28.1.10

Un discorso di Nenni (Franco Fortini 1954)

Riporto qui, con qualche taglio, il breve saggio Un discorso di Nenni, originariamente pubblicato su “Nuovi argomenti” del novembre-dicembre 1954 e successivamente entrato a far parte di uno dei più bei libri di Franco Fortini, Dieci inverni. Contributo a un discorso socialista. Quel libro era una sorta di diario in pubblico del decennio 1947-57 e, ragionando di cultura e politica, raccontava l’esaurirsi delle grandi speranze di rinnovamento sociale del dopoguerra nel regime democristiano, il difficile rapporto tra una ricerca intellettuale e letteraria spregiudicata e le organizzazioni consolidate del movimento operaio, il riaprirsi del dibattito a sinistra dopo il XX Congresso del Pcus, lo shock dell'Ungheria. Fortini non aveva bisogno di riaggiustarsi il passato, di nascondere scheletri, aveva potuto scrivere, dopo l'Ungheria: "Ragazzi, per mostrare i miei nastrini antistalinisti non ho bisogno di rivoltare la giacca".
Il saggio qui presentato, la cronaca di una domenica a Bologna, è emblematico dello stile di Fortini, del rapporto che la sua scrittura realizza tra particolare e universale. Non è la "poesia" come la voleva Croce (l'universale nel particolare, appunto), ma un movimento a spirale che nelle sue volute (nelle vertiginose cadute come nelle rapide ascensioni) segnala una "irriducibilità". Oggetto del narrare-riflettere di Fortini è appunto la tensione tra intellettuali e politica. Essa riguardava soprattutto il Pci togliattiano, in quegli anni ancorato ad una interpretazione “storicistica” dei Quaderni gramsciani e, insieme, al peggiore zdanovismo; ma toccava anche il vecchio, più libertario, Partito socialista italiano di Pietro Nenni, che non pretendeva allineamenti rigidi e permetteva qualche scarto. Il testo ci mostra in azione un prosatore di scuola leopardiana, di quelli capaci di riscaldare il ragionamento più rigoroso con la passione e l'uso appassionato della letteratura. (S.L.L.)

Qualche mese fa, con alcuni amici a Bologna, un pomeriggio di domenica. Intorno a noi scendeva una sera piena di voci e di folla, il “serale animamento” di cui discorre Campana, proprio a proposito di Bologna. I due amici discutevano di filosofia, di marxismo, con puntiglioso accanimento. Io li ascoltavo, ma solo di rado mettevo qualche parola, perché quando i miei amici filosofi discorrono in linguaggio tecnico, mi vergogno della mia scarsa dimestichezza con quel linguaggio e non valgono le loro affettuose proteste con le quali vogliono assicurarmi che esso non ha nessun particolare valore ed è solo una convenzione sì che esiste una traducibilità di un linguaggio nell’altro, entro certi limiti almeno, e, in questo caso, del mio nel loro. Ero stanco per di più, e non mi piaceva ascoltare quella energia dialettica e quella capacità di mantenersi sul filo di una sequenza logica. Non ho mai avuta simpatia per i silenzi sornioni, di chi giudica le dispute letterarie o filosofiche vanità giovanili e fatue perdite di tempo; e poi torna a casa e, nella facile superiorità della solitudine, giudica gli altri o conforta se stesso. La discussione verteva, mi pare, sulla finale identità di storia umana e storia naturale nel pensiero di Marx; e procedeva intorno all’esegesi storica dei passi marxisti sull’argomento […].
Così parlando era venuto buio in terra e intorno a noi si faceva più fitta la folla. Tra gli alberi di un parco si accendevano le luci della festa dell’ “Avanti!” e illuminavano le bandiere, i grandi pannelli dove disegni e scritte raccontavano la storia del Partito Socialista Italiano. Veniva l’odore forte dei brigidini e delle sfogliate, la gente comprava pagnotte imbottite di salame, radio e fisarmoniche suonavano, famiglie intere con rossi berretti di carta in capo merendavano tra i prati, tra la folla riconoscevi quegli eterni vecchi socialisti delle nostre campagne, venuti dal Modenese, dal Reggiano, dalla Romagna o dalle sezioni cittadine, con il distintivo o il garofano all’occhiello e la bandiera della sezione sottobraccio, svitata in due parti l’asta di metallo cromato. E su tutto, dagli altoparlanti nascosti tra le frasche irrigidite dai fari elettrici, si abbatteva la voce enorme e rauca di Nenni.

