpire le fasce di popolazione più fragili?

Treccani – Portale dell'Istituto della Enciclopedia Italiana – pubblicato il 26 giugno 2019

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