10.7.19

Sieropositivi. Novità rassicuranti sull'attività sessuale.


Qui posto due articoli: il primo del 2017 da "Pagina 99", che dà conto di una ricerca americana sui rapporti sessuali di “sierodiscordanti” (un partner sieropositivo e l'altro no) che riguardava i rapporti sessuali in vagina e rimandava ad una ricerca in corso per i rapporti con rischio maggiore (anali). Il secondo del maggio di questo 2019 è tratto dalla rivista on line della LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l'Aids). Il linguaggio è tecnico, ma se l'ho capito io lo possono capire molti altri non specialisti.
So bene che la novità susciterà la reazione di certi moralisti in casa d'altri per i quali la sicurezza dei rapporti agevolerà la prostituzione e il peccato omosessuale. Peggio per tutti quelli che odiano la libertà e la gioia degli altri. (S.L.L.)


Chi è in cura non trasmette il virus (Antonio Michienzi)
Se vi dicessero che dopo 58 mila rapporti sessuali non protetti intercorsi tra persone sieropositive e partner non affetti da Hiv non si è verificato nessuna trasmissione del virus, ci credereste?
Eppure è così. I dati sono quelli di un ampio studio denominato Partner che ha monitorato oltre mille coppie sierodiscordanti (così vengono definite le coppie in cui solo uno dei partner ha contratto l’infezione). I risultati sono stati pubblicati lo scorso anno sul Journal of the American Medical Association e non ritraggono un’eccezione, ma la quotidianità in cui vivono migliaia di coppie in cui uno dei due membri ha l’Hiv. «È un’informazione di cui forse non si ha sufficiente consapevolezza», dice Adriana Ammassari, infettivologa all’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma e tra gli autori della ricerca. «Lo studio Partner e altri prima di questo ci confermano che quando l’infezione è ben controllata per lunghi periodi di tempo le probabilità di trasmissione sono vicine allo zero».
Ben controllata significa che la quantità di virus presente nel sangue è così bassa da non poter essere rilevata dagli strumenti di analisi di cui oggi disponiamo. Una condizione per niente rara, vi-sto che in Italia riguarda circa il 90 per cento delle persone sieropositive.
Per questa ragione, spiega l’infettivologa, «se fino a qualche anno la terapia dell’Hiv era pensata a scopo di beneficio individuale, dal 2014 sono cambiate le linee guida e si riconoscono al trattamento anche benefici collettivi».
Si tratta di una scoperta epocale che ha avuto un forte impatto sulla vita delle persone sieropositive. «L’immagine del soggetto sieropositivo nella società è sempre stata quella di colui che può trasmettere l’infezione. L’idea di non essere in una condizione di rischio è stato un potente elemento di destigmatizzazione con enormi conseguenze personali e sociali», dice il direttore del Dipartimento clinico dello Spallanzani Andrea Antinori.
Ora si attendono i risultati dello studio Partner2 per avere la conferma definitiva che la trasmissione in coppie sierodiscordanti non si verifica neanche con comportamenti a elevato rischio (come i rapporti anali).
Anche se ciò non deve indurre ad abbassare la guardia, sembra però ormai chiaro che l’utilizzo combinato di strategie diverse potrebbe in un prossimo futuro dare un colpo mortale all’epidemia di Hiv, anche senza avere a disposizione il tanto agognato vaccino che da anni si attende invano. (Pagina 99, 21 aprile 2014)

