Prediche inutili si chiamarono le riflessioni che Luigi Einaudi, compiuto il suo settennato da Presidente della Repubblica, cominciò a diffondere dal 1955 in forma di dispensa e pubblicò in volume nel 1959. Negli anni del boom economico, il grande liberale osservava ed indicava le debolezze non solo economiche, ma anche civili e morali della crescita italiana. Nonostante il titolo sconsolato e autoiroico quelle sue pagine esercitarono una grande suggestione nella cultura e nella politica italiana, soprattutto nel mondo laico e nella sinistra.
A quel titolo m’è accaduto di pensare leggendo sabato 16 le cronache del discorso di Giorgio Napolitano, in occasione della intitolazione ad Aldo Moro dell’Università di Bari. Il Presidente ha ripetuto la tiritera che ormai da anni caratterizza quasi tutte le sue esternazioni: “Le grandi riforme siano condivise”. Al tempo di Cossiga, che fu il primo ad avvalersene con metodicità, specie nella fase delle famose “picconate”, il diritto del Presidente della Repubblica ad interventi politici di parte fu contestato da Marco Pannella. Sosteneva con buone ragioni, che nel dibattito politico, secondo la Costituzione, il Presidente interviene solo con messaggi scritti diretti alle Camere e che la cosiddetta “moral suasion” è una forzatura, se non una violazione. Ma forse anche il leader radicale ha dovuto rassegnarsi a quella che all’inizio gli sembrava una sistematica invasione di campo ed è diventata "costituzione materiale".
E’ certo comunque che Napolitano, specialmente da quando “coabita” con Berlusconi, non ha mai svolto una mera funzione arbitrale ed ha esposto la sua opinione di parte senza limitazioni o autocensure. La tesi fondamentale è che nella seconda parte della Costituzione e nella legislazione ordinaria occorrano grandi riforme che rendano più efficiente il governo e ammodernino le strutture della convivenza civile.
E’ una tesi discutibile. Si può legittimamente pensare che le norme costituzionali, più che modificate, vadano applicate e, semmai, marginalmente corrette; che le Costituzioni sono oggetti da maneggiare con molta attenzione e modificare poco e raramente; che le riforme necessarie possono farsi senza intaccare la norma fondamentale. Io lo penso e non mi sento portatore di un’opinione estrema, ostile alla Repubblica.
In realtà Napolitano ragiona da politico politicante e vuole interpretare un ruolo all’interno degli schieramenti parlamentari dati, delle forze politiche così come sono. Sappiamo che è, da molto tempo, sostenitore dell’integrazione politica dell’Europa, ma sulle riforme istituzionali e costituzionali italiane non ha mai espresso posizioni organiche, il suo è sempre stato un discorso sul metodo. L’obiettivo cui sembra oggi mirare è che le principali forze politiche della cosiddetta Seconda Repubblica reciprocamente si riconoscano e insieme scrivano le regole. Napolitano e quelli come lui non sembrano desiderare tanto una nuova Costituzione, quanto un nuovo, ed esclusivo, “club dei costituenti”, un “arco costituzionale” che non permetta l’emergere di forze nuove, di una nuova sinistra per esempio.
Ma la destra che oggi governa, nelle sue componenti più forti ed aggressive, vuole riorganizzare la politica e la società secondo i suoi valori e le sue convenienze e perciò non si accontenta di modificare la Costituzione del 48, nata dalla Resistenza, vuole abbatterla. Aldo Tortorella nell’ultimo numero di “Critica marxista” ci ha saggiamente spiegato come la nozione gramsciana di “sovversivismo dall’alto” non basti più. Gramsci intendeva indicare “una politica di arbitrii e di cricca personale e di gruppo” in luogo di un “inesistente dominio della legge”. Questa è forse la fotografia della realtà attuale, ma è in atto un più insidioso “sovversivismo di governo”, cioè un uso del potere politico che tende a mutare le regole della convivenza. “Quel che si vuole – scrive Tortorella – è il cambiamento delle forme di reggimento dello Stato intaccando norme fondamentali della democrazia liberale, di cui pure ci si riempie la bocca: in primo luogo, la divisione dei poteri”.
In concreto la destra progetta di mettere in riga, sotto la guida del Governo, il Parlamento, la Presidenza della Repubblica, la Corte costituzionale, la magistratura, la libera stampa. La chiave del progetto è la teorizzazione del voto popolare come fonte di un potere assoluto e intangibile, superiore ad ogni altro perché sancito dalla sovranità popolare. Quello che ne deriverebbe non è affatto un governo costituzionale, ma la tirannide. Gli individui e le minoranze sono infatti titolari di diritti che non sono disponibili per nessun potere costituente; la costituzionalizzazione della tirannide non la tempera, ma la ribadisce.
Sono temi di cui si è ampiamente discusso e su cui non serve aggiungere argomenti, semmai una domanda. Con Berlusconi e la Lega si possono prospettare riforme condivise? Napolitano e, forse, Bersani pensano di sì. Ritengono che sia possibile “civilizzare” questa destra, frenare i suoi radicalismi e i suoi deliri di onnipotenza, “ridurre il danno” che da sola potrebbe fare e costruire insieme ad essa un nuovo sistema politico. Io penso che andrebbe invece scelta la via di una opposizione rigorosa alle riforme costituzionali della destra da diffondere senza impazienze e con intelligenza nel paese, perché, quand’anche passino in Parlamento, sia poi possibile respingerle con l’arma referendaria.
Una simile via non è certo apprezzata dagli opportunisti. Essi temono la sconfitta e non vorrebbero combattere. Pensano che quando non si ha la maggioranza bisogna accontentarsi dell’unanimità.
Ma se si infilano nel “dialogo, corrono (corriamo) un gravissimo rischio. Non è affatto detto che la destra voglia associarli alle sue riforme, anzi alla sua “rivoluzione”: potrebbero essere esclusi loro malgrado. E, a quel punto, non sarebbero in grado di condurre un’opposizione minimamente credibile. Sarebbe un disastro per loro e per tutti. E’ ora che Napolitano la smetta di suggerire la “condivisione”: le sue prediche insistenti più che inutili sono dannose.
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