Quando si approssimano scadenze importanti per i processi di Berlusconi la questione giustizia da urgenza diventa emergenza.
Martedì 12 il Cavaliere ha dichiarato che la legge sul processo breve si farà presto perchè non è ad personam ma ad libertatem. Mercoledì, dopo un nuovo attacco ai magistrati "peggio di Tartaglia", ha rispolverato l'antico pallino dell'assoluzione irrevocabile; cioè della inappellabiltà da parte del Pubblico Ministero di una sentenza che lasci liberi gli imputati, anche di reati gravi.
L'esercito di "persuasori" al servizio del presidente del Consiglio gli ha fatto eco presentando le misure come "garantiste".
Essi hanno ragioni da vendere quando denunciano la lunghezza dei processi, aggiungono che il "processo breve" è in realtà un "processo meno lungo" e giudicano incivile che un imputato stia sulla graticola sei, otto o dieci anni. Ed è possibile che non si sbaglino quando affermano che una parte, più o meno grande, delle lungaggini processuali è dovuta a indolenze o abusi magistratuali. Il guaio è che i magistrati in assoluto peggiori, i ponzipilati che allungano il brodo per non caricarsi di scelte e responsabilità, sarebbero avvantaggiati e non sanzionati dal nuovo sistema della "prescrizione accelerata".
A molti peraltro sfugge come il garantismo delle proposte di Berlusconi e dei suoi avvocati abbia un carattere marcatamente "unidirezionale": esso garantisce dalle lungaggini l'imputato (di reati anche gravissimi), ma non garantisce affatto le vittime di omicidi, furti, rapine, truffe, raggiri etc. Il diritto di ottenere giustizia in tempi meno lunghi non può essere prerogativa degli imputati, ma dovrebbe essere anche delle vittime. I termini che vengono proposti per i diversi gradi di giudizio avrebbero un senso se riguardassero l'obbligo perentorio di arrivare a sentenza, obbligo renderebbe più efficienti e solleciti i giudici e meno ostruzionisti gli avvocati difensori. Ma, se la tagliola comporta non la sentenza ma la prescrizione e l'impunità, essa non garantisce in nessun modo le vittime, ma solo gli imputati e tra di essi i colpevoli.
E' ridicolo ricondurre, come taluno fa, l'inappellabilità dell'assoluzione in primo grado al generale principio giuridico in dubio pro reo, che riguarda la sentenza e non il processo. La parità tra difesa ed accusa non può essere limitata al solo dibattimento, ma deve riguardare il processo, cioè l'intero procedimento giuridico. Non sono esperto in materia ma, sulla scorta di quel buon senso che dovrebbe accomunare giurisperiti e non, ho il forte sospetto che sia incostituzionale un processo che permetta il ricorso in appello solo alla difesa dell'imputato e lo neghi al pubblico ministero e alla parte lesa.
Ultima notazione. Un mese fa circa, alla sala della Vaccara di Perugia, un magistrato rigoroso e impegnato, Livio Pepino, di Magiostratura Democratica, attualmente membro del Csm, e un giornalista che frequenta spesso le aule giudiziarie, Carlo Bonini, ci raccontavano come già oggi nella quotidianità del Palazzaccio operi una crudele "giustizia di classe". Al piano terra ci sono le "direttissime", in pratica i processi ai poveracci, spacciatori quasi sempre piccoli, ladruncoli e scippatori, immigrati criminalizzati dalla Bossi-Fini. I dibattimenti sono quasi sempre rapidi e non di rado abborracciati con lo scopo di far presto. Non è infrequente che chi custodisce i numerosi imputati li "tenga buoni" con le maniere forti. Ai piani alti intanto discutono avvocati che chiedono termini a difesa e altri rinvii, magistrati che fissano udienze per l'anno successivo, strategie dilatorie di ogni tipo per imputati più facoltosi e meglio difesi, criminali delle grandi organizzazioni, colletti bianchi della speculazione sanitaria e finanziaria eccetera eccetera. Le nuove misure confermerebbero che la galera è solo per i poveracci.
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