U=U, le conclusione di PARTNER 2: otto anni di studi, oltre 100mila rapporti sessuali senza condom, zero contagi. ( Laura Supino)
Il 2 maggio sono state pubblicate su “The Lancet” le conclusioni dello studio PARTNER 2, già anticipate lo scorso luglio, in occasione della Conferenza Internazionale sull’ AIDS di Amsterdam. Lo studio fornisce evidenze scientifiche definitive sul principio U=U, Undetectable= Untrasmittable, ossia le persone con HIV in trattamento ART (antiretrovirale), con carica virale non rilevabile (inferiore alle 200 copie per ml), non trasmettono sessualmente il virus. Se la prima fase dello studio aveva escluso con certezza rischi di trasmissione nei rapporti sessuali vaginali, la fase 2 ora li esclude definitivamente anche per i rapporti anali.
Condotta in 75 centri di 14 paesi europei, la prima fase dello studio PARTNER si è svolta tra il settembre 2010 e maggio 2014 su 888 coppie sierodifferenti in cui il/la partner con HIV era in ART (terapia Antiretrovirale) e in stato di soppressione virologica e l’altro/altra partner era sieronegativo/a e non assumeva PrEP (profilassi Pre-Esposizione). Questa prima fase includeva sia coppie eterosessuali (548) che omosessuali (340). I risultati erano stati sorprendenti: su 58mila rapporti sessuali segnalati, senza l’uso del preservativo, di cui 36mila tra coppie eterosessuali e 22mila tra coppie gay, non si era verificato nessun contagio. I rigidi (e scientifici) requisiti di follow-up previsti, consentirono, nella prima fase, di raggiungere la certezza scientifica della non trasmissibilità del virus solo per le coppie eterosessuali.
Per questo PARTNER 2, partito nel 2010 e proseguito fino al 30 aprile 2018, ha poi reclutato e seguito soltanto coppie gay, portando quasi a mille il numero di coppie omosessuali protagoniste dello studio. Anche in questo caso il risultato è incontrovertibile: su 77mila rapporti sessuali non protetti, cioè senza preservativo, non si è verificato nessuno caso di trasmissione dell’HIV. Si colma così quel gap di evidenze scientifiche che separava, quanto a supporti scientifici sulla non trasmissibilità dell’HIV, le coppie gay dalle coppie eterosessuali. Le conclusioni dello studio danno dunque ancora più forza al messaggio, U=U, in grado di cambiare profondamente la qualità della vita delle persone con HIV e di assestare un duro colpo allo stigma e ai pregiudizi che ancora pesano su chi è affetto dal virus: le persone con HIV in terapia Antiretrovirale possono raggiungere un livello di virus nel sangue talmente basso da bloccarne la trasmissione per via sessuale, qualsiasi essa sia. Le conclusioni dello studio PARTNER sono rivoluzionare non solo per le persone con HIV ma per tutta la collettività in quanto una terapia ART di successo è in grado di interrompere la catena dell’infezione con evidenti vantaggi per la prevenzione generale.
Per incrementarne l’efficacia in termini di salute pubblica è tuttavia necessario incoraggiare, non solo la prevenzione primaria ma anche il ricorso al test per l’HIV, tuttora gravato da troppe barriere: richieste di documenti, prescrizioni dei medici di base, mancanza di anonimato. Le statistiche ci dicono che oggi gran parte delle nuove infezioni sono dovute alla mancata consapevolezza del proprio stato sierologico e, secondo UNAIDS e OMS, almeno una persona con HIV su quattro non sa di aver contratto il virus. Il nostro paese non fa eccezione, lo dimostra anche il fatto che, in Italia, oltre la metà delle nuove diagnosi giunga molti anni dopo il contagio (diagnosi tardive), quando lo stato di salute delle persone è già molto compromesso o addirittura in fase di AIDS conclamata. Questo fenomeno ha pesanti conseguenze sulla salute dei singoli e sulla collettività perché aumenta il periodo in cui si rischia di trasmettere inconsapevolmente il virus ad altre persone. Un tempestivo accesso alle terapie consente, invece, a chi ha l’HIV di raggiungere un livello di salute e qualità della vita simile a quello della popolazione generale ma anche di raggiungere una condizione clinica di non-trasmissibilità. Una maggiore informazione, che consenta una corretta percezione del rischio, aiuterebbe le persone a prevenire la trasmissione o a rendersi conto di aver corso dei rischi e, dunque, ad effettuare il test. Sapere di potere raggiungere una condizione di non infettività può incoraggiare le persone a conoscere il proprio stato, la lotta a stigma e pregiudizi è fondamentale per vincere questa cruciale battaglia di salute pubblica.