In quella voce persuasiva e densa, che recava, ma senza alcuna volgarità, gli accenti stessi del socialismo-passione, in quello ch’esso ha di più elementare e di più indomabile, si poteva sentire, con l’eco dell’antica ansia di giustizia egualitaria, l’ansia nuova, segreta e preveggente per la spietata realtà militare del conflitto, per le forme nuove e imprevedute assunte dalla lotta delle classi. Il fiato di Nenni ansava negli altoparlanti e vi crosciava dentro - quando evocava le stragi della Werhmacht, l’arbitrio governativo, la connivenza con la corruzione – l’applauso della folla adunata. Pure, dove noi eravamo, se taluni ascoltavano immobili, i più si muovevano, passeggiando, mangiando, bevendo, porgendo un orecchio ora all’orchestrina e alla fisarmonica ora alla voce di Nenni, dalle inflessioni familiari, come, senza bisogno di seguirne ogni volta il senso ma ogni volta ripetendosene il significato complessivo di comprensione e d’ammonimento, si ascolta la parola del parroco o quella del vecchio padre. 
Come quella, infinite altre sere di domenica dovevano essere passate, mi sembrava, per quella gente, a sentir ripetere le parole di giustizia, speranza e lotta: ed erano state anche lotta e paura e uccisione. Ora, dopo l’ultimo applauso, avrebbero invaso i viali, i tram, i caffè della città, incrociando senza nemmeno avvedersene i gruppi sempre più sparuti delle vecchie donne che escono dalla novena. Quella medesima mattina avevo osservato Nenni mentre parlava, quel suo collo cotto e tutto quadrettato di rughe come l’hanno certi animali tenaci. Avevo ascoltato quel suo modo di parlare, capace di concedere una vibrazione autentica alla frase più prudente e consunta; e anzi, come già altre volte, m’era parso che quell’uomo dovesse compiere uno sforzo su se stesso per ricordarsi d’essere un politico cui non è permesso abbandonarsi alla passione o all’immediatezza, e m’era sembrato di avvertire, insieme ad una impercettibile vena di distacco non inquinata mai di cinismo, la sua malinconia che è di saggezza, di fedeltà a chi fedeltà ti chiede, di quel primo e irripetibile momento del socialismo premarxista che è la nascita a coscienza ed uguaglianza di chi è stato fatto vivere nell’incoscienza e nella diseguaglianza. Ed era come se la voce di Nenni, nelle concitate interrogazioni che il vento della sera faceva riecheggiare tra gli alberi, volesse proteggere quell’indefinibile bene che è il socialismo degli italiani, quello che anch’io pur avevo tante volte bestemmiato, per la sua debolezza e pigrizia, e per il suo conforto di provincia; proteggerlo, o portarlo incolume, dalla forza di sopraffazione che i cervelli elettronici, i grandi piani industriali, le forme estreme del mondo moderno elaborano nelle lontane capitali, in linguaggi indecifrabili. 
Che cosa avevamo a fare noi, e le nostre discussioni sui Manoscritti economico-filosofici o su Lukàcs, con le sezioni socialiste, dove il ritratto di Matteotti è come uno stravolto cristo di rimorso e i vecchi ripetono parole monotone davanti al corto bicchiere di vino, e anche i ritratti dei giovani che furono uccisi dieci anni fa per un fazzoletto rosso non somigliano più a quanto rimane in noi di speranza e di coraggio? Le avevamo abbandonate, quelle sezioni; o non c’eravamo mai andati. […]
Che cosa diremo allora, anche indirettamente, anche nei nostri difficili discorsi, a questa gente – a quell’ometto laggiù, a quella ragazza, a quel vecchio? Se ci chiedessero – e ce lo chiedono infatti – per che cosa devono vivere, sapremmo noi cosa rispondere? E a chi dovesse morire questa serra, sapremmo noi che cosa dire, o di quali pensieri caricare il nostro silenzio? E, nelle nostre giornate, ce lo chiediamo veramente noi stessi? […]
Queste domande, per vergogna ormai, non le ponevo ai miei amici. Ma anch’essi tacevano. La grande riunione sfollava il parco, la festa si chiudeva; era davvero una sera di domenica. Udivo un canto di Bandiera rossa e in quello un verso che mi è parso riassumere tutta un’ingenua ma vittoriosa fiducia: “Noi siamo in tanti”. Infatti la gente che ci passava accanto ci credeva uguali. Noi non curavamo più di volerlo parere o essere. Ma la forza dell’angolo di terra e di storia dove ci è sortito di vivere è più grande di noi e si dimostra nella impossibilità di ridurci stranieri. Eguali di questo popolo malnoto, in questa speranza ostinata che neppure osa spiegarsi intera, noi, anche più di quanto ci è dato sapere, lo siamo. Ma questa comunanza o identità di destino appare solo se veduta da lontano; in realtà, per noi, la lacerazione e la contraddizione rimangono. Né il socialismo né il comunismo possono far altro che aiutare a viverla intera. Aiutare a quella risoluzione obiettiva della tensione e della differenza che né l’astratta passione intellettuale né le presenti forme di impegno politico sono capaci di dare. Forse il distacco reale, e cioè senza rimpianto, è la vera condizione d’una partecipazione possibile.

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