Tornando allo studio PARTNER 2 nei due anni di follow-up richiesti si sono verificati quindici casi di infezione da HIV ma gli esami filogenetici previsti dai protocolli hanno escluso con certezza che la trasmissione sia avvenuta all’interno delle coppie arruolate.
Tali infezioni sono pertanto da attribuire a rapporti non protetti avvenuti all’esterno della corte. Gli anni di follow-up accumulati per ciascuna coppia sono 2072 di cui 556 durante Partner 1. L’età media dei partecipanti è stata di trentotto anni per i/le partecipanti HIV negativi/e e di quaranta per quelli positivi, tre le persone transessuali che hanno partecipato. La media di rapporti sessuali per coppia senza condom è stata di quarantatrè volte l’anno. Il 97% dei/delle partecipanti aveva una carica virale (RNA) soppressa con meno di 50 copie/ ml e il 99% una carica virale soppressa inferiore ai 200 ml. Tra le coppie osservate ma non arruolate si sono verificati tre casi di trasmissione nei primi sei mesi di ART a causa della soppressione virale incompleta nel sangue e nei compartimenti genitali. Lo studio suggerisce dunque l’importanza di utilizzare il preservativo o la PrEP fino a quando la soppressione virale nel sangue non sia stata raggiunta in modo stabile e completo.
È risaputo che le persone HIV+ che si trovano in terapia ART, con soppressione della carica virale nel sangue, possono avere una RNA rilevabile nello sperma e altri fluidi del tratto genitale. Nello studio questo fenomeno è stato riscontrato anche nel 6% dei campioni raccolti tra uomini con più di sei mesi di ART. Tuttavia, il rilevamento di piccole quantità di carica virale nello sperma non sembra essere correlabile a rischi di trasmissione qualora la carica virale nel sangue risulti comunque soppressa. Questo potrebbe suggerire che il virus residuo nel liquido seminale possa non essere integro o adatto alla replicazione o presente in livelli sufficienti per causare la trasmissione. Nel corso degli studi non si è verificata nessuna trasmissione da persone con una carica virale rilevabile nel tratto genitale ma soppressa nel plasma. L’efficacia della ART come prevenzione dipende dunque dal mantenimento di una completa soppressione virologica nel sangue, fattore che mostra l’importanza di un monitoraggio regolare della RNA e di supportare un’aderenza ottimale e a lungo termine alle terapie. Nello studio PARTNER sono state osservate le pratiche in vigore in Europa con test a sei mesi o anche annuale, nel caso di buona aderenza e carica virale stabile. Altri studi hanno già dimostrato come, con una RNA soppressa e una buona aderenza al regime terapeutico, il rischio di un rimbalzo viremico sia molto basso.
Lo studio pubblicato su “The Lancet “non manca di far notare come la conoscenza dello straordinario impatto che la soppressione della carica virale può avere sulla prevenzione stia passando molto lentamente dalla comunità scientifica all’opinione pubblica e risulti sconosciuta anche a molte persone con HIV. La pubblicazione riferisce come nel 2016, quando erano già usciti tutti i principali studi sulla non trasmissibilità, compreso il primo PARTNER, il 90% dei 1800 partecipanti allo studio ACTG A% sui farmaci fossero convinti di essere infettivi nonostante il 91% di loro avesse una carica virale al di sotto delle 50 copie ml. Per questo, sostengono gli autori, è importante il sostegno che l’esito di questo studio può dare alla campagna lanciata nel 2016 da Prevention Access Campaign con il messaggio U=U, oggi approvato da 780 organizzazioni (pubbliche, private, ONG) di novantasei paesi, incluse le principali istituzioni scientifiche e mediche internazionali.
La diffusione di questo messaggio –concludono gli studiosi- è necessaria per promuovere i benefici di un più ampio ricorso al test, dell’accesso tempestivo alle terapie ART e del contrasto alle leggi che stigmatizzano, criminalizzano e colpiscono le persone con HIV. (LILA News dal mondo Aids, Sabato, 4 Maggio 2019)

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